Storia della decadenza e rovina dell'Impero romano/66

CAPITOLO LXVI

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CAPITOLO LXVI.

Sollecitazioni degl'Imperatori d'Oriente appo i Pontefici. Viaggi di Giovanni Paleologo I, di Manuele e di Giovanni II alle Corti dell'Occidente. Unione delle Chiese greca e latina proposta nel Concilio di Basilea ed eseguita a Ferrara e a Firenze. Stato della letteratura a Costantinopoli. Suo rinascimento in Italia, ove i Greci fuggiaschi la trasportarono. Curiosità ed emulazione de' Latini.

[A. D. 1339] Durante i quattro ultimi secoli dell’Impero, i contrassegni or di considerazione, or di nimistà che verso il Pontefice i greci Principi manifestarono, potrebbero riguardarsi come il termometro delle loro angustie, o della loro prosperità, dell’innalzamento, o della caduta delle barbare dinastie. Allorchè i Turchi Selgiucidi, invadendo l’Asia, minacciarono Costantinopoli, abbiamo veduto gli Ambasciatori d’Alessio implorare al Concilio di Piacenza la protezione del Padre comune de’ Cristiani. Non appena i pellegrini francesi ebbero respinto ad Iconium il Sultano di Nicea, gl’Imperatori di Bisanzo riassunsero, o dal dissimularlo si stettero, il loro astio e connaturale disprezzo verso gli scismatici dell’Occidente: imprudenza che la caduta del loro Impero affrettò. Il tuono mansueto ed affettuoso di Vatace contrassegna l’epoca dell’invasione de’ Mongulli. Dopo la presa di Costantinopoli, e fazioni, ed estranei nemici crollarono il trono del primo Paleologo. Finchè la spada di Carlo gli stette sospesa sul capo, corteggiò [p. 417 modifica]abbiettamente il Pontefice, sacrificando al pericolo del momento la sua fede, la virtù e l’affetto de’ sudditi. Dopo la morte di Michele, il Principe e il popolo sostennero l’independenza della loro Chiesa e la purezza del greco simbolo. Andronico il Vecchio nè temeva, nè amava i Latini: nell’ultime sue sventure, l’orgoglio francheggiò le sue superstizioni, perchè non potea decentemente ritrattare, sul finir di sua vita, le opinioni che avea con fermezza negli anni della gioventù sostenute. Andronico il Giovane, invilito e dallo stato in cui si trovava, e per indole propria, al primo vedere la Bitinia invasa dai Turchi, sollecitò una Lega spirituale e temporale co’ Principi dell’Occidente. Dopo cinquant’anni di separazione e silenzio, il frate Barlamo venne segretamente deputato al Papa Benedetto XII con insidiose istruzioni, che scritte pareano dall’abile mano del Gran Domestico1. „Santissimo Padre, il monaco gli dicea, l’Imperatore non desidera meno di voi l’unione delle due Chiese: ma in un’impresa sì delicata si vede costretto a rispettare la propria dignità e i pregiudizj de’ sudditi. Due temperamenti sonovi da adoprarsi, la forza, o la persuasione. L’insufficienza del primo è già dimostrata abbastanza dalla esperienza, perchè i Latini hanno soggiogato l’Impero [p. 418 modifica]senza poter cambiare l’opinione degli abitanti. La persuasione, più lenta, offre ad un tempo una via più salda e sicura. Trenta, o quaranta de’ nostri dottori deputati appo voi, si accorderebbero forse con quelli del Vaticano nell’amore della verità e nell’unità del Simbolo. Ma di ritorno alla patria, qual sarebbe il frutto, o il guiderdone delle loro pratiche? Lo sprezzo de’ confratelli, e i rimproveri di una cieca ed ostinata nazione. Cionnullameno i Greci han per costume di rispettare i Concilj generali, da cui determinati vennero gli articoli di nostra Fede; e se i decreti di Lione ricusano2, ne è stata cagione il non volere nè ascoltare, nè ammettere i rappresentanti della Chiesa orientale in quest’arbitraria adunata. A compiere una così pia impresa, gioverà e farà anzi mestieri che un Legato intelligente, trasferendosi in Grecia, colà raccolga i Patriarchi di Costantinopoli, di Alessandria, di Antiochia e di Gerusalemme, e si concerti con essi per convocare un Sinodo libero e universale. Ma in tale momento, aggiugnea lo scaltrito messo de’ Greci, l’Impero può tutto temere dall’invasione de’ Turchi, già impadronitisi di quattro principali città della Natolia. Quegli abitanti manifestano ardentissimi voti per tornare sotto l’obbedienza del loro Monarca e in seno alla religione dei lor padri; però non bastando a renderli paghi in ciò le forze e le rendite dell’Imperatore, sarebbe da desiderarsi che il Legato appostolico venisse scortato e preceduto da un esercito di Franchi, a fine di scacciar gl’Infedeli e riaprire la via del Santo Sepolcro„. [p. 419 modifica]Prevedendo il caso che i sospettosi Latini pretendessero anticipatamente qualche mallevadore, o pegno della fedeltà de’ Greci, Barlamo avea preparata una ragionevole e convincente risposta. „l. l’unione delle due Chiese potendo solamente avverarsi colla convocazione di un Sinodo generale, si rende questa impossibile prima di aver liberato dal giogo de’ Maomettani i tre Patriarchi dell’Oriente e un gran numero d’altri Prelati. 2. L’inasprimento degli animi de’ Greci derivando da antiche ingiurie e da una lunga tirannide, a cattivarli di nuovo fa d’uopo di qualche fratellevole atto, di qualche efficace soccorso che invigorisca l’autorità e gli argomenti dell’Imperatore e de’ partigiani della unione proposta. 3. Quand’anche rimanesse qualche differenza, o intorno a minori punti di fede, o alle cerimonie, non quindi i Greci dovrebbero men riguardarsi i discepoli di Gesù Cristo, mentre i Turchi sono i comuni nemici di chiunque porti il titolo di Cristiano. E l’Armenia e l’isola di Cipro sono egualmente assalite; che sarebbe la pietà de’ Principi franchi, se non si armassero tutti alla difesa generale della comune religione? 4. Supponendo perfino che eglino considerassero i sudditi di Andronico come i più odievoli fra gli scismatici, fra gli eretici, fra gli stessi Pagani, non è interesse de’ Principi dell’Occidente l’acquistarsi un utile confederato, il proteggere un Impero vacillante, in cui stassi il baloardo delle frontiere d’Europa, l’unirsi ai Greci contro i Turchi, nè aspettare che questi ultimi, conquistata la Grecia, le forze e i tesori della medesima adoperino per portare le armi lor vincitrici in seno dell’Europa?„. I Latini con fredda e disdegnosa indifferenza para[p. 420 modifica]rono le offerte, gli argomenti e le domande di Andronico. I Re di Francia e di Napoli rifiutarono i pericoli e la gloria di una Crociata. Il Papa negò questa necessità di convocare un nuovo Concilio per regolare articoli di fede già stabiliti; ed anzi per rispetto alle antiche pretensioni dell’Imperator d’Occidente e del Clero latino, nel rispondere all’Imperator greco usò di un soprascritto irritante: „Al Moderator3 (che equivaleva a governatore) de’ Greci, e ai sedicenti Patriarchi della Chiesa d’Oriente„. Per una tale ambasceria i Greci non potevano scontrarsi in una circostanza e in un’indole d’uomo men favorevole. Benedetto XII4 era uno screanzato villano, sempre pieno di scrupoli, e fatto più stupido dal vino e dalla pigrizia. Sia pure riuscito colla sua vanità ad arricchire di una terza corona la tiara; ma era egualmente inabile a governare il regno e la Chiesa. [p. 421 modifica]

[A. D. 1348] Dopo la morte di Andronico, i Greci, in preda alle guerre civili, non ebbero il tempo di pensare all’unione generale de’ Cristiani. Ma poichè Cantacuzeno ebbe vinti e graziati i suoi nemici, si accinse a giustificare, o almeno ad attenuare la colpa di avere introdotti i Turchi in Europa, e maritata la propria figlia ad un Principe musulmano. Due imperiali ministri, accompagnati da un interprete latino, per ordine di lui trasferironsi alla Corte del Pontefice romano, trapiantata nella città d’Avignone in riva al Rodano, ove per settant’anni rimase. Dopo essersi adoperati a dimostrare la crudele necessità che avea costretto il loro Monarca a mettersi in lega cogl’Infedeli, fecero, a norma delle ricevute istruzioni, sonare all’orecchio del Pontefice le speciose ed edificanti parole di Crociata e di Unione. Il Pontefice Clemente VI5, successore di Benedetto XII, gli accolse con affabilità e onorevolmente, mostrandosi commosso dalle sventure, convinto del merito, persuaso dell’innocenza di Cantacuzeno; ed ottimamente istrutto dello stato e delle vicissitudini del greco Impero, che gli erano state descritte minutamente da una matrona savoiarda del seguito dell’Imperatrice Anna6. Se mancavano a Clemente le virtù di un sa[p. 422 modifica]cerdote, possedeva almeno l’elevatezza o la magnificenza di un Principe, distribuendo colla stessa facilità i benefizj e i reami. Regnando esso, Avignone fu la residenza del fasto e dei piaceri. Giovine, avea superato in licenziosità di costumi qualunque Barone: Pontefice, il suo palagio e la sua stanza da letto vedeansi continuamente abbelliti, o disonorati7 dalla presenza di favorite. Le guerre tra l’Inghilterra e la Francia non permetteano si pensasse a Crociate; pur questo luminoso disegno lusingò la vanità di Clemente che deputò due Prelati latini per accompagnare gli Ambasciadori di Cantacuzeno in Grecia. Giunti a Costantinopoli, l’Imperatore e i Nunzj si fecero scambievoli complimenti sulla comune eloquenza e pietà; sicchè i continui lor parlamenti si aggirarono in lodi e promesse con cui si piaggiavano mutuamente senza fidarsene nè l’un, nè gli altri. „Non capisco in me per la gioia, il divoto Cantacuzeno lor diceva, in pensando alla nostra guerra santa; essa farà la mia gloria personale ad un tempo, e il bene di tutt’i Cristiani. I miei Stati offriranno agli eserciti francesi un libero e sicuro passaggio; i miei soldati, le mie galee, i miei tesori consagrati alla causa comune; e, oh come sarebbe invidiabile il mio destino, se giungessi a meritarmi ed ottenere la corona di martire! Mi mancano i [p. 423 modifica]mentmini per dipingervi con quanto ardore io desideri questa unione de’ membri sparsi della Chiesa di Gesù Cristo. Se potesse a ciò contribuir la mia morte, offrirei con giubilo il mio capo e la spada mia per ferirlo; e se questa spirituale fenice dovesse nascere dalle mie ceneri, m’innalzerei la mia pira io medesimo e le metterei fuoco colle mie proprie mani„. In mezzo a questi discorsi però l’Imperator greco si prese la libertà di notare che l’orgoglio e l’inconsideratezza de’ Latini aveva inseriti quegli articoli di Fede, per cui le due Chiese divise trovavansi; biasimò la condotta servile e tirannica del primo Paleologo, protestando che non sommetterebbe mai la propria coscienza se non se ai liberi decreti di un Sinodo generale. „Le circostanze, egli continuava, son tali da non permettere nè al Papa, nè a me, di unirci o a Costantinopoli, o a Roma; ma ben può scegliersi una città marittima sui confini d’entrambi gl’Imperi per adunare i Vescovi e istruire i Fedeli dell’Oriente, e dell’Occidente„. Contenti a tali proposizioni si mostrarono i Nunzj; e Cantacuzeno ostentò il massimo dolore nel vedere le sue speranze distrutte per la morte di Clemente, e pel diverso animo del successor di Clemente. Cantacuzeno visse ancor lungo tempo, ma rinchiuso in un chiostro, d’onde l’umile monaco non potea, che con preghiere a Dio, adoperare influenza sulla condotta del suo pupillo e sui destini dell’Impero8.

[A. D. 1355] Ciò nulla meno di tutti i Principi di Bisanzo, niuno [p. 424 modifica]fuvvene più del pupillo Giovanni Paleologo proclive a ritornare all’obbedienza del romano Pontefice. La madre di lui, Anna di Savoia, era stata battezzata nel grembo della Chiesa latina, e se le nozze contratte con Andronico l’aveano costretta a cambiar nome, forme d’abito e culto, il cuor della medesima al suo paese e alla sua religione si manteneva fedele. Incaricatasi ella stessa di educare il proprio figlio, quando questi divenne adulto, almen di statura, se non di mente, continuò a lasciarsi governar dalla madre. Allorchè, per la rinunzia di Cantacuzeno, ei si trovò solo padrone della Monarchia greca, i Turchi comandavano sull’Ellesponto. Il figlio di Cantacuzeno adunava ribelli ad Andrinopoli, e questo Imperatore non potea fidarsi nè del suo popolo, nè di sè stesso. Così consigliato dalla madre, e colla speranza d’uno straniero soccorso, sagrificò i diritti della Chiesa e dello Stato; e s’incaricò un Italiano di portar segretamente al Pontefice l’atto di schiavitù9 che l’Imperatore avea sottoscritto con inchiostro purpureo, e suggellato con bolla d’oro. Il primo articolo del Trattato stavasi in un giuramento di fedeltà e d’obbedienza ad Innocenzo VI e a’ suoi successori Pontefici supremi della Chiesa cattolica e romana. Promettea l’Imperatore di porgere ai Nunzj, o Legati pontifizj, ogni sorte d’onori legittimamente ad essi dovuti, di far allestire un palagio per riceverli, una chiesa per le loro cerimonie; per ultimo di conse[p. 425 modifica]gnare il suo secondogenito Manuele, come ostaggio e mallevadore di fedeltà. In contraccambio di tali concedimenti, chiedeva un pronto soccorso di quindici galee, di cinquecento armigeri, di mille arcieri che contro i suoi nemici Cristiani e Musulmani lo difendessero. Promise inoltre di far sottomessi i suoi popoli e il suo Clero all’autorità spirituale del romano Pontefice; e per vincere la resistenza ch’ei prevedeva per parte de’ Greci, propose i due efficaci espedienti della educazione e della seduzione. Il Legato ottenea facoltà di distribuire i benefizi vacanti a quegli ecclesiastici che avrebbero sottoscritto il simbolo del Vaticano. Instituite tre scuole per insegnare alla gioventù di Costantinopoli la lingua e la dottrina dei Latini; il nome di Andronico, figlio dell’Imperatore ed erede dell’Impero, sarebbe comparso il primo nella lista degli studenti. In conclusione Paleologo, protestava che se tutte le sue sollecitudini fossero divenute superflue, se la forza e la persuasione non avessero bastato, egli si sarebbe reputato immeritevole della corona, trasferendo in tal caso ad Innocenzo tutta la sua autorità imperiale e paterna, e ampio potere di regolare la famiglia cesarea e l’Impero, e di prescrivere quelle nozze che ei giudicasse meglio ad Andronico, successore della greca Corona. Ma un tale Trattato non fu mai nè pubblicato, nè eseguito; e il soccorso de’ Romani e la sommessione de’ Greci non si stettero che nell’immaginazione di un imbelle Sovrano, salvato, pel solo segreto con cui si passarono le cose, dal pubblico disdoro di una inutile umiliazione.

[A. D. 1369] Non andò guari ch’egli si vide cinto per ogni banda dall’esercito vittorioso de’ Turchi, e perduta Andri[p. 426 modifica]nopoli e la Romania, ridotto alla sola Capitale, dovette prostrarsi vassallo dell’orgoglioso Amurat colla meschina speranza di essere l’ultima fra le prede di questo Selvaggio. In tale stato d’invilimento, si abbandonò alla risoluzione di veleggiare a Venezia, d’onde corse a gettarsi a’ piedi del Santo Padre. Fu egli il primo Sovrano greco di Bisanzo che avesse ancora visitate le regioni incognite dell’Occidente; ma come sperar altrove consolazioni e soccorsi? E per altra parte, ei trovava minore umiliazione alla sua dignità il presentarsi dinanzi al Sacro Collegio, che alla Porta Ottomana. Dopo esserne stati per lungo tempo lontani, i Pontefici ritornavano allora dalle rive del Rodano a quelle del Tevere. Urbano V10, Pontefice di un’indole mansueta e virtuosa, avendo incoraggiata, o permessa la peregrinazione del Principe greco, il palagio del Vaticano ricevette nel medesimo anno due fantasmi d’Imperatori che rappresentavano, l’uno la maestà di Costantino, l’altro quella di Carlomagno. In tal supplichevole visita, il Sovrano di Costantinopoli, in cui ogni sentimento di vanità cancellato aveano le sciagure, portò la sommessione dei detti e delle forme oltre a quanto non potesse immaginare. Obbligato primieramente a sottoporsi ad un esame, riconobbe da buon cattolico, alla presenza di quattro Cardinali, la supremazia del [p. 427 modifica]Pontefice e la doppia successione dello Spirito Santo. Dopo questa purificazione, introdotto ad una udienza pubblica nella chiesa di S. Pietro, ove Urbano sedeasi in trono, circondato da un corteggio di Cardinali, il Principe greco, dopo tre genuflessioni, baciò devotamente il piede, indi la mano e finalmente la guancia del Santo Padre che celebrò alla presenza di lui una Messa solenne, gli permise tener la briglia della sua mula, e lo convitò a lauto banchetto nel Vaticano. A malgrado di questo amichevole a decoroso ricevimento, Urbano concedè qualche preferenza all’Imperator d’occidente11, nè Paleologo ottenne il raro privilegio di cantar, come diacono, l’Evangelio12. Non si stette Urbano dall’eccitare lo zelo del Re di Francia e degli altri Sovrani d’Europa a favore del suo proselito: ma in troppe faccende li teneano i loro particolari litigi perchè alla causa generale volgessero la mente. Quindi l’Imperator greco si vide costretto a fondare le ultime sue speranze sopra un mercenario [p. 428 modifica]inglese Giovanni Hawkwood13, o Acuto, che seguito da una banda di venturieri, intitolata la Confraternita Bianca, avea devastata tutta l’Italia dalle Alpi sino alla Calabria, vendeva i proprj servigi a chi pagar li voleva, ed era incorso in una giusta scomunica per avere assalita la residenza del Papa. A mal grado di ciò, fu autenticata dal consenso di Urbano tal negoziazione col masnadiero; ma trovatesi inferiori all’impresa le forze o il coraggio di Hawkwood, fu probabilmente ventura per Paleologo il rimanere privo di un soccorso, giusta ogni apparenza dispendioso, del certo insufficiente e forse pericoloso14. L’infelice Greco accingevasi ad abbandonare l’Italia15, [p. 429 modifica]quando un umiliante ostacolo vel rattenne. Nel passar da Venezia, egli avea prese somme ragguardevoli ad esorbitante interesse; e il suo vôto erario non somministrandogli i modi di restituirle, gl’inquieti creditori lo arrestarono per sicurezza del lor pagamento. Invano l’Imperatore scriveva al suo primogenito reggente del Regno, di prevalersi d’ogni via, e di spogliare, se facea d’uopo, gli altari per sottrar suo padre ad una ignominiosa schiavitù. Non curante del paterno obbrobrio, lo snaturato figlio in suo cuor ne rideva. Lo Stato era povero, ostinato il Clero, qualche scrupolo religioso veniva a proposito per servir di pretesto ad una colpevole indifferenza. Manuele, fratello minore, dopo avere acremente rampognato il fratel primogenito di una negligenza così contraria alla natura e a tutti i doveri, vendè, o impegnò ogni suo possedimento, e imbarcatosi per Venezia, liberò il padre suo, offerendo la sua persona medesima per guarentigia delle somme da questo dovute.  [A. D. 1370] Di ritorno a Costantinopoli, e come Imperatore, e come padre, Paleologo usò con entrambi i figli a norma di quanto aveano meritato. Ma il pellegrinaggio di Roma, non avendo cambiati in alcuna guisa nè la Fede, nè i costumi di questo indolente Monarca, la sua apostasia, o conversione inefficace, quanto poco sincera, fu dai Greci e dai Latini dimenticata egualmente16.

Trent’anni dopo il ritorno di Paleologo, gli stessi motivi fecero imprendere un viaggio in Occidente, ma [p. 430 modifica]più rilevante al Principe che gli succedè. Ho raccontato nel precedente capitolo il Trattato ch’ei fece con Baiazetto, la violazione di questo Trattato, l’assedio o blocco di Costantinopoli, e i soccorsi che gli spedirono i Francesi sotto i comandi del valoroso Boucicault17. Benchè Manuele avesse per via d’Ambasciatori implorato il soccorso de’ Principi latini, fu creduto che la presenza di un Monarca infelice, moverebbe alle lagrime i più duri cuori18 e ne otterrebbe soccorsi; nella quale speranza il Maresciallo, che insinuava questo viaggio all’Imperatore, lo precedè per disporre gli animi a ben accoglierlo. Comunque le comunicazioni di terra fossero interrotte dai Turchi, la navigazione di Venezia era aperta e sicura. Ricevuto in Italia, siccome primo, o almen secondo fra i Principi cristiani, eccitò la compassione che un Confessore e campion della fede si meritava, e tanto era il decoro di sua condotta, che una tal compassione in disprezzo non tralignò. Dopo Venezia, cercò Padova e Pavia, d’onde il Duca di Milano, benchè segretamente collegato con Baiazetto, lo fece accompagnare onorevolmente sino alle frontiere de’ suoi Stati19.  [A. D. 1400] Entrato nelle terre di Francia20, [p. 431 modifica]gli ufiziali del Re s’incaricarono di scortarlo e di pensare a tutte le spese del suo viaggio. Una cavalcata di duemila de’ più spettabili cittadini di Parigi, essendogli venuta incontro sino a Charenton, trovò a complimentarlo alle porte di Parigi il Cancelliere e il Parlamento, e Carlo VI, in mezzo ai Principi e a’ suoi Nobili, abbracciò cordialmente il fratello. Il successore di Costantino fu vestito di un abito di seta bianca, e presentato di un sontuoso bianco palafreno, cerimoniale non indifferente presso i Francesi, che riguardano il color bianco come simbolo della Sovranità. Di fatto, l’Imperator d’Alemagna che nella sua ultima visita a quella Corte, avea chiesto con alterigia il medesimo onore, provò un rifiuto, e fu costretto a contentarsi di cavalcare un cavallo nero. Alloggiato al Louvre, Manuele godè di danze e di feste che l’una all’altra si succedevano, e dei piaceri della caccia e della tavola; perchè studiosissimi si mostrarono i Francesi di sfoggiare agli occhi del Principe straniero d’ogni magnificenza che potesse alcun poco divagarlo da’ suoi dolorosi pensieri. Gli fu conceduto l’uso particolare di una cappella, onde molto maravigliarono, e si scandalezzarono forse i dottori della Sorbona, in udendo gli accenti, in vedendo le cerimonie e le vesti del Clero greco. A malgrado di ciò, ei potè fin dal primo istante accorgersi che ei non avea soccorsi a sperare dalla Francia. L’infelice Carlo VI non godea che di alcuni momenti [p. 432 modifica]di lucido intervallo, ricadendo subito nello stato di frenesia, o di stupidezza. Il Duca d’Orleans, fratello del Re, e il Duca di Borgogna, suo zio, s’impadronivano a vicenda delle redini del governo, fatal concorrenza, da cui nacque ben presto la guerra civile. Il primo di questi due Principi, giovine e d’indole ardente, si abbandonava con impeto alla sua passione che il traeva alle donne e ai piaceri. Avrebbe potuto più giovare a Manuele il secondo; del quale era figlio Giovanni, conte di Nevers, liberato di recente dalla sua cattività presso i Turchi, e giovine intrepido che avrebbe di buon grado affrontati nuovi pericoli per cancellar questa taccia; ma più prudente il padre si era prefisso di starsene alle spese e ai pericoli della prima esperienza.  [A. D. 1400] Soddisfatta che ebbe Manuele la sua curiosità, e stancata fors’anche la pazienza dei Francesi, risolvè d’andarsene in Inghilterra. Nel trasferirsi da Douvres a Londra, ebbe onorevole accoglimento del Priore e dei monaci di S. Agostino di Cantorbery. A Blackheath, trovò il Re Enrico IV, che accompagnato da tutta la sua Corte, si portò a salutare il greco Eroe, così dice il nostro vecchio Storico, del quale trascrivo esattamente le espressioni, e per più giorni ricevè a Londra tale trattamento, quale all’Imperator d’Oriente addiceasi21. Ma l’Inghilterra era [p. 433 modifica]anche men della Francia in istato d’imprendere una Crociata. In questo medesimo anno, il Sovrano legittimo era stato privato del trono e messo a morte. L’ambizioso usurpatore, Enrico di Lancastre, divorato dall’inquietudine e da’ rimorsi, non osava allontanar le sue truppe da un trono ognor vacillante per sommosse e cospirazioni; compianse, lodò, accarezzò l’Imperatore di Costantinopoli: ma se fece voto di prender la croce, fu senza dubbio per calmare il suo popolo, e fors’anche la sua coscienza, col darsi merito di questo pietoso disegno22. Colmato però di donativi e d’onori, il Principe greco vide una seconda volta Parigi, e dopo avere trascorsi due anni nelle Corti d’Occidente, e attraversata l’Alemagna e l’Italia, s’imbarcò a Venezia, aspettando pazientemente nella Morea l’istante della sua liberazione, o della sua rovina. Uno scisma intanto straziava la Chiesa latina. Due Papi, l’uno a Roma e l’altro ad Avignone, si disputavano l’obbedienza dei Re, delle nazioni, e delle corporazioni dell’Europa. L’Imperatore greco sollecito di non inimicarsi veruna fazione, si astenne da ogni corrispondenza con questi due rivali, immeritevoli entrambi e poco favoriti dalla pubblica opinione. Partì in tempo di Giubbileo, nè pensò attraversando l’Italia a chiedere, o a meritarsi l’Indulgenza plenaria, che cancella, senza obbligarli a penitenza, i peccati de’ Fedeli. Offeso di questa [p. 434 modifica]trascuratezza il Papa di Roma, accusò Manuele di poco rispetto all’immagine di Gesù Cristo, esortando i Principi italiani ad abbandonare un pertinace scismatico23.

[A. D. 1402] In tempo delle Crociate i Greci aveano considerato con terrore e sorpresa eguali il corso delle migrazioni che continue erano dai paesi per loro incogniti dell’Occidente. Le peregrinazioni degli ultimi Imperatori, avendo squarciato questo velo di separazione, impararono a conoscere meglio le poderose nazioni dell’Europa, nè più osarono insultarle colla denominazione di barbare. Uno Storico greco di quel secolo24 ha conservate le considerazioni fatte dal Principe Manuele, e dai più curiosi osservatori che lo accompagnarono. Ho raccolte queste sparse idee per offrirle in compendio ai miei leggitori, ai quali forse non dispiacerà il vedere questo grossolano ab[p. 435 modifica]bozzo di pittura dell’Alemagna, della Francia e dell’Inghilterra, lo stato antico e moderno de’ quali paesi è a noi così noto. „l. l’Alemagna, dice Calcocondila, è un vasto paese, che si estende da Vienna fino all’Oceano, da Praga in Boemia sino al fiume Tartesso e ai Pirenei25. (Non dubito che questa geografia ne parrà alquanto strana). Il suolo è assai fertile, benchè non produca nè fichi, nè olive: sano l’aere, gli uomini ben complessi e di vigorosa salute. Rare volte si provano in queste settentrionali contrade i flagelli della peste e del tremuoto. Dopo gli Sciti, o i Tartari, gli Alemanni, o Germani possono venir riguardati come le più numerose delle nazioni. Valorosi e pazienti, se tutte le loro forze obbedissero ad un solo Capo, non vi sarebbe popolo che ai medesimi potesse resistere. Hanno ottenuto dal Papa il privilegio di eleggere l’Imperator de’ Romani26; e il Patriarca latino, non ha sudditi più zelanti o sottomessi degli Alemanni. La maggior parte di questi paesi è divisa fra Principi e Prelati. Ma Strasburgo, [p. 436 modifica]Colonia, Amburgo, e più di dugento città libere, formano altrettante Repubbliche confederate, rette da leggi giuste e sagge, e conformi all’interesse e alla volontà generale. I duelli, o singolari certami a piedi, vi sono in grande uso così in tempo di pace come di guerra. Eccellenti in tutte l’arti meccaniche i Germani, dobbiamo alla loro industria il trovato della polvere e de’ cannoni, conosciuti oggidì dalla maggior parte de’ popoli. 2. Il regno di Francia si estende all’incirca quindici, o venti giorni di cammino dall’Alemagna alla Spagna, e dalle Alpi sino al mare che separa la Francia dall’Inghilterra. Vi si trova grande copia di fiorenti città. Parigi, residenza dei Re, supera tutte le altre città in lusso e ricchezze. Molta mano di Principi e Signori si conducono alternativamente al palagio del Monarca, e lo riconoscono per loro Sovrano. I più potenti sono i Duchi di Brettagna e di Borgogna; il secondo di questi possede le ricche province della Fiandra, i cui porti veggonsi frequentati dai nostri trafficanti e da quelli de’ più remoti paesi. La Nazione francese è antica ed opulenta; la sua lingua e le sue costumanze, benchè con qualche differenza, non si allontanano del tutto da quelle degl’Italiani. La dignità imperiale di Carlomagno, le vittorie riportate dai Francesi sui Saracini, le imprese de’ loro eroi Olivieri ed Orlando27 li fanno tanto superbi, che si [p. 437 modifica]credono il primo popolo dell’Occidente, ma tale insensata vanità è stata di recente umiliata dal sinistro esito della loro guerra contro gli Inglesi, abitatori dell’isola della Brettagna. 3. La Brettagna di rincontro alle coste di Fiandra, in mezzo all’Oceano, può considerarsi come una o tre isole congiunte per uniformità di costumi e di lingua sotto uno stesso Governo. La sua circonferenza è di cinquemila stadj; coperto il paese di un gran numero di città e di villaggi, produce poche frutta, e privo di viti, abbonda di orzo, di frumento, di mele e di lana. Vi si fabbricano da quegli abitanti molti tessuti di panni e di drappi. Londra28 capitale, per lusso, ricchezza e popolazioni, vince tutte le altre città di Occidente. È situata sul Tamigi, fiume largo e rapido, che dopo trenta miglia sbocca nel mar della Gallia. Il flusso e il riflusso offrono ogni dì ai navigli di commercio la facilità di entrare in quel porto, e di uscirne senza pericolo. Il Re è Capo di una possente e torbida aristocrazia. I primarj vassalli possedono i loro feudi [p. 438 modifica]come franchi allodj ereditarj; le leggi determinano per essi i limiti dell’autorità e della obbedienza. Cotesto reame fu spesse volte lacerato dalle fazioni e conquistato dagli stranieri; pur gli abitanti ne sono coraggiosi, robusti, famosi in armi e vittoriosi alla guerra. I loro scudi somigliano a quelli degl’Italiani; le loro spade alle greche; il nerbo delle forze è posto nella molta abilità degli arcieri. Il loro linguaggio non ha veruna affinità cogli altri del Continente; ma nelle consuetudini del vivere, poco dai Francesi diversano. La principale singolarità delle lor costumanze, è il disprezzo della castità delle donne e dell’onor coniugale. Nelle visite scambievoli che si fanno, il primo atto di ospitalità è permettere agli ospiti gli amplessi delle mogli e delle figlie. Fra amici, si veggono chieste e date ad imprestito senza vergogna, e senza che siavi chi si formalizzi di questo stravagante commercio, e delle conseguenze inevitabili che ne derivano29„. Istrutti siccome lo siamo noi degli usi dell’antica Inghilterra e certi della virtù delle nostre matrone, non possiamo starci dal sorridere sulla credulità, o dallo sdegnarci dell’ingiustizia dello Storico greco, che ha confuso, non v’ha dubbio, un decente amplesso di cerimonia30 colle [p. 439 modifica]colpevoli dimestichezze, ma questa medesima ingiustizia, o credulità possono esserne utili coll’insegnarci ad aver per dubbie le descrizioni che, sui paesi stranieri e lontani da lor visitati, i viaggiatori ne offrono, e a non credere sì di leggieri que’ fatti che ripugnano all’indole dell’uomo e ai sentimenti della natura31.

[A. D. 1402-1417] Dopo la vittoria riportata da Timur, Manuele, tornato in Bisanzo, vi regnò diversi anni felicemente ed in pace; e finchè i figli di Baiazetto lo cercarono in amicizia e ne rispettarono i piccioli Stati, si tenne alla vecchia religione de’ Greci, componendo ne’ suoi ozj venti dialoghi teologici in difesa del suo passato contegno. Ma miglioratosi lo stato de’ suoi vicini, gli Ambasciatori greci portarono al Concilio di Costanza32 la contemporanea notizia del risorgimento della Potenza ottomana e della Chiesa latina in Costantinopoli. Le conquiste di Amurat e di Maometto aveano tornato ad avvicinare l’Imperatore al Vaticano; l’assedio di Costantinopoli lo fe’ quasi convenire sulla duplice processione dello Spirito San[p. 440 modifica]to; talchè appena Martino V spacciatosi da’ suoi rivali, occupò solo la Cattedra Pontificia, tornò ad esservi fra l’Oriente e l’Occidente un’amichevole corrispondenza di lettere e di ambascerie.  [A. D. 1417-1425] L’ambizione da una banda, la sfortuna dall’altra, dettavano accenti di pace e di carità. Manuele ostentando la brama di maritare i sei Principi suoi figli con altrettante Principesse italiane, il Pontefice, non meno accorto di lui, s’adoprò tanto di far giungere a Costantinopoli la figlia del marchese di Monferrato, seguìta da un seducente corteggio di donzelle d’alto legnaggio, i cui vezzi pareano fatti per vincere la scismatica ostinatezza; sotto apparenze esterne di zelo era però facile accorgersi che non regnava se non se la falsità e alla Corte e presso la Chiesa di Costantinopoli. Secondo che più, o meno premeva il pericolo, l’Imperatore affrettava, o prolungava le sue negoziazioni; allargava, o restrigneva la facoltà dei suoi Ministri; si sottraeva da’ Latini, se gli sembravano troppo incalzanti, coll’allegare il bisogno di consultare i Patriarchi e i Prelati, e l’impossibilità di adunarli in tempo che i Turchi teneano stretta la Capitale. Dall’esame degli atti pubblici, apparisce che i Greci insistessero su questi tre punti successivi, un soccorso, un Concilio, poi l’unione delle due Chiese; e che i Latini intanto, scansando il secondo, non volessero obbligarsi al primo, limitandosi a riguardarlo come conseguenza, e premio volontario del terzo; ma la relazione di un intertenimento privato di Manuele, ne spiegherà con maggior chiarezza l’enigma della condotta da esso tenuta, e le sue vere intenzioni. Verso il finir de’ suoi giorni, l’Imperatore avea vestito della porpora Giovanni Pa[p. 441 modifica]leologo II, figlio suo primogenito, nel quale fidavasi per la maggior parte delle cose spettanti al Governo. Trovandosi a colloquio col figlio collega (era sol presente lo storico Franza, ciamberlano favorito di Manuele33), lo stesso Manuele dilucidò al successore i veri motivi delle negoziazioni intavolate col Pontefice di Roma34. „Non ci rimane, egli dicea, altro salvamento contra i Turchi, fuor del timore che essi hanno di vederci uniti coi Latini, con quelle bellicose nazioni dell’Occidente, che al credere de’ Maomettani, potrebbero collegarsi per la nostra liberazione. Tutte le volte, pertanto, che vi vedrete posto alle strette dagl’Infedeli, mostrate loro lo spauracchio di questa unione, proponete un Concilio, entrate in negoziazioni col Papa di Roma, ma traetele sempre in lungo, e tenete lontana la convocazione di quest’Assemblea, che non vi porterebbe alcuno [p. 442 modifica]vantaggio nè spirituale, nè temporale. Già nessuna delle due fazioni vorrebbe rimoversi addietro d’un passo, o ritrattarsi; superbi i Latini, ed ostinati i Greci. Volendo voi avverare l’unione delle due Chiese, non fareste che confermare lo scisma, inimicarle, ed esporci, senza rimedio, o speranza, alla discrezione de’ Barbari„. Poco soddisfatto di questa lezione, in cui però molto avvedimento scorgeasi, il giovine Principe si alzò, e, senza profferir parola, partì. — Il prudente Monarca, continua il Franza, si pose a guardarmi, ripigliando indi così il suo discorso: — „Mio figlio si crede una grande cosa, ed ha le idee vestite all’eroica; e, meschino! non sa che in questo sfortunato secolo niuna cosa offre campo nè all’eroismo, nè alla grandezza. Il suo animo audace potea giovare ne’ tempi migliori de’ nostri antenati. Lo stato presente ha men bisogno di un Imperatore, che d’un massaio ben attento a tener conto degli avanzi di questo nostro povero patrimonio. Non ho già dimenticate le vaste speranze ch’egli fondava sulla lega con Mustafà, e temo che l’imprudente ardimento di questo giovine, e, per dir tutto, anche la pietosa sua buona fede, affrettino il precipizio della nostra Casa e della nostra Monarchia„. Intanto l’esperienza e l’autorità di Manuele valsero a scansare il Concilio, e a conservar la pace fino al settantottesimo anno della sua età, nel quale anno ei morì vestito d’abito monastico, dopo avere distribuite le sue preziose suppellettili ai figli, ai poveri, ai suoi medici e servi più favoriti. Andronico35, secondogenito di Manuele, [p. 443 modifica]che aveva avuto per sua parte il principato di Tessalonica, morì di lebbra, poco dopo aver venduta questa città ai Veneziani, che ne furono con altrettanta prestezza spogliati dai Turchi. Per alcuni buoni successi de’ Greci, accaduti ne’ giorni più felici di Manuele, essendo tornato all’Impero il Peloponneso, ossia la Morea, quell’Imperatore avea fortificato l’Istmo per una estensione di sei miglia36, circondandolo di una salda muraglia, fiancheggiata da cencinquantatre torri, che all’atto della prima invasione ottomana disparve. La fertile penisola avrebbe potuto bastare ai quattro giovani principi, Teodoro, Costantino, Demetrio e Tommaso; ma avendo questi estenuati gli avanzi delle loro forze in guerre civili, i vinti si rifuggirono nel palagio di Costantinopoli, ove vissero sotto la protezione e la dependenza del loro fratello Giovanni Paleologo II.

[A. D. 1425-1437] Questo Principe, primogenito de’ figli di Manuele, riconosciuto dopo la morte del padre solo Imperatore de’ Greci, pensò per prima cosa a ripudiare la moglie, e a contrar nuove nozze colla Principessa di Trebisonda. La bellezza, agli occhi di questo Principe, era la più essenziale prerogativa che ornar dovesse una Imperatrice. Per ottenere il consenso del suo Clero, lo minacciò, se gli veniva negato il [p. 444 modifica]divorzio, di ritirarsi in un chiostro, e di rassegnare il trono al fratello suo Costantino. La prima, o per meglio dire la sola vittoria riportata da Paleologo, fu sopra un Ebreo37, cui dopo una lunga e dotta disputa, convertì alla fede cristiana; rilevante conquista che venne accuratamente registrata nella Storia di que’ tempi; ma tornò ben tosto nel disegno di unire le due Chiese, e senza riguardo ai suggerimenti lasciatigli dal padre, porse orecchio, a quanto apparve, di buona fede, alla proposta di venire a parlamento col Pontefice in un Concilio generale, da tenersi al di là del mare Adriatico. Martino V incoraggiava questo pericoloso divisamento; Eugenio, successor di Martino, diede freddamente opera a tale bisogna, sintanto che dopo una languida negoziazione, l’Imperatore ricevè una intimazione per parte di un’Assemblea che assumeva diverso carattere, l’Assemblea de’ Prelati independenti di Basilea38, intitolatisi i giudici e i rappresentanti della Chiesa cattolica.

Il Pontefice romano avea difesa e guadagnata la [p. 445 modifica]causa della ecclesiastica libertà; ma il Clero vittorioso, si trovò ben tosto esposto alla tirannide del suo liberatore, che dalla dignità del suo carattere era posto in sicurezza contro quell’armi che sì efficacemente adoperava a danno delle civili magistrature. Le appellazioni annichilavano la Grande Carta, ossia il diritto di elezione del Pontefice; diritto cui le commende, e le sopravvivenze, toglievano forza; onde il clero si trovava obbligato a cedere a clausole arbitrarie39 le proprie prerogative. La Corte di Roma instituì una vendita pubblica, intesa ad arricchire i Cardinali e i favoriti del Pontefice delle spoglie di tutte le nazioni, che vedeano i principali benefizj de’ lor territorj accumularsi su persone straniere e lontane. Intantochè dimorarono ad Avignone, l’ambizione de’ Papi in avarizia e dissolutezza si trasformò40. Rigidi nell’imporre sul Clero il tributo delle decime e de’ primi frutti, tolleravano poi apertamente l’impunità dei vizj, dei disordini, della corruttela; i quali scandali, [p. 446 modifica] [A. D. 1377-1429] il grande scisma di Occidente, durante oltre un mezzo secolo, moltiplicò. Ne’ violenti loro litigi, i Pontefici di Roma e di Avignone pubblicavano scambievolmente i vizj del loro rivale, e intantochè il precario stato loro inviliva l’autorità, allentava il freno della disciplina, i lor bisogni e le loro vessazioni aumentava. A guarire i mali della Chiesa e a rialzarne la dignità, vennero tenuti successivamente i Sinodi di Pisa e di  [A. D. 1414-1418] Costanza41, le quali grandi Assemblee, sentendo la propria forza, deliberarono restituire alla cristiana Aristocrazia i suoi privilegi. Laonde i Padri di Costanza, pronunciata una personale sentenza contra due Pontefici cui non vollero riconoscere, rimossero, con una nuova sentenza, quel medesimo, che aveano chiarito loro Sovrano. Proceduti indi a limitare l’autorità del Pontefice, non si separarono prima di aver sottomesso il Capo della Chiesa alla supremazia di un Concilio generale. Venne sancito che a fine di riformare e mantenere la Chiesa, si convocherebbero regolarmente queste Assemblee ad un tempo prefisso, e che ciascun Sinodo prima di sciogliersi, additerebbe il tempo e il luogo dell’adunata futura.  [A. D. 1431-1443] Non riuscì difficile alla Corte romana lo scansarsi dal convocare il Concilio di Siena, ma la vigorosa fermezza del Concilio di Basilea42, non fu per poco fatale [p. 447 modifica]ad Eugenio IV, Pontefice regnante. I Padri che i disegni di lui aveano presentiti, si affrettarono a pubblicare con un primo decreto, che i rappresentanti della Chiesa militante, aveano giurisdizione spirituale, o divina su tutti i Cristiani, non eccettuato da questi il Pontefice, chiarendo inoltre non potersi sciogliere, protrarre, o trasferire da un luogo ad un altro un Concilio, se non se dopo una discussione libera e il consenso degli adunati. Non essendosi perciò Papa Eugenio ristato dal fulminare la sua Bolla di scioglimento, osarono indirigere intimazioni, rimproveri e minacce al ribelle successor di S. Pietro43; e poichè gli ebbero dato con lunghe dilazioni il tempo a pentirsi, gli notificarono che se prima di un termine perentorio di sessanta giorni non si sommettea, intendeano interrotta ogni autorità temporale ed ecclesiastica del medesimo; e [p. 448 modifica]affinchè la loro giurisdizione comprendesse il Sovrano ed il Sacerdote, impadronitisi del governo di Avignone, promulgarono invalida l’alienazione del patrimonio sacro, e proibirono il farsi in Roma qualunque riscossione d’imposte a nome del Papa; ardimento che ebbe per se non solo l’opinione generale del Clero, ma l’approvazione e la protezione de’ primarj fra i Monarchi della Cristianità. L’Imperatore Sigismondo si professò servo e difensore del Sinodo; l’esempio di lui l’Alemagna e la Francia seguirono; il Duca di Milano era personale nemico di Eugenio; una sommossa del popolo di Roma costrinse il Pontefice a fuggire dal Vaticano. Ributtato ad un tempo da’ suoi sudditi spirituali e temporali, nè rimastogli altro partito, fuor quello della sommessione, si ritrattò mercè d’una umiliante Bolla, che confermava tutti gli atti del Concilio, incorporava a questa Assemblea venerabile i Cardinali e Legati pontifizj, e pareva annunziasse la rassegnazione del Papa ai decreti di una suprema legislatura. La rinomanza di cotali fatti si diffuse per l’Oriente; e come altrimenti sarebbe accaduto? Alla presenza dei Padri del Concilio, Sigismondo ricevè gli Ambasciatori ottomani44, che posarono a’ pie del medesimo il donativo di dodici grandi casse piene di drappi di seta e di piastre d’oro.  [A. D. 1434-1437] Aspirando i Padri di Basilea alla gloria di ricondurre nel grembo della Chiesa i Greci e i Boemi, sollecitarono per via di deputati l’Imperatore e il Patriarca di Costantino[p. 449 modifica]poli, a congiungersi ad un’Assemblea onorata dalla confidenza delle nazioni dell’Occidente; proposta, dall’accettar la quale lontano non mostravasi Paleologo, i cui Ambasciatori vennero onorevolmente accolti dal Senato cattolico. Sol la scelta del luogo sembrò ostacolo insuperabile per ostinazione de’ Greci, i quali ricusando di attraversare le Alpi, o il mar di Sicilia, fermi mostravansi nel pretendere che il Concilio si adunasse in qualche città dell’Italia, o posta nelle vicinanze del Danubio. Minori difficoltà s’incontravano su gli altri punti di una tale negoziazione: già erasi d’accordo su quello di pagare le spese del viaggio all’Imperatore greco, che sarebbesi trasferito, accompagnato da settecento persone45, al luogo del Concilio, di sborsargli, all’atto dell’arrivo, una somma di ottomila ducati46 da poter egli impiegare in soccorso del suo Clero, e di concedergli in oltre, intantochè si allontanava dalla sua Capitale, un sussidio di diecimila ducati, di trecento arcieri e di alcune galee per difenderla dal nemico. Sbor[p. 450 modifica]sate avendo le prime somme la città di Avignone, fu allestito, benchè non senza qualche lentezza e difficoltà, il navilio a Marsiglia.

[A. D. 1437] In mezzo alle angustie che lo incalzavano, Paleologo aveva almeno la soddisfazione di vedere le potenze alleate dell’Occidente gareggianti nel chiederlo in amicizia. Ma l’artificiosa solerzia d’un Sovrano prevalse sopra la lentezza e la inflessibilità che per solito dagli atti delle repubbliche non si dipartono. I decreti di Basilea, intendendo continuamente a limitare il dispotismo del Papa e ad innalzare in guisa stabile un tribunale supremo ed ecclesiastico, Eugenio portava il giogo con impazienza, intanto che l’unione de’ Greci gli somministrava un decoroso pretesto per trasportare un Sinodo fazioso ed indocile dalle rive del Reno a quelle del Po. Al di là dell’Alpi, i Padri non isperavano più di conservare la loro independenza. La Savoia, o Avignone, cui accettarono con ripugnanza per sede dell’adunata, venivano riguardate a Costantinopoli come luoghi posti oltre le colonne d’Ercole47. L’Imperator greco e il suo Clero paventavano i pericoli di una [p. 451 modifica]lunga navigazione, e soprappiù gli offendeva l’orgoglio manifestato dal Concilio, annunziando che dopo avere annichilata la nuova eresia de’ Boemi, non tarderebbe a sradicare l’antica de’ Greci48. Eugenio intanto non respirava che mansuetudine, compiacenza e rispetto. Le sue sollecitazioni erano allettamenti al Sovrano di Costantinopoli, affinchè la sua presenza imponesse termine allo scisma de’ Latini come a quello de’ Greci. Gli proponea per luogo di amichevole parlamento Ferrara, situata sulle sponde dell’Adriatico, nel qual tempo, fosse per sorpresa od altro artifizio, si procurò un falso decreto del Concilio49 che condiscendea trasferirsi in codesta città dell’Italia. A tal fine furono allestite nuove galee in Venezia e nell’isola di Candia, le quali misero in mare prima del navilio di Basilea. L’Ammiraglio del Pontefice ricevè il comando di mandarlo a fondo, arderlo, distruggerlo50, e poco mancò che queste [p. 452 modifica]ecclesiastiche squadre non s’incontrassero in quelle medesime acque, ove sulla gloria della lor preminenza Atene e Sparta contesero. Sollecitato alternativamente dalle due fazioni, che sembravano prontissime a venire alle mani per contendersi fra loro il possedimento della imperiale persona, Paleologo tornò a meditare ancora, se fosse un buon espediente l’abbandonare il palagio e la patria per avventurarsi ad una così pericolosa spedizione. Tornandogli allora a mente i paterni consigli, anche ogni ragione dettata dal senno dovea mostrargli che i Latini divisi fra loro, non si accorderebbero per virtù di una estranea causa. Aggiungasi che lo dissuase dall’imprendere un tale viaggio Sigismondo, in cui non poteano supporsi motivi di parzialità, perchè il Concilio era di suo consenso; e un suggerimento di questo Imperatore, veniva tanto più valutato dai Greci, per aver questi adottata la stravagante opinione che Sigismondo si cercherebbe fra essi un successore all’Impero51. Veniva in campo un altro consigliere, comunque non troppo, per vero dire, meritevole della confidenza de’ Greci, che Paleologo temea d’irritare, il Sultano de’ Turchi; non che Amurat intendesse nulla sulle contestazioni che teneano in discordia i Cristiani; ma ad ogni modo non gli piaceva vederli uniti; onde offeriva di aprire il suo erario ai bisogni di Paleologo, assicurando ciò [p. 453 modifica]nullameno con un’apparenza di generosità, che Costantinopoli sarebbe stata inviolabilmente rispettata, ancorchè se ne fosse allontanato il Sovrano52. Ma chi gli fece più ricchi donativi, e diede più belle parole, vinse l’animo del Principe greco, che provava anche desiderio di allontanarsi per qualche tempo da un teatro di disgrazie e pericoli. Dopo essersi spacciato con un’equivoca risposta dai deputati del Concilio, fe’ nota la sua deliberazione d’imbarcarsi sulle galee pontifizie. Era vecchio assai il Patriarca Giuseppe, onde più fatto alle impressioni del timore che a quelle della speranza, e atterrito da’ pericoli che gli sovrastavano sull’Oceano, rimostrò come in un estraneo paese, la sua debole voce e quella di una trentina de’ suoi Prelati, correvano rischio di trovarsi affogate in mezzo alle più numerose e potenti de’ Vescovi, di cui il Sinodo latino andava composto. Nondimeno cedè ai voleri di Paleologo, alla lusinga datagli che sarebbe ascoltato come l’Oracolo delle nazioni, e alla segreta brama d’imparare dal suo fratello d’Occidente il modo di rendere affatto independente dai Sovrani la Chiesa53. Entrarono nel suo corteggio i cinque Croci[p. 454 modifica]feri, ossia dignitarj di S. Sofia, e un d’essi, il grande Ecclesiarca, o predicatore Silvestro Siropolo54, ha composta55 una Storia dilettevole e sincera della Falsa Unione56. Il Clero obbedì, suo malgrado, agli ordini dell’Imperatore e del Patriarca; ma la sommessione era il suo primo dovere, la pazienza la più utile delle sue virtù. Trovansi in una scelta di venti Prelati, i nomi de’ metropolitani d’Eraclea, Cizico, Nicea, Nicomedia, Efeso e Trebisonda, e due [p. 455 modifica]nuovi Vescovi, Marco e Bessarione, innalzati a tale dignità per la fiducia che il loro sapere e la loro eloquenza inspiravano. Vennero parimente nominati a questa spedizione alcuni monaci e filosofi, perchè accrescessero splendore alla dottrina e alla santità della greca Chiesa, e molti cantori e musici al servizio della Cappella imperiale. I Patriarchi d’Alessandria, di Antiochia e di Gerusalemme, spedirono deputati, o si suppone almeno che gli avessero spediti; il Primate di Russia rappresentava una Chiesa nazionale, perchè quanto ad estensione di potere spirituale, i Greci poteano stare a petto de’ Latini. I preziosi vasi di S. Sofia furono commessi ai rischi del mare, affinchè il Patriarca potesse coll’ordinaria sua pompa uffiziare; e l’Imperatore adoperò quant’oro gli fu dato raccogliere per fregiare d’ornamenti massicci il suo carro e il suo letto57. Ma mentre i Greci metteano tanto studio a sostenere le esterne apparenze dell’antica grandezza, contendean fra loro pel riparto di quindicimila ducati, che, a titolo di anticipata elemosina, aveva ad essi somministrato il Pontefice. Appena tutti gli apparecchi furon compiuti, Paleologo, seguìto da numeroso corteggio, accompagnato dal suo fratello Demetrio e dai primi personaggi dello Stato e [p. 456 modifica]della Chiesa, s’imbarcò sopra otto navigli instrutti di vele e remi, che governarono verso lo stretto di Gallipoli nell’Arcipelago, passando poscia nel golfo Adriatico58.

[A. D. 1438] Dopo una lunga e molesta navigazione di settantasette giorni, questa religiosa squadra avendo gettata l’áncora innanzi Venezia, trovò tale accoglienza, che la gioia e lo splendore di questa repubblica fe’ manifesti. Sovrano del Mondo, il modesto Augusto non avea mai richiesti ai suoi sudditi gli onori di cui gl’independenti Veneti largheggiarono a questo debole successore d’Augusto. Dall’alto di un trono collocato sulla poppa della sua nave, Paleologo ricevè la visita, o per parlare alla greca, le adorazioni del Doge e de’ Senatori59, che vennero entro il Bucintoro, seguìto da dodici ben fornite galee. Vedeasi coperto il mare d’innumerabili gondole, quali d’esse per servire alla pompa dello spettacolo, quali al piacere de’ circostanti; di musicali suoni, e dello strepito delle acclamazioni l’aere rintronava: splendeano di seta e d’oro le vesti de’ marinai e gli stessi na[p. 457 modifica]vigli; ogni emblema, mostrava le Aquile romane ai lioni di S. Marco accoppiate; insigne corteggio, che mosse dal principio del Canal Grande, e sotto il ponte di Rialto passò. Gli Orientali contemplavano ammirati i palagi, i tempj e l’immensa popolazione di una città, che galleggiar sembrava sull’onde60; ma sospirarono alla vista delle spoglie e de’ trofei dal saccheggio di Costantinopoli riportati. Dopo una dimora di quindici giorni a Venezia, Paleologo continuò il suo cammino or per terra, or per acqua sino a Ferrara. In tal momento, la politica del Vaticano avendone vinto l’orgoglio, il Principe greco ricevè tutti gli antichi onori sòliti a concedersi all’Imperatore di Oriente. Entrò in Ferrara cavalcando un cavallo nero, intanto che veniva condotto dinanzi a lui un bel palafreno bianco, i cui bardamenti vedeansi fregiati di aquile ricamate in oro. Camminava sotto di un baldachino che sosteneano i Principi della Casa d’Este, figli o parenti di Nicolò, Marchese della città, e sovrano più potente che Paleologo nol fosse61. Il Principe greco non ismontò da cavallo che giunto a piedi dello scalone; venutogli incontro sino alle porte del [p. 458 modifica]proprio appartamento il Pontefice, rialzò il Principe, che fece l’atto di prostrarsegli innanzi, e dopo averlo paternamente abbracciato, gli additò una sedia posta alla sua sinistra. Il Patriarca greco ricusò di scendere dalla sua galea sintanto che non si fosse d’accordo sui modi del cerimoniale, regolati finalmente sì che fosse mantenuta un’apparente eguaglianza fra il Vescovo di Roma e quello di Costantinopoli. Questi ricevè un fraterno amplesso dal primo, e tutti gli ecclesiastici greci rifiutarono di baciare il piede al romano Pontefice. All’aprirsi del Sinodo, i Capi ecclesiastici e temporali si disputarono il centro, ossia il posto d’onore; ma Eugenio trovò un pretesto per non seguire l’antico cerimoniale di Costantino e di Marciano, allegando che i suoi predecessori non si erano trovati in persona nè a Nicea, nè a Calcedonia. Dopo lunghe discussioni, fu risoluto, che le due nazioni occuperebbero a destra e a sinistra i due lati della Chiesa; che la Cattedra di S. Pietro terrebbe il primo posto nella fila de’ Latini; e che il trono dell’Imperator greco, a capo del suo Clero, si troverebbe alla medesima altezza di rincontro al secondo posto, sede vacante dell’Imperator d’Occidente62.

Ma non appena le allegrezze e le formalità fecero [p. 459 modifica]luogo alle gravi discussioni, malcontenti del Papa e di sè medesimi, i Greci, ebbero a pentirsi dell’imprudente lor viaggio. Gli Ambasciatori d’Eugenio a Costantinopoli lo aveano dipinto come uomo giunto all’apice della prosperità, Capo de’ Principi e de’ Prelati europei, tutti pronti ad un suo accento a prestargli fede, e impugnar l’armi; inganno che la poco numerosa Assemblea del Concilio di Ferrara in un subito dissipò. I Latini apersero l’adunata con cinque Arcivescovi, diciotto Vescovi e dieci Abati, la maggior parte de’ quali sudditi, o concittadini dell’italiano Pontefice. Eccetto il Duca di Borgogna, niun Sovrano dell’Occidente si degnò comparire, o inviare ambasciatori; nè modo eravi di abolire gli atti giudiziarj di Basilea contro la persona e la dignità d’Eugenio, atti che dalla elezione di un nuovo Pontefice venner conchiusi. In tal frangente, Paleologo chiese ed ottenne una dilazione per procacciarsi dai Latini alcuni vantaggi temporali, qual prezzo di un’unione che i suoi sudditi riprovavano; dopo la prima adunanza, le discussioni pubbliche furono differite di lì a sei mesi. L’Imperatore, accompagnato da una truppa di favoriti e di giannizzeri, trascorse la state in un vasto monastero, situato gradevolmente sei miglia fuor di Ferrara; e dimenticando fra i piaceri della caccia le dispute della Chiesa e la calamità dello Stato, non pensò che a distruggere il salvaggiume, senza darsi per inteso delle giuste querele del Marchese e de’ coltivatori della campagna63. Intanto i suoi miseri Greci [p. 460 modifica]soffrivano tutte le molestie dell’esilio e della povertà; erano stati assegnati per la sua spesa a ciascuno straniero tre, o quattro fiorini d’oro al mese, e benchè l’intera somma arrivasse a più di settecento fiorini, l’indigenza, o la politica del Vaticano, facea sempre rimanere addietro buona parte di tale assegnamento64. Sospiravano essi di vedersi liberati da quel confino, ma un triplice ostacolo impediva loro il fuggirne. Non poteano uscire di Ferrara, senza un passaporto de’ lor superiori; i Veneziani aveano promesso di arrestare e rimandare i fuggitivi: giungendo anche a Costantinopoli, non avrebbero potuto sottrarsi alla scomunica, alle ammende, ad una sentenza che condannava persino gli ecclesiastici ad essere posti ignudi e pubblicamente flagellati65. La sola fame [p. 461 modifica]potè far risolvere i Greci ad aprire il primo parlamento; ma con estrema ripugnanza acconsentirono a seguire a Firenze il Sinodo fuggitivo; espediente però inevitabile, perchè e la peste dominava in Ferrara, e la fedeltà del Marchese era divenuta sospetta, e le truppe del Duca di Milano si avvicinavano alla città. Che anzi tenendo queste la Romagna, sol con molta fatica e pericoli, il Papa, l’Imperatore e i Prelati si apersero un varco per mezzo ai men frequentati sentieri dell’Apennino66.

[A. D. 1438-1439] Ma la politica e il tempo avendo superati tutti gli ostacoli, la violenza stessa de’ Padri di Basilea giovò ai buoni successi di Eugenio. Le nazioni dell’Europa essendo venute a detestare lo scisma, rifiutarono l’elezione di Felice V, successivamente Duca di Savoia, eremita, e Papa. I più poderosi Principi si avvicinarono al rivale dell’escluso Pontefice, passando a grado dalla neutralità ad una sincera affezione. I Legati, seguìti da alcuni spettabili membri, si volsero ai Padri romani, che vedeano tuttodì crescere il proprio numero, e l’opinione del Pubblico in loro favore. Il Concilio di Basilea trovavasi ridotto a trentanove Vescovi e trecento membri del clero inferiore67, intanto che i Latini di Firenze univano alla persona del Pontefice [p. 462 modifica]otto Cardinali, due Patriarchi, otto Arcivescovi, cinquantadue Vescovi, e quarantacinque Abati, o Capi d’Ordini religiosi. Il lavoro di nove mesi e le discussioni di venticinque adunanze, operarono finalmente l’unione de’ Greci. Quattro quistioni principali eransi agitate dalle due Chiese, e riguardavano I. L’uso del pane azzimo nella Comunione. II. La natura del Purgatorio. III. La supremazia del Papa. IV. La processione, semplice o duplice, dello Spirito Santo. La causa di entrambe le nazioni da dieci abili Teologhi venne discussa. Il Cardinale Giuliano adoperò l’ineffabile sua eloquenza a favor de’ Latini; i Greci ebbero Marco d’Efeso e Bessarione di Nicea per lor primarj campioni. Non ometteremo a tale proposito una osservazione che onora i progressi della ragione umana. La prima di tali quistioni fu discussa siccome punto poco rilevante, che potea variare, senza portar seco gravi conseguenze, giusta l’opinione de’ tempi e delle nazioni; quanto alla seconda le due parti convennero dovervi essere uno stato intermedio di purificazione per li peccati veniali. Se poi una siffatta purificazione venisse operata dal fuoco elementare, era un tale articolo, che per avere maggiore agio di definirlo in quel medesimo luogo, i disputanti si presero il tempo d’alcuni anni. La supremazia del Papa parea un punto più importante e più litigioso: cionnullameno gli Orientali che aveano sempre riconosciuto il Vescovo di Roma pel primo fra i cinque Patriarchi, non fecero difficoltà ad am- [p. 463 modifica]mettere che egli usasse della sua giurisdizione in conformità de’ santi canoni, condiscendenza vaga che poteva essere determinata, o priva d’effetto secondo le circostanze. La processione dello Spirito Santo, o dal solo Padre, o dal Padre e dal Figlio era articolo di Fede più profondamente radicato nell’opinione degli uomini. Nell’Assemblea di Ferrara e di Firenze, l’addizione Latina del Filioque diede motivo a due quistioni, l’una che riguardava la legalità, l’altra l’ortodossia. Gli è inutile che sopra un tale argomento io mi diffonda in proteste d’imparziale indifferenza per parte mia; pur sembrami che i Greci avessero per sè un vittorioso argomento nella decisione del Concilio di Calcedonia, col quale si proibiva l’aggiungere alcun articolo, qualunque fosse, al Simbolo di Nicea, o piuttosto di Costantinopoli68. Negli affari di questo Mondo non è sì facile il comprendere come un’Assemblea di legislatori, possa impor vincoli ai suoi successori, forniti della medesima autorità; ma una decisione dettata dall’inspirazione divina, debbe essere vera ed immutabile. L’avviso di un Vescovo o di un Sinodo di provincia non può prevalere contra il giudizio universale della Chiesa cattolica. Quanto al dottrinale, gli argomenti erano eguali da tutte due le bande, e questa disputa parea volgere all’infinito, perchè la processione di un Dio è cosa che confonde l’umana intelligenza. L’Evan[p. 464 modifica]gelio collocato sull’altare, nulla offeriva che potesse risolvere la quistione. I testi de’ santi Padri potevano essere stati sagrificati dalla soperchieria, o da capziose argomentazioni oscurati: i Greci non conoscevano nè gli scritti de’ Santi latini, nè i loro caratteri69. Noi possiamo per lo meno essere sicuri che gli argomenti di ciascuna fazione parvero impotenti contro quelli dell’altra. La ragione può rischiarare gli errori di una mente pregiudicata; una continua attenzione corregger le sviste, se l’oggetto può essere presentato ai nostri sensi: ma i Vescovi e i frati aveano imparato sin dall’infanzia a ripetere una formola di misteriose parole; alla ripetizione di queste parole medesime aveano congiunto il loro onore nazionale e personale, e l’acredine di una disputa pubblica li rendè del tutto intrattabili. Intanto che questi si perdevano in un labirinto d’argomenti oscuri, il Papa e l’Imperatore bramavano un’apparenza di unione, che sola potea raggiugnere lo scopo del loro abboccamento; laonde l’ostinazione non resistè all’influsso di personali e segrete negoziazioni. Il Patriarca Giuseppe era soggiaciuto al peso degli anni e dell’infermità, e le parole ch’ei pronunziò spirando, furono di pace e d’unione. La speranza di ottenerne la carica, tentava [p. 465 modifica]l’ambizione del Clero greco; e la pronta sommessione di Bessarione e d’Isidoro, Arcivescovi, un di Nicea, l’altro di Russia, fu comperata e guiderdonata col promoverli immantinente alla dignità cardinalizia. Nelle prime discussioni, Bessarione erasi mostrato il più fermo ed eloquente campione della Chiesa greca; e se la patria lo ributtò come apostata e figlio spurio70, egli diè a divedere, se prestiamo fede alla storia ecclesiastica, il raro esempio di un cittadino che sa rendersi commendabile alla Corte con una resistenza segnalata, e con una rassegnazione adoperata a proposito. Soccorso da’ suoi due Coadjutori spirituali, l’Imperatore usò, rispetto a ciascuno de’ due Vescovi, gli argomenti più confacevoli allo stato loro in generale e alla loro indole in particolare; sicchè tutti a mano a mano cedettero all’esempio, o all’autorità. Prigionieri presso i Latini, spogliati delle loro rendite dai Turchi, tre vesti e quaranta ducati, faceano tutto il loro tesoro, che ben presto si trovò rifinito71. Per poter tornare alla lor patria, doveano raccomandarsi alle navi di Venezia e alla generosità del Pontefice; in somma vedeansi ridotti a tale indigenza che bastò per guadagnarli offrir loro il pagamento degli asse[p. 466 modifica]gnamenti arretrati, ai quali avevano diritto72. I soccorsi de’ quali abbisognava la pericolante Costantinopoli poteano scusare una prudente e pia dissimulazione: ma a questi riguardi si aggiunsero forti inquietudini sulla personale loro sicurezza, perchè fu fatto ad essi comprendere che sarebbero abbandonati in Italia alla giustizia, o alla vendetta del romano Pontefice73. Nell’Assemblea particolare dei Greci, ventiquattro membri di questa Chiesa approvarono la formula d’unione, sol dodici recalcitrarono. Ma i cinque Crociferi di S. Sofia che aspiravano alla vacante carica del Patriarca, furono respinti per essersi tenuti alle regole dell’antica disciplina, e videro il lor diritto di suffragio trasmesso a Monaci, a Gramatici, a Laici, dai quali si aspettava una maggior compiacenza: sicchè la volontà del Monarca produsse finalmente una fallace e codarda unanimità. Sol due uomini zelanti d’amor di patria osarono far palesi pubblicamente i loro sentimenti e quelli della nazione; Demetrio fratello dell’Imperatore ritiratosi a Venezia per non essere spettatore di questa unione, e Marco d’Efeso, che credendo forse stimolo di coscienza il suo orgoglio, gridò eretici tutti i Latini, rifiutò la loro comunione, e si chiarì solennemente [p. 467 modifica]il difensore della Chiesa greca e ortodossa74. Fu fatta prova di mettere in iscritto il Trattato di unione con que’ termini che potessero soddisfare i Latini, nè soverchiamente umiliare i Greci; ma comunque si pesassero le parole e le sillabe, la bilancia inclinò qualche poco in favore del Vaticano. Si stabilì (e qui domando attenzione dal leggitore) che lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio, come da un stesso principio o da una stessa sostanza; che procede dal Figlio essendo della stessa natura e della stessa sostanza, e che procede dal Padre e dal Figlio per una spirazione e per una produzione. Gli articoli de’ preliminari di questo Trattato saranno stati intesi più facilmente. Eugenio si obbligava coi Greci a pagare tutte le spese del loro ritorno, a mantenere sempre due galee e trecento soldati in difesa di Costantinopoli, a mandar loro dieci galee per un anno o venti per sei mesi, qualunque volta ne venisse richiesto, a sollecitare in un momento di grave pericolo i soccorsi de’ Principi dell’Europa, e a mandare all’áncora nel porto di Bisanzo tutt’i vascelli che trasporterebbero pellegrini a Gerusalemme.

[A. D. 1438] Nello stesso anno, e quasi nel medesimo giorno, [p. 468 modifica]a Basilea75 si toglieva il Pontificato ad Eugenio che stava a Firenze terminando l’unione de’ Greci [p. 469 modifica]coi Latini. Il Sinodo di Basilea, che per vero dire il Pontefice romano chiamava un’Assemblea di demonj, lo pronunziò colpevole di simonia, di spergiuro, di tirannide, d’eresia e di scisma76; incorreggibile ne’ suoi vizj, e indegno di sostenere verun uffizio ecclesiastico.  [A. D. 1438] Il Sinodo di Firenze intanto lo riveriva come Vicario legittimo e sacro di Gesù Cristo, come l’uomo di cui la pietà e la virtù, dopo una separazione di sei secoli, aveano riuniti i Cattolici dell’Oriente e dell’Occidente in un sol gregge, e sotto un solo Pastore. L’atto di Unione venne sottoscritto dal Papa, dall’Imperatore e dai primarj membri delle due Chiese, non eccetto que’ medesimi, i quali, come Siropolo, erano stati privi del diritto di dar voto77. Sembrava che due copie di simile atto, una per l’Oriente, l’altra per l’Occidente bastassero. Ma Eugenio ne fece copiare e sottoscrivere quattro, onde moltiplicare i monumenti della riportata vittoria78. Ai sei di luglio, giornata me[p. 470 modifica]morabile, i successori di S. Pietro e di Costantino salirono sui loro troni alla presenza di due nazioni adunate nella Cattedrale di Firenze. I rappresentanti di queste nazioni, il Cardinale Giuliano e Bessarione, Arcivescovo di Nicea, si mostrarono sulla cattedra, ove dopo aver letto ad alta voce, ciascuno in sua lingua, l’Atto di unione, si diedero pubblicamente il bacio di pace e di riconciliazione, a nome dei loro compatriotti, e fra gli applausi di quelli d’essi che erano presenti. Il Papa e il suo Clero uffiziarono secondo i riti della romana Liturgia, e venne cantato il simbolo coll’aggiunta del Filioque. I Greci che diedero in ordine a ciò la loro approvazione, si scusarono assai goffamente, adducendo a motivo del proprio contegno, l’ignoranza del significato di queste parole, che furono mal articolate, e che per altro erano assai armoniose79. Più scrupolosi i Latini, ricusarono fermamente di ammettere veruna cerimonia della Chiesa d’Oriente. Cionnullameno l’Imperatore e il suo Clero non dimenticarono l’onore della propria nazione, e ratificando volontariamente il Trattato, sottintesero la clausola tacita che non si farebbe veruna innovazione nel loro Simbolo, o nelle loro cerimonie. Risparmiarono e rispettarono la generosa fermezza di Mario d’Efeso, nè vollero dopo la morte di Giuseppe, procedere all’elezione di un nuovo Patriarca, [p. 471 modifica]in tutt’altro luogo fuorchè nella Cattedrale di Santa Sofia. Eugenio superò le sue promesse e le loro speranze nelle liberalità usate, in generale e in particolare, verso de’ Greci. Con minor pompa e più umili se ne tornarono questi per la via di Ferrara e Venezia.  [A. D. 1440] Nel successivo capitolo sapranno i miei leggitori quale accoglienza trovarono a Costantinopoli80. Il buon successo di questa prima impresa incoraggiò Eugenio a rinovare una scena così edificante; i deputati degli Armeni e de’ Maroniti, i Giacobiti dell’Egitto e della Sorìa, i Nestoriani e gli Etiopi, ammessi successivamente a baciare il piede del Santo Padre, annunziarono l’obbedienza e l’ortodossia dell’Oriente. Questi Ambasciatori, sconosciuti presso alle nazioni che si arrogavano di rappresentare81, giovarono a divulgare per l’Occidente la fama della pietà di Eugenio; e gridori ad arte sparsi, accusarono gli scismatici della Svizzera e della Savoia, siccome i soli che si opponessero alla perfetta unione del Mondo cristiano. Alla vigorosa loro resistenza, succeduta finalmente la stanchezza d’un inutile sforzo, e sciogliendosi per insensibili gradi il Concilio di Basilea, Felice giudicò opportuna cosa rassegnare la tiara, e tornarsene al suo devoto o de[p. 472 modifica]lizioso romitaggio di Ripaglia82.  [A. D. 1449] Scambievoli atti di dimenticanza del passato e compensi confermarono la pace generale; si lasciò che i disegni di riforma andassero a vôto; i Papi si mantennero nella loro supremazia spirituale e continuarono ad abusarne83: nessun litigio in appresso turbò le elezioni di Roma84.

[A. D. 1300-1453] I successivi viaggi de’ tre Imperatori non partorirono ad essi grandi vantaggi in questo Mondo, nè probabilmente nell’altro; pur felici ne furono lo conseguenze, perchè portarono l’erudizione greca in Italia, d’onde si diffuse presso tutte le nazioni dell’Occidente e del Settentrione. In mezzo al servaggio abbietto cui ridotti erano i sudditi di Paleolo[p. 473 modifica]go, possedeano tuttavia la preziosa chiave dei tesori dell’Antichità, quella lingua armoniosa e feconda che infonde un’anima agli oggetti sensibili, e veste di corpo le astrazioni della filosofia. Dopo che i Barbari, avendo oltrepassati i confini della Monarchia, si erano mescolati fino cogli abitanti della Capitale, certamente aveano corrotta la purezza del dialetto; onde fu d’uopo d’abbondanti Glossarj per interpretare molti vocaboli tolti dalla lingua araba, turca, schiavona, latina e francese85. Nondimeno questa purezza mantenevasi ancora alla Corte, e veniva insegnata tuttavia ne’ collegi. Un dotto Italiano86 che, per lungo domicilio e onorevole parentado contratto87, avea ottenuto luogo fra i nativi di Costantinopoli, circa [p. 474 modifica]trent’anni prima della conquista de’ Turchi, ci ha lasciato intorno ai Greci alcuni particolari, che però la sua parzialità avrà forse abbelliti. „La volgar lingua, dice Filelfo88, è stata alterata dal popolo e corrotta dai molti mercatanti, o stranieri che giungono tuttodì a Costantinopoli, e si mescolano cogli abitanti. Dai discepoli di questa scuola i Latini hanno ricevute le traduzioni goffe ed oscure di Platone e di Aristotele. Ma il discorso nostro cade unicamente su que’ Greci che meritano essere imitati, perchè alla contagione generale sfuggirono. Troviamo ne’ loro famigliari intertenimenti la lingua di Aristofane e di Euripide, de’ Filosofi e degli Storici d’Atene, e più accurato e più corretto è anche lo stile de’ loro scritti. Le persone più vicine alla Corte a motivo delle loro cariche, o della nascita, son pur quelle che conservano meglio, e scevre da ogni miscuglio l’eleganza e la purezza degli antichi; tutte le grazie naturali della lingua greca osserviamo mantenersi dalle nobili matrone che non hanno comunicazione alcuna cogli stranieri. Che dico io cogli stranieri? Vivono [p. 475 modifica]ritirate e lontane dagli sguardi de’ medesimi loro concittadini. Rare volte si fanno vedere sulle strade; nè escono di casa, se non la sera, per trasferirsi alla Chiesa, e visitare i più prossimi parenti. In tali occasioni, vanno a cavallo, coperte di un velo, accompagnate dai loro mariti, circondate dai congiunti, o dai servi89„.

Presso i Greci un Clero ricco e copioso si consagrava al servigio degli altari. Que’ Monaci e Vescovi essendosi distinti sempre per austerità di costumi non si abbandonavano siccome gli ecclesiastici latini agl’interessi e ai diletti della vita secolare, nè della militare tampoco. Dopo avere perduta una gran parte del loro tempo in atti di divozione e nelle oziose discordie della Chiesa, o del Chiostro, quelli che d’animo più solerte e curioso erano forniti, si dedicavano ardentemente allo studio dell’erudizione greca, sacra e profana. Presedevano inoltre alla educazione della gioventù, onde le scuole di eloquenza e di filosofia durarono fino alla caduta dell’Impero; e può affermarsi che il recinto di Costantinopoli contenea più scritti scientifici e libri di quanti ne fossero diffusi nelle vaste contrade dell’Occidente90. Ma di già osservammo che i Greci aveano fatta pausa, o anzi arretravano, intanto che i Latini faceano rapidi progressi; progressi animati dallo spirito di emulazione e d’independenza; onde il picciolo Mon[p. 476 modifica]do racchiuso entro i limiti dell’Italia contenea più popolazione e parti d’industria che non l’Impero spirante di Costantinopoli. In Europa, le ultime classi della società si erano affrancate dalla feudale servitù, e la libertà traeva con sè il desiderio d’istruirsi e il lume delle cognizioni che ne viene per conseguenza. La superstizione avea conservato l’uso della lingua latina, che parlavasi, per vero dire, in rozza e corrotta guisa, ma migliaia di studenti frequentavano le Università moltiplicatesi da Bologna d’Italia fino ad Oxford91, e comunque mal regolato fosse il loro ardore agli studj, poteano finalmente volgerlo a più nobili e liberali ricerche. In questo risorgimento delle scienze l’Italia fu la prima che fece sventolare la propria bandiera, e il Petrarca colle sue lezioni e col suo esempio ha meritato che gli si attribuisca il vanto di primo nell’accendere la fiaccola del sapere. Lo studio e l’imitazione degli scrittori dell’antica Roma, diedero maggiore purezza allo stile, più giustezza ai ragionamenti, più nobiltà ai pensieri. I discepoli di Virgilio e di Cicerone si avvicinarono con rispettoso fervore ai Greci stati maestri di questi sommi scrittori. Vero è che nel saccheggio di Costantinopoli, i [p. 477 modifica]Franchi, e i medesimi Veneziani aveano sprezzate e distrutte le opere di Lisippo e di Omero; ma non accade de’ capolavori degli Scrittori, come di quelli dell’arti, cui basta un barbaro cenno ad annichilare per sempre; la penna rinova e moltiplica le copie de’ primi, e l’ambizione dal Petrarca e de’ suoi amici, fu possedere di queste copie e intenderne il significato. La conquista de’ Turchi accelerò, non v’ha dubbio, la peregrinazione delle Muse, nè possiamo difenderci da un tal qual moto di terrore, in pensando come le Scuole e le Biblioteche della Grecia avrebbero potuto essere distrutte, prima che l’Europa escisse della sua barbarie; la qual cosa, se fosse accaduta, i germi delle scienze si sarebbero dispersi prima che il suolo dell’Italia fosse preparato a riceverli e coltivarli.

I più dotti fra gli Italiani del secolo decimoquinto, confessano ed esaltano il rinascimento della erudizione greca92, sepolta da molti secoli nell’obblio. Nondimeno in questa contrada e al di là dell’Alpi, si citano alcuni uomini dotti, che ne’ secoli dell’ignoranza si distinsero onorevolmente nella cognizione della lingua greca; e la vanità di nazione non ha trascurate le lodi dovute a questi esempj di straordinaria erudizione. Senza esaminare troppo scrupolosamente il [p. 478 modifica]merito personale di cotesti uomini, non pensiamo però starci dall’osservare che la loro scienza era priva di scopo come di utilità; che era cosa facile ad essi l’appagare sè medesimi, e una turba di contemporanei anche più ignoranti di loro, i quali possedeano pochissimi manoscritti composti nella lingua da essi come per prodigio appresa, e che in nessuna Università dell’Occidente veniva insegnata. Rimaneano alcuni vestigi di questa lingua in un angolo dell’Italia, ove riguardavasi come lingua volgare, o almeno come lingua ecclesiastica93. L’antico influsso delle colonie doriche e ionie, non era affatto distrutto. Le Chiese della Calabria essendo state per lungo tempo unite al trono di Costantinopoli, i Monaci di S. Basilio, faceano tuttavia i loro studj sul monte Atos e nelle Scuole dell’Oriente.  [A. D. 1339] Il frate Barlamo, che già vedemmo in figura di settario e di Ambasciatore, era calabrese di nascita, e per opera di lui risorsero oltre l’Alpi la memoria e gli scritti di Omero94. Il Petrarca e il Boccaccio95 nel dipingono uomo di piccola statura, sorprendente per erudizione [p. 479 modifica]ed ingegno, fornito di giusto e rapido discernimento, ma di una elocuzione lenta e difficile. La Grecia al dir loro non avea nel corso di molti secoli prodotto chi il pareggiasse per nozioni di Storia, di Gramatica e di Filosofia. I Principi e i dottori di Costantinopoli, riconobbero il merito sublime di cotest’uomo con attestazioni; delle quali una tuttavia ci rimane. L’Imperatore Cantacuzeno, comunque proteggesse gli avversarj di Barlamo, confessa che questo profondo e sottile logico96 era versatissimo nella lettura di Euclide, di Aristotele e di Platone.  [A. D. 1339-1374] Alla Corte di Avignone, Barlamo si unì in lega intrinseca col Petrarca97, il più dotto fra i Latini, essendo stato fomite della letteraria loro corrispondenza il desiderio reciproco d’instruirsi. Datosi con ardore allo studio della lingua greca il Toscano, dopo avere laboriosamente lottato contro l’aridezza e la difficoltà delle prime regole, pervenne a sentire le bellezze di que’ Poeti e Filosofi, di cui possedeva l’ingegno, ma non potè vantaggiare a lungo della compagnia e delle lezioni del nuovo amico. Abbandonatasi da Barlamo una inutile Legazione, tornò questi in Grecia, ma suscitò imprudentemente il fanatismo de’ frati coll’adoperarsi a sostituire la luce della ragione a quella del loro ombelico. Dopo una separazione di tre anni, i due amici s’incontrarono alla Corte di Napoli; ma il generoso disce[p. 480 modifica]polo rinunziando a quella occasione di farsi più perfetto nel greco idioma, cercò con forti raccomandazioni ed ottenne a Barlamo un piccolo Vescovado98 nella Calabria, patria dello stesso Barlamo. Le diverse occupazioni del Petrarca, l’amore, l’amicizia, le corrispondenze, i viaggi, la sua coronazione d’alloro a Roma, la cura data alle sue composizioni in versi e in prosa, in latino e in italiano, il distolsero dallo studio di un idioma straniero. Egli avea all’incirca cinquant’anni, allorchè uno de’ suoi amici, Ambasciatore di Bisanzo, parimente versato in entrambe le lingue gli fe’ dono di una copia d’Omero. La risposta ad esso fatto da Petrarca, attesta ad un tempo la gratitudine, i delicati crucci dell’animo, l’eloquenza di questo grand’uomo: „Il dono del testo originale di questo divino Poeta sorgente d’ogni invenzione è degno di voi e di me: voi avete adempiuta la vostra promessa, e appagati i miei voti. Ma imperfetta è la vostra generosità: dandomi Omero, dovevate darmi voi stesso, divenir mia guida in questo campo di luce, e scoprire ai miei occhi attoniti le seducenti maraviglie dell’Iliade e dell’Odissea. Ma, oh dio! Omero è muto per me, ovvero io sono sordo per lui, e non è in mia facoltà il godere delle bellezze che esso presenta. Ho collocato il Principe de’ Poeti a fianco di Platone, il Principe [p. 481 modifica]de’ filosofi, e divengo superbo di contemplarli. Io possedea già tutta quella parte de’ loro scritti immortali che è stata tradotta in latino; ma ora comunque io non possa trarne profitto, mi è però un conforto il vedere questi rispettabili Greci vestiti coll’abito di lor nazione. La presenza di Omero mi rapisce: e allorquando tengo questo tacito volume fra le mie mani, esclamo sospirando: illustre Poeta, con qual giubilo ascolterei i tuoi canti, se la morte di un amico e la cordogliosa lontananza di un altro non togliessero ogni forza di sentire al mio udito! Ma l’esempio di Catone, mi fa coraggioso, nè dispero ancora in pensando che sol sul compiersi dei suoi giorni questo Romano alla conoscenza delle lettere greche pervenne„99.

[A. D. 1360] La scienza cui sforzavasi invano di aggiugnere il Petrarca, fu più accessibile agli studj dell’amico di lui il Boccaccio, padre della prosa toscana100. Que[p. 482 modifica]sto Scrittore popolare, che dee la propria celebrità al Decamerone, vale a dire ad un centinaio di Novelle amorose e piacevoli, può giustamente essere considerato come colui che ridestò in Italia lo spento amore dell’idioma greco. Pervenuto nel 1360, e colle persuasioni e cogli atti di ospitalità a trattenere presso di sè Leone, o Leonzio Pilato, che indirigevasi ad Avignone, lo alloggiò nella propria casa, ed ottenutagli una pensione dalla Repubblica fiorentina, consagrò tutte le ore di ozio al primo professore greco che insegnasse questa lingua nelle contrade occidentali dell’Europa. L’esterno di Leone avrebbe allontanato da tale studio un discepolo che ne fosse stato amante men del Boccaccio. Avvolto questo maestro in mantello di filosofo, o di cencioso, avea contegno ributtante, capelli neri che disordinatamente gli venivan sul fronte, barba lunga, nè troppo monda, di carattere volubile e cupo, e nè meno compensava questi difetti sgradevoli colle grazie e colla chiarezza del discorso quando parlava latino.  [A. D. 1360-1363] Pur l’ingegno di costui racchiudeva un tesoro di greca erudizione; egualmente versato nella favola, nella storia, nella gramatica e nella filosofia, spiegò nelle scuole di Firenze i poemi d’Omero. Col soccorso delle istruzioni del medesimo, il Boccaccio compose, per far cosa grata all’amico Petrarca, una traduzione letterale in prosa dell’Iliade e dell’Odissea, della quale è probabile che si valesse in segreto Lorenzo Valla per comporre nel successivo secolo la sua versione latina. Il Boccaccio inoltre da’ suoi intertenimenti con Leone raccolse i materiali per l’Opera intorno agli Dei del Paganesimo, riguardata in quel secolo come un prodigio di erudizione, e che l’autore giuncò di caratteri [p. 483 modifica]e passi greci per eccitare la sorpresa e l’ammirazione de’ suoi ignoranti contemporanei101. I primi passi nella instruzione sono lenti e penosi; ond’è che tutta l’Italia non somministrò in principio che dieci discepoli d’Omero, numero al quale nè Roma, nè Venezia, nè Napoli aggiunse un solo nome di più. Nondimeno gli studenti si sarebbero moltiplicati, e questo studio avrebbe fatto più rapidi progressi, se l’incostante Leone, in capo a tre anni, non avesse abbandonato uno stato onorevole e vantaggioso. Passando da Padova si fermò alcuni giorni in casa del Petrarca, cui tanto spiacque il carattere cupo e insocievole di quest’uomo, quanto l’erudizione lo soddisfece; malcontento degli altri e di sè medesimo, disdegnando la felicità di cui potea godere, Leone non si traeva mai volentieri coll’immaginazione che su gli uomini e gli oggetti lontani. Tessalo in Italia, Calabrese in Grecia, disprezzava alla presenza de’ Latini i loro costumi, la loro religione, la loro lingua, e arrivato appena a Costantinopoli sospirò la ricchezza de’ Veneziani e l’eleganza de’ Fiorentini. Voltosi nuovamente agli amici d’Italia, li trovò sordi alle sue importunità; nondimeno molto ripromettendosi dalla loro indulgenza e curiosità, si avventurò ad un secondo viaggio; ma all’ingresso del [p. 484 modifica]golfo Adriatico il vascello, entro cui stavasi, essendo stato assalito da una tempesta, l’infelice Professore, raccomandatosi come Ulisse all’albero della nave, morì percosso dal fulmine. L’affettuoso Petrarca versò qualche lagrima sulla morte di questo infelice; ma soprattutto cercò accuratamente di sapere, se qualche copia di Sofocle, o d’Euripide fosse caduta fra le mani de’ marinai102.

[A. D. 1390-1415] I deboli germi raccolti dal Petrarca e trapiantati dal Boccaccio, inaridirono ben tosto. La successiva generazione, limitatasi a perfezionare la latina eloquenza, abbandonò l’erudizione greca, e solamente verso la fine del secolo XIII quest’altro studio si rinovò in guisa durevole nell’Italia103. Prima d’imprendere il suo viaggio, Manuele avea deputati oratori ai Sovrani d’Occidente per eccitare la loro compassione. Il più ragguardevole di questi per dignità e per sapere fu Manuele Crisoloras104, di na[p. 485 modifica]scita sì nobile, a quanto credeasi, che i maggiori di lui aveano abbandonata Roma per seguire il Gran Costantino. Dopo avere visitate le Corti di Francia, e d’Inghilterra, ove ottenne alcuni soccorsi e molte promesse, venne sollecitato a sostenere pubblicamente gli uffizj di Professore, secondo invito fatto a un Greco, di cui parimente Firenze ebbe il merito. Crisoloras, versato del pari nelle lingue greca e latina, meritò i riguardi per lui avutisi dalla Repubblica, e le speranze ne oltrepassò. Discepoli d’ogni età e di ogni condizione alla sua scuola accorrevano, e uno fra questi compose una Storia generale, in cui rendea conto de’ motivi degli studj impresi e degli ottenuti successi. „In quel tempo, dice Leonardo Aretino105, io studiava la Giurisprudenza, ma ardendo l’animo mio per l’amor delle Lettere, io dava alcune ore allo studio della Logica e della Rettorica. All’arrivo di Manuele stetti perplesso, se avrei abbandonato lo studio delle leggi, o se avrei lasciata sfuggire la preziosa occasione che mi si offeriva, instituendo nel bollore dalla mia giovinezza questi ragionamenti [p. 486 modifica]fra me medesimo: Così dunque tradiresti la fortuna che ti sorride? Ricuseresti un modo per potere conversare famigliarmente con Omero, con Demostene e con Platone, con que’ Poeti, con que’ Filosofi, con quegli Oratori, di cui tanto grandi maraviglie si narrano, e che tutte le generazioni hanno riconosciuti quali maestri sovrani di tutte le scienze? Si troverà sempre nelle nostre Università un numero bastante di Professori di diritto civile; ma un maestro di lingua greca, e un maestro simile a questo, lasciandolo sfuggire una volta, come trovarlo di nuovo? Convinto da questo ragionamento, mi dedicai per intero a Crisoloras, e con tanta ardenza, che le lezioni da me studiate il giorno, divenivano costantemente il soggetto de’ sogni miei nella notte106„. Nel medesimo tempo Giovanni da Ravenna, educato nella casa del Petrarca107, interpretava gli autori latini a Firenze; duplice scuola in cui furono allevati quegli Italiani che illustrarono il secolo e la patria loro, e per tal modo quella chiara città dell’Italia, divenne l’utile vivaio dell’erudizione de’ Greci e dei Romani108. L’arrivo dell’Imperatore richiamò Cri[p. 487 modifica]soloras dalla cattedra alla Corte, ma insegnò in appresso a Pavia e a Roma colla medesima fortuna e coronato sempre d’eguali applausi. Ripartendo i quindici ultimi anni della sua vita, fra l’Italia e Costantinopoli, ora Inviato imperiale, or Professore, l’onorevole ministero di rischiarare col proprio ingegno una straniera nazione, nol fece dimentico mai di quanto al suo Principe e alla sua patria dovea. Manuele Crisoloras, morì a Costanza, ove lo avea spedito in delegazione presso al Concilio l’Imperatore.

[A. D. 1400-1500] Allettata da sì fatto esempio, una folla di Greci indigenti, e istrutti almeno nella loro lingua, si diffusero per l’Italia, accelerando così il progresso delle lettere greche. Gli abitanti di Tessalonica e di Costantinopoli fuggirono lungi dalla tirannide de’ Turchi, in seno ad un paese ricco, libero e curiosissimo. Il Concilio introdusse in Firenze le dottrine della Chiesa greca, e gli oracoli della filosofia di Platone: e que’ fuggiaschi che acconsentirono alla unione delle due Chiese, ebbero nella nuova patria il doppio merito di abbandonare l’antica, non solamente per la causa del Cristianesimo, ma per quella più particolare del Cattolicismo. Un cittadino che sagrifica la sua fazione e la propria coscienza agli adescamenti del favore, può nondimeno non essere sfornito delle sociali virtù di [p. 488 modifica]un privato. Lungi dal suo paese, egli è meno esposto agli umilianti nomi di schiavo e di apostata, e la considerazione che si guadagna presso i nuovi associati, può a grado a grado ricondurlo a ben pensare di sè medesimo. Bessarione, che in premio della sua docilità aveva ottenuta la porpora ecclesiastica, pose dimora in Italia; e il Cardinale greco, patriarca titolare di Costantinopoli, fu riguardato a Roma come il Capo e protettore della sua nazione109. Fece valere il suo ingegno nelle Legazioni di Bologna, di Venezia, della Francia e dell’Alemagna, e in un Conclave fu per alcuni momenti disegnato a salire la cattedra di S. Pietro110. Gli onori ecclesiastici avendo giovato a farne spiccare di più il merito e l’ingegno letterario, il suo palagio videsi trasformato in una scuola, nè accadea che il Cardinale si trasferisse al Vaticano senza che lo seguisse un numeroso stuolo di discepoli dell’una e dell’altra nazione111, e di dotti, i quali col gloriarsi di un tale maestro, vie meglio meritavano dal pubblico, divenuti eglino pure autori [p. 489 modifica]di scritti che, oggidì coperti di polvere, grande spaccio ebbero in quella età con molto vantaggio de’ contemporanei. Non mi assumo io qui di noverare tutti coloro che nel secolo XV contribuirono a restaurare la greca letteratura. Mi basta il citare con gratitudine i nomi di Teodoro Gaza, di Giorgio da Trebisonda, di Giovanni Argiropolo, e di Demetrio Calcocondila, che insegnarono la propria nativa lingua nelle scuole di Firenze e di Roma. Le loro fatiche pareggiarono quelle di Bessarione, del quale rispettavano la dignità, invidiandone in segreto la sorte; ma umile ed oscura si fu la vita di questi gramatici, che, toltisi dal lucroso arringo ecclesiastico, viveano segregati dalle più ragguardevoli compagnie, e per le proprie consuetudini, e per lo stesso vestire; laonde non avendo essi ambito altro merito, fuor quello dell’erudizione, doveano contentarsi di quel solo compenso che a questa si tributava. Da tal classe vuol essere eccettuato Giovanni Lascaris112. I modi affabili, l’eloquenza, l’illustre nascita che lo adornavano, raccomandarono in lui un discendente d’Imperatori ai Reali di Francia, i quali lo inviavano in diverse città, ove adempieva a vicenda gli uffizj di negoziatore e di Professore. Per dovere e per in[p. 490 modifica]teresse, i mentovati dotti coltivarono lo studio della lingua latina, alcuni di loro essendo pervenuti a scrivere e a parlare con eleganza e facilità questo idioma ad essi peregrino. Non quindi spogliatisi mai della nazionale vanità, le loro lodi, o almeno l’ammirazione riserbavano come in privilegio agli scrittori del loro paese, all’ingegno de’ quali la fama ed il vitto doveano; e la loro parzialità alcune volte svelavano con isconvenevoli critiche, o piuttosto satire contro i poemi di Virgilio, e le arringhe di Cicerone113. Non dee però tacersi che molta parte del merito per cui primeggiavano questi maestri del greco, diveniva loro dalla consuetudine di parlare in tale idioma, consuetudine che va per necessità unita alle lingue viventi: ma i loro primi discepoli non poterono discernere quanto avessero tralignato dalla scienza ed anche dalla pratica dei loro maggiori; e fu opera del senno della successiva generazione, il bandir dalle scuole la pronunzia viziosa114 [p. 491 modifica]che quelli vi aveano introdotta. Ignari essendo del valore degli accenti greci, quelle note musicali, che pronunziate da una lingua attica e da orecchio attico udite, racchiudevano il segreto dell’armonia, non erano per essi, come per noi, che contrassegni muti e privi di significato, inutili nella prosa, incomodi nella poesia. Possedeano essi i veri principj della gramatica; onde rifusero nelle loro lezioni i preziosi fragmenti di Apollonio e di Erodiano; e i lor Trattati della sintassi e della etimologia, benchè sforniti di spirito filosofico, sono anche ai dì nostri di un grande soccorso agli studiosi. Nel tempo che le Biblioteche di Bisanzo si distruggevano, ciascun fuggitivo s’impadronì d’un fragmento del tesoro pericolante, di una copia di qualche autore, che senza di ciò sarebbe andata perduta. Queste copie vennero moltiplicate da diverse penne laboriose, e talvolta ingegnose, che ammendavano, ove era d’uopo, il testo, e aggiugnevano le loro interpretazioni, o quelle di antichi scoliasti. I Latini conobbero se non lo spirito, almeno il significato letterale degli Autori classici della Grecia. Le bellezze di stile sparivano in una traduzione; ma Teodoro Gaza ebbe l’intendimento di scegliere opere rilevanti per sè stesse [p. 492 modifica]siccome quelle di Teofrasto e d’Aristotele; e le Storie delle piante e degli animali da questi Greci composte, apersero un vasto campo alla parte teorica e sperimentale delle scienze naturali.

Venne ciò nulla ostante data la preferenza alle incerte nubi della metafisica. Un venerabile Greco fece risorgere in Italia il genio di Platone, condannato da lungo tempo all’obblio, e nel palagio de’ Medici lo insegnò115; elegante filosofia che poteva essere di qualche vantaggio, in quel tempo che il Concilio di Firenze a dispute teologiche solo attendeva. Lo stile di Platone è un prezioso modello della purezza del dialetto attico: e adatta sovente i suoi più sublimi pensamenti al tuono famigliare della conversazione, arricchendoli talvolta di tutta l’arte dell’eloquenza e della poesia. I dialoghi di questo grand’uomo offrono un quadro drammatico della vita e della morte d’un saggio: e allorchè si degna discendere dai cieli, il suo Sistema morale imprime nell’animo l’amore della verità, della patria e della umanità. Socrate, co’ precetti e coll’esempio, avea raccomandato un modesto dubitare e un libero ricercare: l’entusiasmo de’ Platonici, che adoravano ciecamente le visioni e gli errori del lor divino maestro, potea giovare a correggere il metodo arido e dogmatico della Scuola peripatetica. Aristotele e Platone offrono meriti eguali, e [p. 493 modifica]nullameno sì diversi fra loro, che ponendoli in bilancia, darebbero luogo ad una interminabile controversia; pur qualche scintilla di libertà può uscire dall’urto di due opposte servitù. Queste due Sette divisero fra loro i Greci moderni, i quali sotto lo stendardo degli antichi maestri, con più di furore che d’intelligenza, si fecero guerra. I fuggiaschi di Costantinopoli scelsero Roma per nuovo lor campo di battaglia; ma non andò guari che i gramatici fecero entrare in questa filosofica lotta l’odio e le ingiurie personali: laonde Bessarione, comunque partigiano zelantissimo di Platone egli fosse, sostenne l’onore della patria, frammettendo i consigli e l’autorità d’un mediatore. La dottrina dell’Accademia, ne’ giardini de’ Medici, formava le delizie degli uomini colti e gentili; ma distrutta ben tosto questa filosofica società, il Saggio d’Atene non venne più consultato che negli scientifici gabinetti, intanto che il possente emulo del medesimo, rimase solo oracolo della scuola e della Chiesa116.

[A. D. 1447-1455] Ho descritto con imparzialità il merito letterario de’ Greci, ma gli è d’uopo confessare che la buona voglia de’ Latini li secondò, e fors’anche li superò. Sendo allora l’Italia divisa in un grande numero di piccioli Stati independenti, i Principi e le Repubbliche si disputavano l’onore d’incoraggiare e ricompensare le belle lettere. Nicolò V117, il cui merito fu infi[p. 494 modifica]nitamente superiore alla sua fama, per sapere e virtù si tolse dalla oscurità, ove la nascita lo avea posto, l’indole dell’uomo superando in lui mai sempre l’interesse del Pontefice, Nicolò arrotò di propria mano le armi, di cui fu fatto uso in appresso per offendere la Chiesa romana118. Dopo essere stato l’amico de’ principali dotti del suo secolo, ne divenne il protettore, e tal si era la rara semplicità de’ suoi costumi, che nè egli, nè essi quasi si accorsero d’un cambiamento di condizione. S’ei sollecitava qualcuno ad accettare un donativo, non l’offeriva come misura di merito, ma come prova di affetto, e scontrandosi in chi per modestia esitasse, soggiugnea compreso dal sentimento di quel che valeva egli stesso: „Accettate, non avrete sempre un Nicolò in mezzo a voi„. Diffondendosi via maggiormente per tutta la Cristianità l’influsso della Santa Sede, il virtuoso Pontefice se ne valse per acquistar più libri che benefizj. Mandò a cercare, fra le rovine delle Biblioteche di Costantinopoli e in tutti i monasteri dell’Alemagna e della Gran Brettagna, i polverosi manoscritti dell’Antichità, procacciandosi le copie esatte di quelli de’ quali non gli si volevano vendere gli originali. [p. 495 modifica]Il Vaticano, antico119 ricettacolo delle Bolle, delle Leggende, de’ monumenti della superstizione e della frode, ringorgò di suppellettili più rilevanti, e tanto s’adoperò Nicolò, che negli otto anni del suo regno, pervenne ad unire una Biblioteca di cinquemila volumi. Alla munificenza di questo Pontefice, il Mondo latino fu debitore delle traduzioni di Senofonte, Diodoro, Polibio, Tucidide, Erodoto ed Appiano; della geografia di Strabone, dell’Iliade, delle più preziose Opere di Platone, di Aristotele, di Tolomeo, di Teo[p. 496 modifica]frasto e de’ Padri della Chiesa greca. Un mercatante di Firenze, che senza titoli di nascita e senza il soccorso dell’armi, governava Firenze, imitò l’esempio del romano Pontefice. Il nome e il secolo di Cosimo de’ Medici120 ceppo di una sequela di Principi, sono intrinsecamente collegati coll’idea del risorgimento delle scienze.  [A. D. 1428-1492] La sua possanza gli venne dalla fama che si meritò consagrando le proprie ricchezze al vantaggio dell’uman genere. Le corrispondenze di lui si estendeano dal Cairo a Londra, e spesse volte la medesima nave gli riportava libri greci e droghe dell’India. L’ingegno del suo nipote Lorenzo, e l’educazione che il bisavolo gli procurò, ne fecero non solamente un proteggitore della letteratura, ma un giudice della medesima e un letterato. La sciagura trovava nel suo palagio un soccorso, il merito un guiderdone; l’Accademia platonica rallegravane gli ozj; incoraggiò le nobili gare di Demetrio Calcocondila e di Angelo Poliziano; Giovanni Lascaris, zelante missionario di Lorenzo, gli riportò dall’Oriente dugento manoscritti, ottanta de’ quali erano sconosciuti in que’ tempi alle Biblioteche d’Europa121. Animata [p. 497 modifica]da un medesimo spirito tutta l’Italia, i progressi delle nazioni retribuirono ai Principi il compenso delle loro liberalità. Riserbatisi i Latini il privilegiato possedimento della loro propria letteratura, questi discepoli de’ Greci divennero ben presto capaci di trasmettere e perfezionare le lezioni che aveano ricevute. Dopo un breve succedersi di maestri stranieri, la migrazione cessò; ma già essendosi diffuso l’idioma dei Greci al di là dell’Alpi, la gioventù della Francia, dell’Alemagna e dell’Inghilterra122, propagò nella sua patria il sacro fuoco che avea ricevuto nelle scuole di Roma e di Firenze123. Nei parti dello spirito, come nelle produzioni della terra, l’arte e l’industria superano i doni della natura; gli Autori greci, dimenticati alle rive dell’Ilisso, comparvero splendenti su [p. 498 modifica]quelle dell’Elba e del Tamigi; Bessarione e Gaza avrebbero potuto invidiare l’esattezza di Budeo, il buon gusto d’Erasmo, la facondia di Stefano, l’erudizione di Scaligero, e il discernimento di Reiske, o di Bentley. Il caso arricchì i Latini di un novello vantaggio colla scoperta della stampa; ma Aldo Manuzio e i suoi innumerabili successori adoperarono quest’arte preziosa a moltiplicare e perpetuare le Opere dell’Antichità124. Un solo manoscritto portato dalla Grecia, moltiplicavasi in diecimila copie tutte più belle che l’originale. Sotto questa forma Omero e Platone leggerebbero più volentieri le proprie Opere, e i loro scoliasti debbono cedere la palma ai nostri editori occidentali.

Prima che la letteratura classica risorgesse in Europa, gli abitatori di essa avvolgeansi fra le tenebre di una barbara ignoranza, e la povertà stessa degli idiomi annunziava la rozzezza de’ loro costumi. Coloro che studiarono i più perfetti idiomi di Roma e della Grecia, si trovarono trapiantati in un nuovo [p. 499 modifica]Mondo di scienza e di luce, ammessi nel consorzio delle nazioni libere e ingentilite dell’Antichità, e in famigliare conversazione con quegl’immortali, che aveano parlato il sublime linguaggio dell’eloquenza e della ragione. Corrispondenze di tal natura doveano necessariamente innalzar l’anima e migliorare il gusto de’ moderni; potremmo credere nullameno, ragionando sulle prime Opere di questi, che lo studio degli Antichi avesse somministrate catene, anzichè ali, all’umano ingegno. Lo spirito d’imitazione, comunque lodevole sia il modello, tiene sempre alla schiavitù; onde i primi discepoli dei Greci e de’ Romani, pareano una colonia di stranieri in mezzo al loro paese e al lor secolo. Tante minute cure adoprate ad introdursi ne’ penetrali dell’Antichità più rimota, poteano impiegarsi più utilmente nel render perfetto lo stato attuale della società: i Critici e i Metafisici, seguivano servilmente l’autorità di Aristotele. I Poeti, gli Storici, gli Oratori, ripeteano, con fastosa ostentazione, i pensieri e le espressioni del secolo d’Augusto; se contemplavano le opere della natura, cogli occhi di Plinio e di Teofrasto il faceano; e alcuni d’essi, Pagani devotissimi, rendeano perfino segreto omaggio agli Dei di Omero e di Platone125. Gli Italiani, nel secolo [p. 500 modifica]successivo alla morte del Petrarca e del Boccaccio, si trovarono oppressi dal numero e della possanza de’ loro antichi ausiliarj. Comparve una folla d’imitatori latini, che adesso lasciamo, senza inconveniente, riposare negli scaffali delle nostre biblioteche. Ma difficilmente potremmo citare in quell’epoca di erudizione, la scoperta di una scienza, un’opera originale, o eloquente, scritta in idioma nativo126. Ciò nullameno, quando il suolo fu bastantemente imbevuto di questa celeste rugiada, la vegetazione e la vita comparvero d’ogni banda; i moderni idiomi vennero a perfezione; gli Autori classici di Roma e di Atene inspirarono purezza di gusto e nobile emulazione. Nell’Italia, siccome dappoi nella Francia e nell’Inghilterra, al regno seducente della poesia e delle finzioni, succedettero i lumi della filosofia speculativa e sperimentale. Può talvolta il genio emergere più presto della espettazione; ma all’educazione di un popolo, siccome a quella di un indi- [p. 501 modifica]viduo, è necessario ne sia esercitata la memoria, prima di mettere in atto le molle della ragione, o della imitazione. Sol dopo averli imitati per lungo tempo, perviene l’artista a pareggiare, e talvolta a superare, i proprj modelli.


fine del volumeduodecimo

Note

  1. Questa singolare istruzione è stata tolta, cred’io, dagli archivj del Vaticano, per cura di Odorico Raynald, e inserita nella sua continuazione degli Annali del Baronio (Roma, 1646-1677, in dieci volumi in folio). Io non mi sono prevalso che dell’Abate Fleury (Hist. eccles., t. XX, p. 1-8), le compilazioni del quale Scrittore ho sempre trovate chiare, esatte ed imparziali.
  2. Si vegga la nostra Nota (pag. 89) che tratta del Concilio di Lione. (Nota di N. N.).
  3. L’ambiguità di questo titolo è felice, o ingegnosa; e Moderator come sinonimo di rector, gubernator, è un termine di latinità classica ed anche ciceroniana, che si troverà non nel Glossario del Ducange, ma nel Thesaurus di Roberto Stefano.
  4. La prima epistola (sine titulo) del Petrarca, rappresenta il pericolo della barca e l’incapacità del piloto. Haec inter, vina madidus, aevo gravis ac soporifero rore perfusus, jam jam nutitat, dormitat, jam somno praeceps atque (utinam solus) ruit..... heu quanto felicius patrio terram sulcasset aratro, quam scalmum piscatorium ascendisset. Una tale satira impone al biografo di questo Pontefice l’obbligo di pesarne le virtù e i vizj, che sono stati esagerati dai Guelfi e dai Ghibellini, dai Cattolici e dai Protestanti (V. le Memorie sulla vita del Petrarca, t. I, p. 259; II, n. 15, p. 13-16). Fu Papa Benedetto XII che diede occasione al proverbio bibamus papaliter.
  5. V. le Vite originali di Clemente VI nel Muratori (Script. rer. ital., t. III. parte 2, pag. 550-589), in Mattia Villani (Cron., l. III, c. 43, in Muratori, t. XIV, p. 186), che lo chiama molto cavalleresco, poco religioso; in Fleury (Hist. eccles., tom. XX, p. 127) e nella Vita del Petrarca (t. II, p. 42-45). L’Abate di Sade gli si mostra assai più indulgente; ma è da notarsi che questo Scrittore era prete e gentiluomo ad un tempo.
  6. Questa matrona è conosciuta sotto il nome, probabilmente sformato, di Zampea, ed aveva accompagnata la sua padrona a Costantinopoli, ove rimase sola con essa. Gli stessi Greci non le poterono negar lode di donna prudente, erudita e cortese. Cantacuzeno (l. I, c. 42).
  7. Era opportuno il provare l’asserzione con una particolare citazione. (Nota di N. N.).
  8. V. tutta questa negoziazione in Cantacuzeno (lib. IV, c. 9), che in mezzo agli encomj di cui largheggia alla propria virtù, svela le inquietudini di una coscienza colpevole.
  9. V. un così ignominioso Trattato in Fleury (Hist. eccles., p. 151-154), che lo ha tolto da Raynald, e questi forse dagli archivj del Vaticano. Esso non meritava il fastidio di adulterarlo.
  10. V. le due Vite originali di Urbano V nel Muratori (Script. rer. ital., t. III, parte 2, p. 623-635) e gli Annali ecclesiastici di Spondano (t. I, p. 573, A. D. 1369, n. 7) e Raynald (Fleury, Hist. eccles., t. XX, p. 223, 224). Credo che gli Storici pontifizj, se hanno esagerato, abbiano esagerato di poco le genuflessioni di Paleologo.
  11. Paulo minus quam si fuisset Imperator Romanorum. Nondimeno il suo titolo d’Imperatore de’ Greci non gli venia disputato (Vit. Urbani V, p. 623).
  12. Privilegio riserbato ai soli successori di Carlomagno, i quali anche non poteano goderne che il giorno di Natale: in tutte le altre feste, questi diaconi coronati, si contentavano di presentare al Papa il messale e il corporale, quando diceva la messa. Nondimeno l’Abate di Sade ha la generosità di credere cosa possibile, che siasi derogato alla regola per un riguardo ai meriti di Carlo IV, ma non in quello stesso giorno, che era il primo novembre 1368. Sembra che l’Abate apprezzi al giusto e l’uomo, e il privilegio (Vie de Pétrarque, t. III, p. 735).
  13. A malgrado della denominazione italiana corrotta (Mattia Villani, l. XI, c. 79, in Muratori, t. XV, pag. 746), l’etimologia di Falcone in bosco ci dà la parola inglese Hawkwood, vero nome del nostro audace concittadino (Tommaso Walsingham, Hist. anglican., inter scriptores Cambdeni, p. 184). Dopo ventidue vittorie e una sola sconfitta, morto nel 1394 Generale de’ Fiorentini, questa repubblica lo fece seppellire con onori che non avea conceduti nè a Dante, nè al Petrarca (Muratori, Annali d’Ital., t. XII, p. 212-271).
  14. Questo torrente d’Inglesi, o il fossero per nascita, o per la causa che difendevano, calò di Francia in Italia dopo la pace di Bretignì, nel 1360. Il Muratori (Ann., tom. XII, p. 197) esclama con più di verità che di cortesia: „Ci mancava ancor questo, che dopo essere calpestata l’Italia da tanti masnadieri Tedeschi ed Ungheri, venissero fin dall’Inghilterra nuovi cani a finire di divorarla.
  15. Calcocondila, (l. I, p. 25-26) pretende che Paleologo si trasferisse a visitare la Corte di Francia: ma il silenzio degli Storici nazionali confuta abbastanza quest’asserzione. Non sono nè manco molto inclinato a credere che egli abbandonasse l’Italia, valde bene consolatus et contentus, come ne vien detto nella Vita di Urbano V, p. 623.
  16. Il ritorno di Paleologo a Costantinopoli, accaduto nell’anno 1370, e la coronazione di Manuele nel 25 settembre 1373 (Ducange, Famil. byzant., p. 241), lascia un intervallo per la cospirazione e pel gastigo d’Andronico.
  17. Mém. de Boucicault, p. 1, c. 35, 36.
  18. Calcocondila (l. II, c. 44-50) e Duca (c. 14) parlano leggermente, e a quanto sembra, con ripugnanza del viaggio di Manuele nell’Occidente.
  19. V. Muratori, Annali d’Italia, t. XII, pag. 407. Giovanni Galeazzo fu il primo e il più potente dei Duchi di Milano. La sua corrispondenza con Baiazetto è attestata dal Froissard; contribuì a salvare, o liberare i prigionieri francesi di Nicopoli.
  20. Intorno al ricevimento di Manuele a Parigi, V. Spondano (Annal. eccles., t. I, p. 676, 677, A. D. 1400, n. 5), il quale cita Giovenale degli Orsini e i monaci di S. Dionigi, e Villaret (Hist. de France, t. XII, p. 331-334), che non cita nessuno, conforme la nuova usanza degli Scrittori francesi.
  21. Il dottore Hody ha tolto da un manoscritto di Lambeth (De Graecis illustribus) una nota che si riferisce al soggiorno di Manuele nell’Inghilterra. Imperator, diu variisque et horrendis paganorum insultibus coarctatus, ut pro eisdem resistentiam triumphalem perquireret, Anglorum regem visitare decrevit etc. Rex (dice il Walsingham p. 364) nobili apparatu.... suscepit (ut decuit) tantum Heroa; duxitque Londonias, et per multos dies exhibuit gloriose, pro expensis hospitii sui solvens, et eum respiciens tanto fastigio donativis. Egli ripete la medesima cosa nel suo Upodigma Neustriae (p. 556)
  22. Shakespear comincia e termina la tragedia di Enrico IV col voto fatto da questo Principe di prender la croce, e col presentimento che egli avea di morire a Gerusalemme.
  23. Questo fatto viene raccontato nella Historia politica (A. D. 1391-1478), pubblicata da Martino Crusio (Turco-Graecia, p. 1-43). L’immagine di Cristo, alla quale l’Imperator greco ricusò omaggio, era forse un lavoro di scoltura.
  24. Leonico Calcocondila termina col cominciar del verno del 1463 la Storia de’ Greci e degli Ottomani; e l’affrettata conclusione della medesima ne dà a supporre che in quello stesso anno lo Storico tralasciasse di scrivere. Sappiamo che egli era di Atene, e che alcuni contemporanei dello stesso cognome assai giovarono al rinascimento dell’idioma greco in Italia. Ma questo Scrittore, nelle lunghe sue digressioni, ha avuta mai sempre la modestia di non parlar di sè stesso. Leunclavio, editore, e Fabrizio (Bibl. graec., tom. VI, p. 474), sembrano ignorare del tutto lo stato di lui e la Storia della sua vita. Quanto alle sue descrizioni dell’Alemagna, della Francia e dell’Inghilterra, V. l. II, p. 36, 37, 44-50.
  25. Non mi starò qui a notare gli errori geografici di Calcocondila. Egli ha forse nella sua descrizione seguito e male inteso il testo di Erodoto (l. II, cap. 33), soggetto a varia interpretazione (Erodoto di Larcher, t. II, p. 219, 220). Ma questi moderni Greci non aveano dunque mai letto Strabone, nè alcuno de’ loro geografi?
  26. Un cittadino della nuova Roma, finchè questa nuova Roma durò, non si sarebbe degnato di onorare il Ρηξ, Re alemanno del titolo di Βασιλευς, o Αυτοκρατωρ Ρομαιων, Monarca, o Autocratore Romano; ma Calcocondila avea spogliato ogni spezie di vanità, accennando il Principe di Bisanzio e i suoi sudditi colle esatte ed umili denominazioni di Ελληνες e Βασιλευς Ελληνων, Greci e Re de’ Greci.
  27. Nel secolo decimoquarto veniva tradotta in prosa francese la maggior parte de’ vecchi romanzi che divennero la lettura favorita de’ cavalieri e delle dame della Corte di Carlo VI; e si può meglio perdonare ad un Greco l’aver credute vere, se credè vere, le imprese di Olivieri e di Orlando, che ai Frati di S. Dionigi, i quali inserirono nelle loro Cronache di Francia le favole dell’Arcivescovo Turpino.
  28. Δονδινη .... δε τε πτολιε δυναμει τε προεχουσα των εν τη νητω ταυτη πολεων, ογβω τε και τη αλλη ευδαιμονια των προς εσπεραν λειπομενη, Londra.... città che per potenza avanza tutte le altre città dell’isola, e in ricchezza e in ogni genere di prosperità si lascia indietro quante ve n’ha in Occidente. Ne’ tempi di Fitz-Stephen, ossia nel secolo dodicesimo, sembra che Londra per ricchezza e grandezza abbia goduto di una tal primazia; primazia ch’ella ha conservata di poi col crescere in estensione progressivamente, e proporzionatamente agli aumenti per cui le altre capitali dell’Europa abbellivansi.
  29. Ammettendo anche che il doppio significato del verbo Κυω (osculor e in utero gero) desse luogo ad equivoco, non può dubitarsi di ciò che Calcocondila intendeva dire, e dell’abbaglio da lui preso, ponendo mente all’orror pio che il comprende nell’annunciare questo barbaro uso (p. 49).
  30. Erasmo (epist. Fausto Andrelino) parla in modo scherzevole dell’usanza che hanno gl’Inglesi di baciare gli stranieri, senza badare al sesso, all’atto del loro arrivo, ma non ne deduce quindi sinistre supposizioni.
  31. Noi potremo forse applicare questa osservazione alla comunanza delle donne che Cesare e Dione Cassio hanno supposta in vigore fra gli antichi Brettoni (l. LXII, t. II, p. 1007), e V. Dione colle giudiziose note del Reimar. Gli Arreoy di Taiti, corporazione la cui infamia ne sembrava da prima evidentissima, ci appaiono men colpevoli col nostro aumentar di nozioni sulle costumanze di questo popolo buono e pacifico.
  32. V. Lenfant (Hist. du Concile de Constance, tom. II, p. 576), e quanto alla Storia ecclesiastica di que’ tempi, gli Annales dello Spondano, la Biblioteca del Dupin (t. XII) e i tomi XXI, XXII della Storia, o piuttosto della continuazione di Fleury.
  33. Fin dalla prima giovinezza, Giorgio Franza, o Phranzès fu impiegato al servigio dello Stato e del palagio; e l’Hank (De script. byzant., parte I, c. 40) ne ha raccolta da’ suoi scritti la vita. Avea ottantaquattro anni, quando Manuele morendo, lo raccomandò caldamente al suo successore. Imprimis vero hunc Phranzen tibi commendo, qui ministravit mihi fideliter et diligenter (Franza, l. II. c. 1). L’Imperatore Giovanni nondimeno si comportò freddamente verso di lui, ai servigi del medesimo preferendo quelli dei despoti del Peloponneso.
  34. V. Franza, lib. II, c. 13. Poichè vi sono tanti manoscritti greci nelle biblioteche di Roma, di Milano e dell’Escuriale, è un obbrobrio che noi siamo ridotti a valerci delle traduzioni latine e delle compilazioni di Giacomo Pontano (ad calcem Teophlact. Simocattae, Ingolstadt, 1604), che mancano ad un tempo di eleganza e di esattezza (Fabricius, Bibl. graec., t. VI, p. 615-620).
  35. V. Ducange, Fam. byzant., p. 243-248.
  36. L’estensione esatta dell’Essamilione posto fra i due mari, era di tremila ottocento orgigie, o tese di sei piedi greci (Franza, l. I, c. 38), lunghezza equivalente ad un miglio greco, più corto di quello di seicentosessanta tese francesi che il d’Anville pretende adoperarsi in Turchia. La larghezza dell’Istmo viene comunemente riguardata di cinque miglia (V. i Viaggi di Spon, Wheeler e Chandler).
  37. La prima obbiezione degli Ebrei cade sulla morte di Gesù Cristo; se era stata volontaria, egli era dunque colpevole di suicidio, al che l’Imperatore rispose allegando un mistero. Si fanno indi a disputare sulla Concezione di Maria Vergine, sul significato delle profezie (Franza, l. II, c. 12, fino alla fine del capitolo).
  38. Ciò si riferisce a poco dopo l’anno 1420 in cui era guerra grandissima, fra il Concilio generale di Basilea, ed il Papa Eugenio IV. Vegga il Lettore la nostra Nota (p. 468); gl’illustri Storici Fleury e Lenfant ci diedero dottamente la Storia dei Concilj di Costanza e di Basilea. (Nota di N. N.).
  39. Nel Trattato delle materie benefiziarie di Fra Paolo (vol. IV dell’ultima e migliore edizione delle sue Opere), questo autore dilucida con eguale franchezza e dottrina tutto il sistema politico de’ Pontefici. Quand’anche rimanessero annichilate Roma e la sua religione, lor sopravviverebbe questo prezioso volume come un’eccellente Storia filosofica, e come un salutare avvertimento.
  40. Il Papa Giovanni XXII nel 1334 lasciò morendo in Avignone diciotto milioni di fiorini d’oro, e un valore di altri sette milioni in argenterie e suppellettili. V. la Cronaca di Giovanni Villani (l. XI, c. 20, nella Raccolta del Muratori, t. XIII, pag. 765) il cui fratello avea saputi questi particolari dai tesorieri del Papa. Un tesoro di sei, o otto milioni nel secolo decimoquarto sembra sterminato, e quasi incredibile.
  41. Il sig. Lenfant, protestante dotto e giudizioso, ne ha offerta una Storia de’ Concilj di Pisa, Costanza e Basilea, in sei volumi in 4.; ma l’ultima parte, composta in fretta, non descrive compiutamente che le turbolenze della Boemia.
  42. Gli atti originali, ossia le minute del Concilio di Basilea, formano dodici volumi in folio, che tuttavia si conservano in quella pubblica Biblioteca. Basilea era una città libera, vantaggiosamente situata sul Reno, e difesa dalla Confederazione degli Svizzeri suoi vicini. Il Papa Pio II, che portando il nome di Enea Silvio, era stato segretario del Concilio, vi fondò nel 1459 una Università. Ma che cosa sono un Concilio, o una Università, a petto de’ torchi di Froben, o dei lavori di Erasmo?
  43. Questa espressione è troppo forte anche ammettendo, che l’autorità d’un Concilio generale sia superiore a quella del Papa. Chi poi volesse avere notizia di tutte le cose seguìte, durante i grandi contrasti scandalosi fra i Papi, ed i Concilj generali di Pisa, di Costanza e di Basilea, che noi qui per brevità non possiamo dare, legga lo Storico fedele ed imparziale di Fleury, e meglio ancora il dottissimo Moseim ne’ Secoli decimoquarto e decimoquinto. L’Autore qui non ne dà che un esatto, ma brevissimo sospetto. (Nota di N. N.).
  44. L’annalista Spondano (A. D. 1433, n. 25, t. I, p. 824) non mette molta asseveranza nel raccontare questa ottomana ambasceria attestata solo da Crantz.
  45. Syropulus, p. 19. Da questo computo sembra essersi esagerato dai Greci il numero de’ laici e degli ecclesiastici che seguirono di fatto l’Imperatore e il Patriarca; ma il grande Ecclesiarca non ne offre un conto esatto. I settantacinquemila fiorini che in questa negoziazione i Greci chiedevano al Papa (p. 9), erano una somma superiore ai loro bisogni e che sperar non potevano di ottenere.
  46. Mi valgo indifferentemente delle voci ducati, o fiorini; i primi ricevono la loro denominazione dai Duchi di Milano, i secondi dalla repubblica di Firenze. Queste monete, le prime d’oro che si coniassero in Italia, e forse nel Mondo latino, possono, rispetto al peso e al valore, venir paragonate ad un terzo di ghinea d’Inghilterra.
  47. Dopo la traduzione latina di Franza, trovasi una lunga epistola greca, o declamazione di Giorgio di Trebisonda che consiglia a Paleologo il dar preferenza ad Eugenio e all’Italia; e parla con disprezzo dell’Assemblea scismatica di Basilea, de’ Barbari della Gallia e dell’Alemagna, collegatisi per trasportare la cattedra di S. Pietro di là dall’Alpi: οι αθλιοι (egli dice) σε και την μετα σου συνοδον εξα των Ηρακλειων στηλων και περα Γαδηρων εξαξουσι, que’ miserabili ancora secondo te trasportano il Concilio fuori delle colonne d’Ercole, al di là di Cadice. Ma che? Non vi erano carte geografiche a Costantinopoli?
  48. Siropolo (p. 26-31) esprime la propria indignazione e quella de’ suoi compatriotti. Ben cercarono scuse alla commessa imprudenza i deputati di Basilea, ma non poteano o negare, o cambiare l’atto del Concilio.
  49. Bisognava provare con una citazione, onde appagare il Lettore, che Eugenio IV si procacciò cotale decreto del Concilio generale di Basilea. (Nota di N. N.)
  50. Condolmieri, nipote e Ammiraglio del Papa, dichiara espressamente, οτι οριουμονεχει παρα του Παπα ινα πολεμηση οπου αν ευρη τα κατεργα της συνοδου, και ει δυνηθη καταδυση και αφανιση, che ebbe comando dal Papa di combattere ovunque trovasse le squadre del Concilio, e potendo, le calasse a fondo e perdesse. I Padri del Sinodo diedero ordini men perentorj ai loro marinai, e fino al momento in cui le due squadre incontraronsi, le due fazioni cercarono di nascondere ai Greci lo scambievole animo ostile.
  51. Siropolo narra le speranze di Paleologo (p. 36) e l’ultimo consiglio datogli da Sigismondo (p. 57). L’Imperatore seppe a Corfù la morte dell’amico, e se ne fosse stato avvertito più presto, sarebbe ritornato a Costantinopoli (p. 79).
  52. Lo stesso Franza, benchè per diversi motivi, era del parere di Amurat (l. II, c. 13). Utinam ne synodus ista unquam fuisset, si tantas offensiones et detrimenta paritura erat. Siropolo parla anche dell’ambasceria ottomana. Amurat mantenne la sua promessa; e forse minacciò (pag. 125-219), ma non assalì la città.
  53. Il lettore sorriderà sul modo ingenuo con cui il Patriarca fece note le concette speranze ai suoi favoriti: τοιαυτην πληροφοριαν σχησειν ηλπιξ, και δια του Παπα εθαρρει ελευθερωσαι την εκκλησιαν απο της αποτεθεισης αυτου δουλειας παρα του βασιλεως, sperava avere siffatto assenso, e temeva non fosse dal Papa liberata la Chiesa per la dependenza mostrata dal Re (p. 92), nondimeno gli sarebbe stato difficile di mettere in pratica le lezioni di Gregorio VII.
  54. Il nome cristiano di Silvestro è tolto dal Calendario latino. Nel greco moderno la voce πουλος, piccolo, si aggiunge alla fine di una parola per esprimere un diminutivo; ma non v’è alcun argomento che dia diritto all’editore Creyghton a sostituire Sguropulus (Sguros, fuscus) al Syropulus del manoscritto di questo Storico, che ha posta la propria firma negli atti del Concilio di Firenze. Perchè l’autore non potrebbe egli essere di origine siriaca?
  55. Dalla conclusione di questa Storia, ne deduco la data del 1444, quattro anni dopo il Sinodo. Allorchè il grande Ecclesiarca rassegnò la sua carica (Sect. XII, p. 330-350), il tempo e il ritiro aveano sedate le sue passioni; e Siropolo, benchè spesse volte parziale, non è mai caduto negli eccessi.
  56. (Vera historia unionis non verae inter Graecos et Latinos, Hagae Comitis 1660, in folio). Roberto Creyghton, cappellano di Carlo II, durante l’esilio di questo Principe, la pubblicò il primo con una traduzione pomposa e poco fedele. Il titolo polemico è sicuramente d’invenzione dell’editore perchè il principio dell’opera manca. Quanto al merito della narrazione e anche dello stile, Siropolo può essere collocato fra i migliori scrittori di Bisanzo: ma la sua Opera è esclusa dalla raccolte ortodosse dei Concilj.
  57. Siropolo alla pagina 63 esprime francamente la sua intenzione ιν ουτω πομπαων εν Ιταλοις μεγας βασιλευς παρ εκεινων νομιξοιτο, affinchè dalla pompa giudicassero quelli quanto fosse grande quel Re in Italia. La traduzione latina di questo passo, eseguita dal Creyghton può somministrare un’idea delle sue vistose parafrasi. Ut pompa circumductus noster Imperator Italiae, populis aliquis deauratus Jupiter crederetur, aut Croesus ex opulenta Lydia.
  58. Senza obbligarmi a citare Siropolo ad ogni fatto particolare, osserverò che la navigazione de’ Greci da Costantinopoli sino a Venezia e Ferrara, trovasi nella sua quarta Sezione (p. 67-100), e che questo Istorico possede il raro merito di mettere ciascuna scena innanzi gli occhi de’ suoi leggitori.
  59. Nel tempo del Sinodo, Franza si trovava nel Peloponneso; ma il despota Demetrio gli fece un esatto racconto del modo onorevole con cui l’Imperatore ed il Patriarca vennero accolti a Venezia e a Ferrara (Dux..... sedentem Imperatorem adorat). I Latini ne parlano dando minore importanza alle cose.
  60. La sorpresa che sentirono il Principe greco e un ambasciatore di Francia al primo veder Venezia (Mém. de Philippe de Comines, l. VII, c. 18), è incontrastabile prova che questa città nel secolo decimoquarto era la prima e la più bella di tutte l’altre del Mondo cristiano. Quanto alle spoglie di Costantinopoli che vi scorsero i Greci, V. Siropolo (p. 87).
  61. Nicolò III d’Este, regnò quarant’otto anni (A. D. 1343-1441), possedendo Ferrara, Modena, Reggio, Parma, Rovigo e Comacchio. V. la Vita nel Muratori (Antichità Estensi, t. II, p. 159-201).
  62. Le popolazioni delle città latine risero assai del vestire de’ Greci, delle lunghe tonache, delle larghe maniche e della barba. L’Imperatore non si distingueva dagli altri che pel colore porporino dell’abito e pel diadema, o tiara, la cui punta andava fregiata di un magnifico diamante (Hody, De Graecis illustribus, p. 31). Un altro spettatore però afferma l’usanza del vestir greco, essere più grave e più degna che non l’italiana (Vespasiano, in vit. Eugen. IV. Muratori, t. XXXV, p. 261).
  63. Intorno alle cacce dell’Imperatore, V. Siropolo (p. 143, 144-191). Il Papa gli avea spediti undici cattivi falconi, ma egli ne comprò uno addestrato a maraviglia e condottogli dalla Russia. Qualche leggitore maraviglierà forse di trovar qui la denominazione di Giannizzeri, ma i Greci tolsero questa voce agli Ottomani senza imitarne l’instituzione; e la vediamo spesso volte usata nell’ultimo secolo del greco Impero.
  64. Non senza vincere molte difficoltà, i Greci avevano ottenuto, che invece de’ viveri in natura venisse loro fatta una distribuzione in danaro. Furono quindi assegnati quattro fiorini al mese alle persone di onorevole grado, e tre a ciascun servo. L’Imperatore ne ebbe trentaquattro, il Patriarca ventinove, e il Principe Demetrio ventiquattro. La paga intiera del primo mese, non andò che a seicento novantun fiorini, la qual somma dimostra che il numero de’ Greci non oltrepassava i dugento (Syropulus, p. 104, 105). Nel mese di ottobre 1438, erano dovute le somme di quattro mesi addietro, e tre mesi ancora in aprile del 1439, e cinque e mezzo in luglio, epoca della unione (p. 172-225-271).
  65. Siropolo (p. 141, 142-204-221) deplora la prigionia de’ Greci che venivano ritenuti quasi per forza in Italia, dolendosi intorno a ciò della tirannide dell’Imperatore e del Patriarca.
  66. Trovasi una relazione chiara ed esatta delle guerre d’Italia nel quarto volume degli Annali del Muratori. Sembra che lo scismatico Siropolo (p. 145) abbia esagerato il temere e il correre a precipizio del Papa, allorchè si ritirò da Ferrara a Firenze. Gli atti provano che fu assai tranquilla, e convenevolmente eseguita una tale ritirata.
  67. Siropolo novera fino a settecento Prelati nel Concilio di Basilea; ma l’errore è palpabile e fors’anche volontario. Nè gli ecclesiastici di tutte le classi che furono presenti al Concilio, nè tutti i Prelati lontani che esplicitamente o implicitamente ne riconosceano i decreti, avrebbero bastato a formar questo numero.
  68. I Greci opposti all’unione non voleano di qui decampare (Syropulus, p. 178-193-195-202). I Latini non vergognarono di tirar fuori un vecchio manoscritto del secondo Concilio di Nicea, ove era stata aggiunta al Simbolo la parola Filioque, alterazione evidente.
  69. Un Greco celebre dice: Ως εγω οσαν εις ναον εισελθω Λατινων ου προσκυνω τινα των εκεισε αγιων, επει ουδε γνωγιξω τινα, quando entro in una chiesa de’ Latini non adoro nessuno de’ Santi che colà sono, perchè non li conosco (Syropulus, pag. 109). Vedasi in quale impaccio si trovarono i Greci, alle p. 217, 218, 252, 253, 273.
  70. V. la disputa urbana di Marco d’Efeso e di Bessarione in Siropolo (pag. 257), che non cerca mai di palliare i vizj de’ suoi compatriotti, e rende imparziale omaggio alle virtù de’ Latini.
  71. Quanto all’indigenza de’ Vescovi greci, V. un passo di Duca (pag. 31). Uno di questi prelati possedea per tutta sostanza tre vecchi abiti, ec. Bessarione avea guadagnato quaranta fiorini d’oro, facendo scuola vent’un anni in un monastero, ma ne avea spesi ventotto nel suo viaggio del Peloponneso, e a Costantinopoli il resto (Syropulus, p. 127).
  72. Siropolo pretende che i Greci non abbiano ricevuto danaro prima di sottoscrivere l’atto di unione (p. 283); racconta nondimeno alcune circostanze sospette, e lo Storico Duca afferma che si lasciarono corrompere dai donativi.
  73. I Greci esprimono in tuon doloroso i loro timori d’un esilio, o d’una schiavitù perpetua (pag. 197), e l’impressione che fecero sovr’essi le minacce dell’Imperatore (p. 260).
  74. Io mi dimenticava d’un altro dissenziente(*) d’un grado meno sublime ma ortodosso oltre ogni dire, il cane favorito di Paleologo, che solito a star sempre tranquillo sui gradini del trono abbaiò furiosamente, sinchè durò la lettura del Trattato d’unione, e vano fu l’accarezzarlo e il flagellarlo per ridarlo al silenzio (Syropulus, p. 265-267).
    (*) Un accidente non doveva porgere soggetto di spargere il ridicolo sulla lettura del Decretum unionis etc. del Concilio generale di Firenze: se poi l’unione dei Vescovi greci coi latini non fu sincera, com’è vero, e come risulta della Storia, per cui lo scisma continuò, e continua ancora, ciò non ha relazione al ridicolo. (Nota di N. N.)
  75. Bisogna osservare a questo passo dell’Autore, che è massima de’ Decretalisti e de’ Curiali della Corte di Roma, ed anche di molti Teologi, specialmente Italiani, che devonsi considerare soltanto autorevoli quegli atti e decreti del Concilio generale di Basilea, dati prima che nascesse la dissensione, e la guerra fra il Concilio stesso, ed il Papa Eugenio IV, e finchè questi approvò il Concilio, e che quelli fatti dopo il decreto di scioglimento del Concilio stesso, scritto da Eugenio, in un col di lui trasferimento, e nuova convocazione a Ferrara, e indi a Firenze, non sono da valutarsi, perchè il Papa presiedette quello di Ferrara, e indi quello di Firenze. Per altro il Concilio generale di Pisa, dal quale fu eletto il Papa Alessandro V, erasi adunato, ed aveva decretato, non molto tempo prima, senza l’intervento di Papa, e tuttavia è riputato legittimo, ed autorevole da tutt’i Teologi, ed anzi lodato per l’elezione canonica d’Alessandro in quel tempo di gravi turbolenze. Questa contraddittoria diversità d’opinione de’ Teologi, favoritori della Corte di Roma, deriva dall’aver voluto il Concilio di Basilea, seguendo l’esempio del Concilio di Costanza, ristabilire l’aristocrazia de’ Vescovi nel governo della Chiesa, specialmente dopo il decreto d’Eugenio dello scioglimento, lo che il Concilio non venne a capo di fare, per l’avveduta politica di quel Papa. Del resto lo scioglimento della questione intorno i decreti autorevoli e non autorevoli del Concilio di Basilea (che noi ora lasciamo volentieri a’ controversisti, perchè esigerebbe una dissertazione, che paragonasse lo stato ed i fatti de’ primi cinque secoli de’ Cristiani antichi con quello de’ moderni), dipende dalla soluzione di un’altra, cioè se l’autorità di un Concilio generale sia superiore, o no, a quella del Papa. (Nota di N. N.)
  76. Le Vite de’ Papi raccolte dal Muratori (t. III, part. II, t. XXV) ne rappresentano Eugenio IV, come un Pontefice di costumi illibati ed anche esemplari. Se osserveremo però in quale arduo stato egli si trovasse, avendo vôlti in se gli sguardi di tutto il Mondo e di tanti nemici, vedremo in ciò un motivo, che lo costringeva ad essere molto circospetto.
  77. Siropolo credè minore obbrobrio l’assistere alla cerimonia dell’Unione che sottoscriverne l’atto; ma poi fu obbligato a far l’uno e l’altro, e adduce cattive scuse per difendere la sua obbedienza ai comandi dell’Imperatore, p. 290-292.
  78. Non v’è più oggi giorno alcuno di questi atti originali dell’Unione. Di dieci manoscritti, cinque de’ quali si conservano a Roma, gli altri a Firenze, Bologna, Venezia, Parigi e Londra, nove sono stati assoggettati all’esame di un Critico abile, il sig. Bréquigny, che li ricusa a motivo della differenza delle sottoscrizioni greche e degli abbagli nella scrittura. Alcuni però di questi possono essere riguardati come copie autentiche, sottoscritte a Firenze prima del 26 agosto, nel qual tempo il Pontefice e gl’Imperatori si separarono (Mém. de l’Académie des Inscript., t. XLIII, p. 287-311).
  79. Ημιν δε ως εδοκουν φωνας, mi pareano voci senza significato (Syropulus, p. 297).
  80. Tornando a Costantinopoli, i Greci s’intertennero a Bologna d’Italia cogli Ambasciatori d’Inghilterra, i quali dopo alcune interrogazioni e risposte su tale argomento, risero della pretesa unione di Firenze (Syropulus, p. 307).
  81. Le unioni de’ Nestoriani e de’ Giacobiti ec., sono sì inconcludenti, o favolose, che invano ho scartabellata, per trovarne qualche vestigio, la Biblioteca Orientale dell’Assemani, schiavo fedelissimo del Vaticano.
  82. Ripaglia, situata presso Thonon nella Savoia, ad ostro del lago di Ginevra, oggidì è una Certosa. Il sig. Addisson (Viaggio d’Italia, vol. II, pag. 147, 148, ediz. delle sue Opere per cura di Baskerville) ha celebrato il luogo e il fondatore. Enea Silvio, e i Padri di Basilea non si stancano di lodare l’austero vivere del Duca eremita; ma sfortunatamente, il proverbio francese faire ripaille, fa fede dell’opinione generalmente diffusa sulla vita molle di questo ex-Pontefice.
  83. Anche i Papi erano uomini, e di che mai gli uomini non abusano? Ma dagli abusi particolari che si fossero verificati rispetto ad alcuni Pontefici, era egli lecito il dedurne la conseguenza generale per tutti: Continuarono ad abusarne? (Nota di N. N.).
  84. Intorno ai Concilj di Basilea, Ferrara e Firenze ho consultati gli Atti originali che formano i volumi XVII, XVIII dell’edizione di Venezia, terminati dalla Storia chiara, ma parziale, di Agostino Patrizio, Italiano, del secolo XV. Essendo stati i compilatori de’ medesimi il Dupin (Bibl. eccles., t. XII) e il continuatore di Fleury (t. XXII), il rispetto che la Chiesa gallicana serba ad entrambe le parti gli ha tenuti in una circospezione quasi ridicola.
  85. Il Meursio, nel suo primo Saggio, cita tremila seicento vocaboli greco-barbari; e ne aggiunse mille ottocento in una seconda edizione, lasciando cionnullameno molto lavoro da farsi al Porzio, al Ducange, al Fabrotti, ai Bollandisti, ec. (Fabr., Bibl. graec., t. X, pag. 101, ec.). Trovansi parole persiane in Senofonte, e latine in Plutarco; tale è l’inevitabile effetto del commercio e della guerra; ma questa lega non corruppe in sostanza l’idioma.
  86. Francesco Filelfo era un sofista, o filosofo vanaglorioso, avido e turbolento. La vita di lui è stata accuratamente composta dal Lancelot (Mém. de l’Acad. des Inscr., tom. X, p. 691-751), e dal Tiraboschi (Storia della Letteratura italiana, t. VII, p. 282-294), in gran parte seguendo le tracce delle lettere dello stesso Filelfo. Le Opere di questo e de’ suoi contemporanei, scritte con troppa ricercatezza, sono poste in dimenticanza; ma le loro lettere famigliari dipingono gli uomini e i tempi.
  87. Sposò, e forse aveva sedotta, la nipote di Manuele Crisoloras, donzella ricca, avvenente, e di nobile famiglia, congiunta di sangue coi Doria di Genova e cogli Imperatori di Costantinopoli.
  88. Groeci quibus lingua depravata non sit... ita loquuntur vulgo hac etiam tempestate ut Aristophanes comicus, aut Euripides tragicus, ut Oratores omnes, ut historiographi, ut philosophi.... litterati autem homines et doctius et emendatius.... Nam viri aulici veterem sermonis dignitatem atque elegantiam retinebant, inprimisque ipsae nobiles mulieres; quibus cum nullum esset omnino cum viris peregrinis commercium, merus ille ac purus Groecorum sermo servabatur intactus. (Philelp., epist. ad ann. 1451, ap. Hodium, p. 188, 189). Osserva in un altro luogo, uxor illa mea Theodora locutione erat admodum moderata et suavi et maxime attica.
  89. Filelfo cerca ridicolosamente l’origine della gelosia greca, o orientale ne’ costumi dell’antica Roma.
  90. V. lo stato della letteratura de’ secoli XIII e XIV nelle Opere del dotto e giudizioso Mosheim (Instit. Hist. eccles., p. 434-440, 490-494.)
  91. Sul finire del secolo XV, trovavansi in Europa circa cinquanta Università, molte delle quali fondate prima dell’anno 1300. Bologna noverava diecimila studenti, una gran parte di giurisprudenza; le ridette Università vedeansi tanto più popolate di scolari quanto era minore il numero delle medesime. Nell’anno 1357 gli studenti d’Oxford da trentamila divennero seimila (Hist. de la Grande-Bretagne, par Henri, vol. IV, p. 478). Nondimeno questo numero ridotto superava ancora il numero degli studenti da cui questa Università oggi giorno è composta.
  92. Gli Scrittori che hanno trattato più fondatamente il soggetto della restaurazione della lingua greca in Italia, sono il dottore Humph. Hody (De Graecis illustribus, linguae graecae litterarumque humaniorum instauratoribus, Londra, 1742, in 8. grande) e il Tiraboschi (Istoria della Letteratura italiana, t. V, p. 364, 377; t. VII, p. 112-143). Il Professore di Oxford è un dotto laborioso; ma il Bibliotecario di Modena ha il vantaggio di essere storico nazionale e moderno.
  93. In Calabria quae olim magna Graecia dicebatur, coloniis graeci repleta, remansit quaedam linguae veteris cognitio (Dottore Hody, p. 2). Se i Romani la fecero sparire, fu restaurata dai Monaci di S. Basilio, che nella sola città di Rossano possedeano sette conventi (Giannone, Istoria di Napoli, t. I, p. 520).
  94. Li barbari, dice il Petrarca parlando degli Alemanni e dei Francesi, vix, non dicam libros sed nomen Homeri audierunt. Forse in ordine a ciò il secolo XIII era men felice di quello di Carlomagno.
  95. V. il carattere di Barlamo nel Boccaccio (De geneal. Deorum, l. XV, c. VI).
  96. Cantacuzeno, l. II, c. 36.
  97. Intorno l’amicizia del Petrarca con Barlamo, e i due abboccamenti che ebbero nel 1339 ad Avignone, e nel 1342 a Napoli, V. le eccellenti Mémoires sur la vie de Petrarque (t. I, p. 406-410; t. II, p. 75-77).
  98. Il Vescovado ove si ritirò Barlamo era la Locride degli Antichi, Seta Cyriaca nel Medio Evo, e corrottamente Hieracium, Geracia (Dissert. chorograph. Italiae medii aevi, p. 312). La dives opum del tempo de’ Normanni fu ben tosto ridotta all’indigenza, poichè la stessa sua Chiesa era povera; nondimeno la città contiene ancora tremila abitanti (Swinburne, p. 340).
  99. Trascriverò un passo di questa lettera del Petrarca (Famil. X, 2): Donasti Homerum non in alienum sermonem violento alveo derivatum, sed ex ipsis Graeci eloquii scatebris, et qualis divino illi profluxit ingenio.... Sine tua voce Homerus tuus apud me mutus, immo vero ego apud illum surdus sum. Gaudeo tamen vel adspectu solo, ac saepe illum amplexus atque suspirans dico: O magne vir, etc.
  100. Intorno alla vita e agli scritti del Boccaccio, nato nel 1313 e morto nel 1375, il lettore può consultare Fabrizio (Bibl. lat. medii aevi, t. I, p. 248, ec.) e Tiraboschi (t. V, p. 83-439-451). Le edizioni, le traduzioni e le imitazioni delle sue Novelle, o Favole sono innumerevoli. Egli avea nondimeno rossore di comunicare quest’opera frivola e forse scandalosa al suo rispettabile amico Petrarca, nelle Lettere e Memorie del quale comparisce in modo onorevole.
  101. Il Boccaccio si permette una onesta vanità: Ostentationis causa graeca carmina adscripsi..... jure utor meo; meum est hoc decus, mea gloria scilicet inter Etruscos graecis uti carminibus. Nonne ego fui qui Leontium Pilatum, etc. (De genealog. Deorum, l. XV, c. 7). Quest’Opera, dimenticata oggi giorno, ebbe tredici, o quattordici edizioni.
  102. Leone, o Leonzio Pilato, è abbastanza conosciuto, da quanto ne dicono il Dottore Hody (p. 2-11) e l’Abate di Sades (Vie de Petrarque, t. III, pag. 625-634-670-673). L’Abate di Sades con molta abilità imita lo stile drammatico e animato del suo originale.
  103. Il Dottore Hody (p. 54) biasima acremente Leonardo Aretino, il Guerini, Paolo Giovio, ed altri, per avere affermato che le lettere greche erano state restaurate in Italia, post septingentos annos, come se, dic’egli, fossero state in fiore fino alla fine del settimo secolo. Forse cotesti Scrittori appoggiavano i loro computi alla fine dell’Esarcato, perchè la presenza de’ militari e de’ magistrati greci in Ravenna dovea in qualche modo avervi conservato l’uso della lingua che si parlava in Bisanzo.
  104. V. l’articolo di Manuele, o Emmanuele Crisoloras, in Hody (p. 12-54) e Tiraboschi (t. VII, pag. 113-118). La vera data dell’arrivo di questo dotto in Italia, si contiene fra il 1390 e il 1400, nè ha d’altra epoca sicura che il regno di Bonifazio IX.
  105. Cinque o sei cittadini nativi di Arezzo, hanno preso successivamente il nome di Aretino; il più celebre e il men degno di esserlo, visse nel secolo XVI. Leonardo Bruni l’Aretino, discepolo di Crisoloras, fu dotto nelle lingue, oratore, storico, segretario di quattro Pontefici e cancelliere della Repubblica di Firenze, ove morì nel 1444, in età di settantacinque anni (Fabr., Bibl. medii aevi, t. I, pag. 190 ec.; Tiraboschi, t. VII, p. 33-38).
  106. V. questo passo nell’Aretino. In Commentario rerum suo tempore in Italia gestarum, apud Hodium, p. 28-30.
  107. Il Petrarca, che amava questo giovinetto, si dolea sovente di scorgere nel suo discepolo una impaziente curiosità, una indocile irrequietezza, e un’inclinazione all’orgoglio, che però ne annunciavano il genio e i futuri pregi (Mém. sur le Pétrarque, t. III, p. 700-709).
  108. Hinc graecae latinaeque scholae exortae sunt, Guarino Philelpho, Leonardo Aretino, Caroloque, ac plerisque aliis tamquam ex equo Trojano prodeuntibus, quorum emulatione multa ingenia deinceps ad laudem excitata sunt (Platina in Bonifacio IX). Un altro Autore italiano aggiunge i nomi di Paulus Petrus Vergerius, Omnibonus Vincentius, Poggius, Franciscus Barbarus, etc. Ma dubito se un’esatta cronologia concederebbe a Crisoloras l’onore di avere formati tutti questi dotti discepoli (Hody, p. 25-27, ec.).
  109. V. in Hody l’articolo di Bessarione (pag. 136-177), Teodoro Gaza, Giorgio da Trebisonda, e gli altri Maestri greci da me nominati, od omessi, si vedono citati ne’ diversi capitoli di questo dotto Scrittore. V. anche Tiraboschi nella I e II parte del suo sesto tomo.
  110. I Cardinali picchiarono alla porta di Bessarione, ma il suo conclavista ricusò di aprire per non distoglierlo da’ suoi studj. Ah! Nicolò, diss’egli, poichè lo seppe, il tuo rispetto mi ha fatto perdere la tiara, e a te un cappello di Cardinale.
  111. Eran fra questi Giorgio da Trebisonda, Teodoro Gaza, Argiropolo e Andronico da Tessalonica, Filelfo, Poggio, Biondi, Nicolai, Perotti, Valla, Campano, Platina ec. Viri (dice Hody, collo zelo di uno scolaro) nullo oevo perituri (p. 137).
  112. Giovanni Lascaris era nato prima della presa di Costantinopoli, e continuò i suoi studj fino al 1535. I più chiari protettori di lui furono Leone X e Francesco I, sotto gli auspizj de’ quali fondò i Collegi greci di Roma e di Parigi (Hody, p. 247-275). Egli lasciò figli in Francia; ma i Conti di Ventimiglia, e le numerose famiglie che ne derivano, non hanno altro diritto a questo cognome, fuor d’un dubbioso contratto di nozze colla figlia dell’Imperatore greco nel secolo decimoterzo (Ducange, Fam. byzant., p. 224-230).
  113. Francesco Florido ha conservati e confutati due epigrammi contro Virgilio, e tre contro Cicerone, chiamando l’autor di essi Graeculus ineptus et impudens (Hody, p. 274). Abbiamo avuto ai nostri giorni un Critico inglese, Geremia Markland, che ha trovata nell’Eneide multa languida, nugatoria, spiritu et majestate carminis heroici defecta, e molti versi ch’egli avrebbe arrossito di confessare per suoi (Praefat. ad Statii Sylvas, p. 21, 22).
  114. Emmanuele Crisoloras e i suoi colleghi sono stati accusati d’ignoranza, d’invidia e d’avarizia (Sylloge, ec., t. II, p. 235). I Greci moderni pronunciano il β come il ν consonante, e confondono le tre vocali η ι υ e molti dittonghi. Tale era la pronunzia comune, che il severo Gardiner, mettendo leggi penali, mantenne nell’Università di Cambridge; ma il monosillabo βη, ad orecchio attico, ricordava il belar di un agnello, e un agnello sarebbe stato senza dubbio miglior personaggio di riscontro che un Vescovo o un Cancelliere. I Trattati dei dotti che corressero la pronunzia, e particolarmente di Erasmo, si troveranno nella Sylloge di Havercamp (due volumi in 8., Lugd. Bat., 1736-1740). Ma è cosa difficile additar suoni per via di parole, e la pratica delle lingue viventi ci fa conoscere che la pronunzia delle lingue non può essere data ad intendere che col fatto e dai nativi che parlano bene le medesime. Osserverò qui che Erasmo ha approvata la nostra pronuncia del θ, th (Erasmo, t. II, p. 130).
  115. Giorgio Gemisto Pleto, autore di voluminose opere sopra diversi argomenti, fu maestro di Bessarione e di tutti i Platonici del suo secolo. Invecchiando, visitò l’Italia, ma tornò presto a terminare il corso di sua vita nel Peloponneso. V. una singolare diatriba di Leone Allazio de Georgiis, in Fabrizio (Bibl. graec., t. X, p. 739-756).
  116. Il Boivin (Mém. de l’Acad. des Inscript., tom. II, p. 715-729) e il Tiraboschi (t. VI, part. I, p. 259, 288) hanno descritto con chiarezza lo stato della filosofia platonica nell’Italia.
  117. V. la vita di Nicolò V composta da due autori contemporanei, Gianotto Manetto (t. III, parte II, pag. 905‐ 962) e Vespasiano da Firenze (t. XXV, p. 267-290), nella Raccolta del Muratori. Si consulti anche il Tiraboschi (t. VI, p. 1-46, 52-109) e Hody agli articoli, Teodoro Gaza, Giorgio da Trebisonda ec.
  118. Il lord Bolingbroke osserva con eguale spirito e aggiustatezza che i Pontefici in ordine a ciò mostrarono minore politica del Muftì, rompendo eglino stessi il talismano che tenea da sì lungo tempo soggetto il Mondo (Lettere sullo studio della Storia, l. VI, p. 165, 166, ediz. in 8., 1779)(*).
    (*)V. la Nota di N. N. nella seguente pagina.
  119. Fu grande, a dir vero, il merito di Nicolò V; e le Opere de’ classici Greci, ch’egli procacciò con tante spese, e con tante cure alle nazioni, allora ignorantissime d’Europa, furono per il fatto il fondamento, ed il motivo dei progressi delle nostre cognizioni nella Storia antica; ed erano esse grandemente da preferirsi ai settantaquattro canoni detti Arabici, scritti e falsamente attribuiti, quasi ducento anni dopo, al Concilio generale di Nicea, onde renderli autorevoli; agli otto libri delle Costituzioni, e dei canoni falsamente attribuiti agli Appostoli per la medesima ragione; alle false decretali del Vescovo Isidoro, delle quali detto abbiamo in altra nota nel Tomo IX, p. 307, ed a varie altre leggende di simil conio, spacciate col favore della generale e profonda ignoranza, ed estrema credulità, e che conservavansi manoscritte, prima che vi fosse l’arte della stampa, negli Archivj della Chiesa romana con grande gelosia, e che oggidì sono inserite e stampate anche nel Labbe, Collectio Magna Conciliorum, con le dovute annotazioni d’uomini dottissimi e cattolici, dimostranti la nessuna loro autenticità, siccome fece pure il Fleury nella sua Storia ecclesiastica, ed altri uomini sapienti e cattolici. Per altro se conservavansi nel Vaticano questi scritti, che la buona critica che dopo venne discoprì apocrifi, ve ne erano altresì un grande numero d’autentici pure, intorno le materie della religione. (Nota di N. N.)
  120. V. la Storia letteraria di Cosimo e di Lorenzo de’ Medici in Tiraboschi (t. VI, p. 1, l. 1, c. 2), che non lascia privi di giusti encomj Adolfo d’Aragona, Re di Napoli, i Duchi di Milano, di Ferrara, d’Urbino ec. La repubblica di Venezia è quella che ha men diritto alla riconoscenza dei dotti.
  121. V. Tiraboschi (t. VI, parte I, p. 104), e la compilazione della prefazione di Giovanni Lascaris alla Antologia greca, stampata a Firenze nel 1494. Latebant (dice Aldo nella sua Prefazione agli Oratori greci, presso Hody, p. 249) in Athos Thraciae monte; eas Lascaris.... in Italiam reportavit. Miserat enim ipsum Laurentius ille Medices in Graeciam ad inquirendos simul et quantovis emendos pretio bonos libros. È cosa meritevole di osservazione che questa indagine fu agevolata da Baiazetto II.
  122. Negli ultimi anni del secolo decimoquinto, Grossino, Linacero e Latimero, che aveano studiato a Firenze sotto Demetrio Calcocondila, introdussero la lingua greca nell’Università di Oxford. V. la Vita di Erasmo, non priva di singolarità, che ha composta il dottore Knight; benchè zelante campione della sua Accademia, questo Biografo è costretto a confessare che Erasmo, maestro di lingua greca a Cambridge, l’aveva imparata ad Oxford.
  123. I gelosi Italiani bramavano riserbarsi il monopolio della cattedra di lingua greca. Quando Aldo si trovò in procinto di pubblicare i suoi Comentarj intorno Sofocle ed Euripide, Cave, gli dissero, cave hoc facias, ne Barbari istis adjuti, domi maneant; et pauciores in Italiam ventitent (V. il dottore Knight, nella sua Vita di Erasmo, pag. 365, tolta da Beato Renano).
  124. La Tipografia di Aldo Manuzio, Romano, fu posta a Venezia verso l’anno 1494. Egli stampò oltre a sessanta voluminose Opere di greca letteratura, la maggior parte delle quali erano tuttavia manoscritte e conteneano Trattati di diversi autori; di alcuni di questi egli compose due, tre e sino a quattro edizioni (Fabrizio, Bibl. graec., t. XIII, p. 605 ec.). Questo merito di Aldo non ci dee far dimentichi nullameno che il primo libro greco, la Gramatica di Costantino Lascaris, fu stampata a Milano nel 1476, e che l’Omero, stampato a Firenze nel 1488, è adorno d’ogni fregio dell’arte della Tipografia. V. gli Annali tipografici del Mattaire e la Bibliografia istruttiva del Debure, Stampatore-libraio di Parigi, distintosi per le sue cognizioni.
  125. Sceglierò tre singolari esempli di questo classico entusiasmo, 1. Nel tempo del Sinodo di Firenze, Gemisto Peto, standosi ad intertenimento famigliare con Giorgio da Trebisonda, gli pronosticò che ben presto tutte le nazioni, rinunciando all’Evangelio e al Corano, abbraccierebbero un culto simile a quello dei Gentili (Leo Allatius, apud Fabricium, t. X, p. 751). 2. Paolo II perseguitò l’Accademia romana fondata da Pomponio Leto, i cui primarj individui erano stati accusati di eresia, di empietà e di paganesimo. (Tiraboschi, t. VI, parte I, p. 81, 82). 3. Nel successivo secolo alcuni studenti e poeti celebrarono in Francia la festa di Bacco, e immolarono, dicesi, un capro per festeggiare il buon successo ottenuto dal Jodelle nella rappresentazione della sua tragedia, la Cleopatra (Dictionnaire de Bayle, art. Jodelle; Fontenelle, t. III, p. 56-61). Per vero dire la mal intesa divozione spesse volte ha creduto scoprire una seria empietà in quanto era solamente giuoco della immaginazione e del sapere.
  126. Il Boccaccio non morì che nell’anno 1375, nè possiamo assegnare un’epoca anteriore del 1480 al Morgante Maggiore di Luigi Pulci, e all’Orlando Innamorato del Boiardo (Tiraboschi, t. VI, parte II, p. 174-177).