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dell'impero romano cap. lxvi. 499

Mondo di scienza e di luce, ammessi nel consorzio delle nazioni libere e ingentilite dell’Antichità, e in famigliare conversazione con quegl’immortali, che aveano parlato il sublime linguaggio dell’eloquenza e della ragione. Corrispondenze di tal natura doveano necessariamente innalzar l’anima e migliorare il gusto de’ moderni; potremmo credere nullameno, ragionando sulle prime Opere di questi, che lo studio degli Antichi avesse somministrate catene, anzichè ali, all’umano ingegno. Lo spirito d’imitazione, comunque lodevole sia il modello, tiene sempre alla schiavitù; onde i primi discepoli dei Greci e de’ Romani, pareano una colonia di stranieri in mezzo al loro paese e al lor secolo. Tante minute cure adoprate ad introdursi ne’ penetrali dell’Antichità più rimota, poteano impiegarsi più utilmente nel render perfetto lo stato attuale della società: i Critici e i Metafisici, seguivano servilmente l’autorità di Aristotele. I Poeti, gli Storici, gli Oratori, ripeteano, con fastosa ostentazione, i pensieri e le espressioni del secolo d’Augusto; se contemplavano le opere della natura, cogli occhi di Plinio e di Teofrasto il faceano; e alcuni d’essi, Pagani devotissimi, rendeano perfino segreto omaggio agli Dei di Omero e di Platone1. Gli Italiani, nel secolo

  1. Sceglierò tre singolari esempli di questo classico entusiasmo, 1. Nel tempo del Sinodo di Firenze, Gemisto Peto, standosi ad intertenimento famigliare con Giorgio da Trebisonda, gli pronosticò che ben presto tutte le nazioni, rinunciando all’Evangelio e al Corano, abbraccierebbero un culto simile a quello dei Gentili (Leo Allatius, apud Fabricium, t. X, p. 751). 2. Paolo II perseguitò l’Accademia romana fondata