Storia della decadenza e rovina dell'Impero romano/49

Capitolo 49

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48 Indice IX

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CAPITOLO XLIX.

Introduzione, culto e persecuzione delle Immagini. Ribellione dell'Italia e di Roma. Patrimonio temporale dei Papi. Conquisto dell'Italia fatto dai Francesi. Istituzione delle Immagini. Carattere e incoronazione di Carlomagno. Ristabilimento e decadenza dell'Impero romano in Occidente. Independenza dell'Italia. Costituzione del Corpo germanico.

Non considerai la Chiesa che ne’ suoi legami collo Stato, e ne’ vantaggi che procura ai Corpi politici; maniera di considerare, a cui era desiderabile che ognuno si fosse attenuto inviolabilmente nei fatti, come nel mio racconto. Ebbi cura di lasciare alla curiosità dei teologi speculativi1 la filosofia orientale dei Gnostici, l’abisso tenebroso della Predestinazione e della Grazia, e la singolare trasformazione che si opera nell’Eucarestia, quando la rappresentazione del Corpo di Gesù Cristo convertesi nella sua vera sostanza2; ma esposi con [p. 254 modifica]diligenza e piacere que’ fatti dell’Istoria ecclesiastica i quali hanno contribuito al decadimento e alla ruina dell’Impero romano, come sarebbe la propagazione del cristianesimo, la costituzione della Chiesa cattolica, la ruina del paganesimo, e le Sette che escirono dalle controversie misteriose e sublimi, relative alla Trinità ed alla Incarnazione. Tra i fatti principali di questa specie devesi contare il culto delle Immagini, che ai secoli ottavo e nono cagionò dispute accanite, poichè questa lite d’una superstizione popolare3 produsse la ribellion dell’Italia, il patrimonio temporale dei Papi ed il ristabilimento dell’Impero romano in Occidente.

Erano i primi cristiani dominati da un’invincibile ripugnanza per le Immagini; si può attribuire quest’avversione alla loro origine giudaica e alla loro antipatia pei Greci. Aveva la legge di Mosè vietato severamente tutti i simulacri della Divinità; ed avea un tale precetto messo profonde radici nella dottrina e nei costumi del popolo eletto. Impiegavano gli Apologisti della religion cristiana tutto il loro ingegno contro gl’Idolatri che si prostravano d’innanzi all’opera delle lor mani, d’innanzi a quelle Immagini [p. 255 modifica]di rame o di marmo4, le quali, se fossero state dotate di moto e di vita, avrebbero piuttosto dovuto balzare dai loro piedestalli, ed adorare la potenza creatrice dall’artista. Alcuni Gnostici, che aveano appena abbracciata la religion cristiana, rendettero forse alle statue di Gesù Cristo e di San Paolo, ne’ primi momenti d’una mal ferma conversione, i profani onori, che offerti aveano a quelle d’Aristotele e di Pitagora5; ma la religion pubblica dei cattolici fu sempre uniformemente semplice e spirituale, e parlasi delle Immagini per la prima volta nella censura del Concilio d’Illeberis, trecento anni dopo l’Era cristiana. Sotto i successori di Costantino, nella pace e nell’abbondanza di cui godeva la Chiesa trionfante, credettero i più saggi de’ Vescovi dover autorizzare, in favore della moltitudine, una specie di culto atto a colpire i sensi; dalla ruina del paganesimo in poi, essi non temeano più un paralello odioso. Cogli omaggi renduti alla Croce e alle reliquie ebbe cominciamento quel culto simbolico. Collocavansi alla destra di Dio i Santi, e i Martiri, de’ quali s’implorava l’aiuto; e la credenza [p. 256 modifica]del popolo ai favori benefici, e spesse volte miracolosi, che si spargeano intorno alla lor tomba, era fortificata da quella folla di devoti pellegrini, che andavano a vedere, toccare e baciare la spoglia inanime, che ricordava il loro merito e i loro patimenti6; ma una copia fedele della persona e delle fattezze del Santo, fatta col soccorso della pittura o scultura, era una memoria più grata che non il suo cranio o i suoi sandali. Furono tali copie, così analoghe alle affezioni umane, carissime in ogni età alla privata tenerezza o alla pubblica stima. Si prodigalizzavano onori civili e quasi religiosi alle immagini degl’Imperatori romani; riceveano le statue dei sapienti e dei patriotti omaggi meno fastosi, ma più sinceri; e queste profane virtù, questi bei peccati scomparivano alla presenza dei santi personaggi, che avean data la vita per la celeste ed eterna lor patria. Fecesi da principio l’esperimento del culto delle Immagini con precauzione e scrupolo; erano permesse per istruire gl’ignoranti, per infervorare gli animi, e per conformarsi ai pregiudizi dei pagani che aveano abbracciato, o che desideravano d’abbracciare il cristianesimo. Per una progressione insensibile, ma inevitabile, gli onori conceduti all’originale, si rendettero alla copia: pregava il devoto d’innanzi all’immagine d’un Santo; e s’introdussero nella Chiesa cattolica i riti pagani della genuflessione, dei cerei accesi e dell’incenso. Tacquero gli scrupoli della ragione e della pietà davanti al possente testimonio delle visioni e dei miracoli. Si pensò, che Immagini le quali parlavano, si moveano e spargevano sangue, [p. 257 modifica]aver doveano una forza divina, e poteano esser l’oggetto d’una adorazion religiosa. Doveva il più ardito pennello tremare dell’audace tentativo di dar forma, con linee e colori, allo spirito infinito, al Dio onnipossente, che penetra e regge l’Universo7; ma uno spirito superstizioso si facea con minore difficoltà a dipingere, ad adorare gli Angeli, e soprattutto il Figlio di Dio sotto la forma umana, ch’erasi degnato prendere durante la sua dimora in questo Mondo. Avea la seconda Persona della Trinità assunto un corpo reale e mortale; ma era quel corpo salito al cielo, e ove non se ne avesse presentato qualche simulacro agli occhi de’ suoi discepoli, avrebbero le reliquie o le Immagini de’ Santi cancellato dalla memoria il culto spirituale di Gesù Cristo8. Si dovette, per lo stesso [p. 258 modifica]motivo, concedere le Immagini della Santa Vergine, ignoravasi il luogo di sua sepoltura; e la credulità dei Greci e dei Latini fu pronta ad approvare l’idea della sua assunzione in corpo e in anima nelle regioni del cielo9. Era l’uso ed anche il culto delle Immagini avanti la fine del secolo sesto fermamente stabilito. Talentava alla fervida immaginazione dei Greci e degli Asiatici: ornarono nuovi emblemi il Panteon e il Vaticano; ma i Barbari più rozzi, e i Sacerdoti ariani dell’Occidente si diedero più freddamente a quest’apparenza d’idolatria. Le forme ardite delle statue di rame o di marmo, ch’empievano i templi dell’antichità, ferivano l’immaginazione o la coscienza dei cristiani Greci; e i simulacri, che solo offerivano una superficie colorita e senza rilievo, parvero sempre più decenti e meno pericolosi10. Dalla simiglianza dell’originale proviene il merito e l’effetto d’una copia; ma i primi cristiani non conosceano le vere fattezze del Figlio di Dio, della Madre di lui, e de’ suoi Apostoli. La statua di Paneade in Palestina11, ch’era tenuta per quella di [p. 259 modifica]Gesù Cristo, era probabilmente quella d’un Salvatore riverito per soli servigi temporali. Si riprovano i Gnostici e i loro profani monumenti; e non potea l’immaginazione degli artisti cristiani essere guidata che da una secreta imitazione di qualche modello del paganesimo. Si ebbe in tale frangente ricorso ad un’invenzione ardita ed ingegnosa, la quale ad un tempo stabiliva la perfetta simiglianza dell’Immagine, e l’innocenza del culto che le si prestava. Una Leggenda siriaca sopra il carteggio di Gesù Cristo e del Re Abgaro12, famosa ai giorni d’Eusebio, la quale hanno alcuni moderni scrittori a malincuore abbandonata, servì di fondamento ad una nuova [p. 260 modifica]favola. Il Vescovo di Cesarea13 registra la lettera di Abgaro a Gesù Cristo14; ma fa stupore ch’egli non parli di quella esatta impronta15 del volto di Gesù sul panno lino, con cui rimunerò il Salvatore del Mondo la Fede di quel Principe, che aveva invocato il suo potere in una malattia, e gli aveva [p. 261 modifica]offerto la città fortissima d’Edessa, perchè la proteggesse contro la persecuzione de’ Giudei. Si scusa la ignoranza della Chiesa primitiva col supporre, che era stato quel panno lino racchiuso lungamente in una nicchia d’un muro, d’onde fu tratto, dopo una obblivione di cinque secoli, da un Vescovo prudente, e offerto a tempo debito alla divozione de’ suoi contemporanei. Il primo grandioso miracolo, che gli si attribuì, fu la liberazione della città assalita dalle armi di Cosroè Nushirvan: si riverì ben tosto come un pegno che, secondo la promessa di Dio, guarentiva Edessa da qualunque nimico straniero. È bensì vero che il testo di Procopio attribuisce la liberazione d’Edessa alla ricchezza e al valore de’ Cittadini che comperarono l’assenza del monarca persiano, e ne respinsero gli assalti. Non sospettava quel profano istorico del testimonio che è costretto rendere nell’opera ecclesiastica d’Evagrio, dove Procopio assicura, che venne il Palladio esposto sulle mura della città, e che l’acqua lanciata contro il Santo volto, invece d’estinguere accendea maggiormente le fiamme, che andavano gli assediati gittando. Conservossi dopo un tanto servigio l’immagine d’Edessa con rispetto e gratitudine; e se punto non vollero gli Armeni ammettere la Leggenda, i Greci più creduli adoravano quella copia del volto del Salvatore del Mondo, non già come opera d’un uomo, ma produzione immediata del Divino originale. Dimostreranno lo stile, e i pensieri d’un Inno cantato dai sudditi di Bizanzio in che differisse il culto per loro renduto alle Immagini dal rozzo sistema degli Idolatri. „Come potremo noi, con occhi mortali, contemplar quest’Immagine, il cui celeste splendore non ardiscono i Santi in Cielo di fissare? Degnasi oggi colui che abita i Cieli onorarci d’una sua visita con [p. 262 modifica]un’impronta degna della nostra venerazione; oggi, colui che siede al di sopra dei Cherubini viene a noi in un simulacro, che fece il nostro Padre onnipossente colle sue mani immacolate, che formò in guisa ineffabile, e che noi dobbiamo santificare, adorandolo con timore ed amore.„ Prima della fine del sesto secolo, erano quelle Immagini fatte senza mani (usavano i Greci una sola parola16) comuni negli eserciti e nelle città dell’Impero d’Oriente17. Erano esse oggetto di culto, ed istrumenti di miracoli. Nell’ora del pericolo, o in mezzo al tumulto, la loro veneranda presenza rendea la speranza, ravvivava il coraggio, o reprimea il furore delle legioni romane. Non essendo la maggior parte di quelle Immagini che imitazioni fatte dalla mano dell’uomo, non poteano aspirare che ad un’imperfetta rassomi[p. 263 modifica]glianza; e davasi loro a torto il medesimo titolo, che si applicava alla prima Immagine; ma ve n’erano altre più autorevoli, prodotte da un contatto immediato coll’originale, dotato per ciò d’una virtù miracolosa e prolifica. Pretendeano le più ambiziose non già di discendere dall’Immagine d’Edessa, ma di avere secolei affinità filiali e fraterne; tal’è la Veronica di Roma, di Spagna o di Gerusalemme, fazzoletto ch’erasi Gesù Cristo nel punto di sua agonia, e del sudore di sangue, applicato al volto, e consegnato ad una delle sante Donne. Vi furono ben tosto Veroniche della Vergine Maria, dei Santi e dei Martiri. Mostravansi nella Chiesa di Diospoli, città della Palestina, le fattezze della Madre di Dio18 impresse assai profondamente sopra una colonna di marmo. Correa voce che il pennello di San Luca avesse ornate le Chiese d’Oriente e d’Occidente; e si suppose avere quest’Evangelista, che sembra essere stato un medico, esercitato l’arte del pittore, arte tanto profana ed odiosa agli occhi de’ primi cristiani. Poteva il Giove Olimpico creato dal genio di Omero, e dallo scalpello di Fidia, inspirare ad un filosofo una divozion momentanea; ma le Immagini cattoliche, produzioni senza forza e senza rilievo, escite dalla mano dei monaci, attestavano l’estrema degenerazione dell’arte e del genio19. [p. 264 modifica]

Erasi a poco a poco introdotto il culto delle Immagini nella Chiesa, ed erano tutti i progressi di questa innovazione accolti favorevolmente dagli animi superstiziosi, come quelli che aumentavano i mezzi di consolazione, che si poteano usare senza peccato. Ma sul principiare del secolo ottavo, cominciarono alcuni Greci scrupolosi a temere d’avere ristabilito, sotto l’apparenza del cristianesimo, la religione dei loro antenati; non poteano tollerare senza dolore ed impazienza il nome d’Idolatri, che davan loro incessantemente gli Ebrei e i Musulmani20, ai quali inspirava la legge di Mosè e del Korano un odio immortale contro le Immagini incise, ed ogni specie di culto relativo ad esse. Fiaccava la servitù degli Ebrei il loro zelo, e dava poca importanza alle loro accuse; ma i rimproveri dei Musulmani, che regnavano a Damasco, e minacciavano Costantinopoli, aveano tutto il peso che dar poteano la verità e la vittoria. Erano le città della Siria, della Palestina e dell’Egitto fornite d’Immagini di Gesù Cristo, della Vergine Maria, e dei Santi, ed avea ciascheduna la speranza od aspettava la promessa d’essere difesa in guisa miracolosa. Soggiogarono gli Arabi in dieci anni quelle città e le loro Immagini; e il Dio degli eserciti, secondo la loro opinione, pronunciò un [p. 265 modifica]giudizio decisivo sul disprezzo che ispirar doveano quegl’Idoli muti e inanimati21. Aveva fatta Edessa lunga resistenza agli assalti del Re di Persia; ma quella città prediletta, la sposa di Gesù Cristo, videsi involta nella comune ruina, e l’Immagine del Salvator del Mondo divenne un trofeo della vittoria degli Infedeli. Dopo tre secoli di servitù, fu renduto il Palladio alla divozione di Costantinopoli, che pagò, per averlo, dodicimila lire d’argento, rimise in libertà duecento Musulmani, e promise di non mover guerra giammai contra il territorio d’Edessa22.

In que’ tempi di calamità e di abbattimento usarono i monaci tutta la forza dell’eloquenza in difesa delle Immagini; vollero provare che i peccati e lo Scisma della maggior parte degli Orientali aveano alienato il favore, e annichilata la virtù di que’ Simboli preziosi; ma si ebbero contro i susurri d’una folla di cristiani che invocavano i testi, i fatti e l’esempio dei tempi primitivi, e che bramavano secretamente la riforma della Chiesa. Siccome non era stato il culto delle Immagini stabilito da veruna legge generale o positiva, nell’Impero d’Oriente, fu[p. 266 modifica]rono i suoi progressi ritardati o accelerati, secondo la qualità degli uomini e le combinazioni del tempo, secondo i vari gradi delle cognizioni sparse nelle varie contrade, e secondo il carattere particolare dei Vescovi. Lo spirito incostante della capitale e il genio inventivo del clero di Bizanzio s’affezionarono appassionatamente ad un culto tutto splendore, mentre le rimote regioni dell’Asia, di costumi più rozzi, non amavano punto quella specie di fasto religioso. Mantennero numerose congregazioni di Gnostici e di Ariani, dopo la loro conversione, quel semplice culto che aveano osservato prima d’abiurare, e non erano gli Armeni, i più bellicosi dei sudditi di Roma, riconciliati al duodecimo secolo colla vista delle Immagini23. Tutti questi nomi diversi produssero prevenzioni ed odii che furono di poco effetto nei villaggi dell’Anatolia e della Tracia, ma che sovente influirono sulla condotta del guerriero, del prelato o dell’eunuco, giunto alle primarie dignità della Chiesa o dello Stato.

[A. D. 726-840] Di tutti questi avventurieri il più fortunato fu l’Imperatore Leone III24, che passò dalle montagne [p. 267 modifica]dell’Isauria sul trono dell’Oriente. Non sapea nè di letteratura sacra nè di profana; ma la sua educazione zotica e guerriera, la sua ragione, e forse la comunicazione che avea cogli Ebrei e gli Arabi, gli aveano inspirato antipatia alle Immagini, e risguardavasi allora come dovere d’un principe la cura d’obbligare i suoi sudditi a regolare la loro coscienza secondo la sua. Con tutto ciò, nei primordii d’un regno vacillante, si sottomise Leone, pel corso di dieci anni di fatiche e pericoli, alle bassezze dell’ipocrisia; si prostrò davanti Idoli, che disprezzava nell’intimo del cuore, e soddisfece ogni anno il Papa con una solenne dichiarazione del suo zelo per l’Ortodossia. Quando volle riformare la religione furono i suoi primi passi circospetti e moderati: adunò un gran Concilio di Senatori e di Vescovi, e, col loro consenso, ordinò di togliere dal Santuario e dall’altare tutte le Immagini, e di collocarle nelle navate a tale altezza che si potessero scorgere, ed essere inaccessibili alla superstizione del popolo; ma invano tentò reprimere dall’una parte e dall’altra il rapido impulso della venerazione e dell’orrore: le sante Immagini poste a quell’altezza edificavano di continuo i devoti ed accusavano il tiranno. La resistenza e [p. 268 modifica]le invettive irritarono lo stesso Leone. Fu accusato da’ suoi medesimi partigiani di non adempiere i propri doveri; gli proposero essi a modello il Re giudeo che aveva infranto il serpente di rame. Comandò con un secondo editto non solo l’abolizione, ma la distruzione dei quadri religiosi. Furono Costantinopoli e le province purificate d’ogni sorta d’idolatria: furono distrutte le Immagini di Gesù Cristo, della Madre di Dio e dei Santi, e si copersero le mura degli edificii con un semplice strato di gesso. Venne la Setta degl’Iconoclasti spalleggiata dallo zelo e dal potere dispotico di sei Imperatori, e per cento vent’anni risuonarono l’Oriente e l’Occidente di quella disputa strepitosa. [A. D. 754] Voleva Leone l’Isaurico fare della proscrizion delle Immagini un articolo di Fede sancito dall’autorità d’un Concilio generale; ma questo Concilio non fu convocato che sotto il regno di Costantino, suo figlio, e benchè l’abbia il fanatismo della Setta trionfante rappresentato come un’adunanza d’imbecilli e d’atei25, ciò che abbiamo de’ suoi Atti in vari frammenti mutilati palesa alcuni sintomi di ragione e di pietà. Aveano le discussioni e i decreti di più Sinodi provinciali cagionato quel [p. 269 modifica]Concilio generale, tenuto ne’ sobborghi di Costantinopoli, e composto di trecento trentotto Vescovi dell’Europa e dell’Anatolia; che allora erano i Patriarchi d’Antiochia e d’Alessandria schiavi del Califfo, e i Pontefici di Roma aveano separato dalla comunion dei Greci le Chiese d’Italia e d’Occidente. Arrogossi il Concilio bizantino il titolo e il potere di settimo Concilio generale; riconosceva però in tal guisa i sei Concilii generali anteriori, che aveano gittate con tanta fatica le fondamenta dell’edificio della Fede cattolica. Dopo una deliberazione di sei mesi dichiararono i trecento trentotto Vescovi, e sottoscrissero d’unanime consenso, che tutti i Simboli visibili di Gesù Cristo, fuorchè nell’Eucarestia, erano blasfematorii od eretici; che il culto delle Immagini corrompea la purezza della Fede cristiana e rinnovava il paganesimo; ch’era giuocoforza cancellare od atterrare simili monumenti; che coloro i quali ricuserebbero di consegnare alla Chiesa gli oggetti delle loro particolari superstizioni, si renderebbero colpevoli di disobbedienza all’autorità della Chiesa istessa e dell’Imperatore. Celebrarono essi con sincere e forti acclamazioni i meriti del loro Redentore temporale, a affidarono allo zelo e alla giustizia di lui l’esecuzione delle loro spirituali censure. Come ne’ precedenti Concilii, fu anche a Costantinopoli la volontà del principe la regola della Fede episcopale26; ma [p. 270 modifica]io sarei quasi per credere, che un gran numero di Prelati sagrificò in tale occasione, a idee di speranza o di timore, le opinioni della loro coscienza. Durante questa lunga notte di superstizione, eransi i cristiani allontanati dalla semplicità dell’Evangelo, e non era agevole per essi il seguire il filo, e discernere gli andirivieni del labirinto. Era il culto delle Immagini, nella mente d’un devoto, indivisibilmente unito alla Croce, alla Vergine, ai Santi e alle loro reliquie. I miracoli e le visioni stendevano una caligine sopra la base di quel sacro edificio, e le abitudini della obbedienza e della Fede aveano sopite le due potenze dello spirito, la curiosità e lo scetticismo. Costantino istesso è accusato di dubbio, di miscredenza od anche di alcune regie facezie sopra i Misteri dei cattolici27; ma erano questi Misteri ben fondati nel Simbolo pubblico e privato de’ suoi Vescovi; e il più audace Iconoclasta non avrà potuto, che con interno orrore, assalire i monumenti della superstizion popolare consegrati alla gloria dei Santi, ch’ei teneva [p. 271 modifica]ancora per suoi protettori presso Dio. Ai tempi della riforma del sedicesimo secolo, aveano la libertà, e i lumi aumentate tutte le facoltà dell’uomo; il rispetto per l’antichità fu vinto dal bisogno delle innovazioni, e ardì l’Europa, nel suo vigore, sdegnare i fantasmi, d’innanzi ai quali tremava la debolezza effeminata dei Greci avviliti.

[A. D. 726-775] Non s’avvede il popolo dello scandolo d’una eresia, sopra quistioni astratte, che allo squillo della tromba ecclesiastica; ma i più ignoranti possono scorgere, devono i più agghiaccati risentire la profanazione e la caduta delle loro Divinità visibili. Si volsero le prime ostilità di Leone contro un Crocifisso, situato nel vestibolo, e al di sopra della porta del palazzo. Già già s’abbattea; ma la scala innalzata a tal fine, fu rovesciata con furore da una folla di fanatici e di donne. Vide la moltitudine con pio trasporto piombare i ministri del sacrilegio dall’alto della scala; e giacere in terra sfracellati; essendo stati i rei di quest’azione giustamente puniti come omicidi e ribelli, prostituì la loro fazione in lor onore gli omaggi conceduti agli antichi martiri28. L’esecuzione degli editti dell’Imperatore cagionò frequenti tumulti in Costantinopoli e nelle province: la vita di Leone fu in pericolo; si trucidarono sei officiali, e bisognò impiegare tutta la forza dell’autorità civile, e della potenza militare ad estinguere l’entu[p. 272 modifica]siasmo del popolo. Le numerose isole dell’Arcipelago, detto allora il mar Santo, erano piene d’Immagini e di monaci; abiurarono gli abitanti senza scrupolo la loro fedeltà verso un nimico di Gesù Cristo, della Vergine e dei Santi; allestirono un’armata di battelli e di galee, spiegarono i loro sacri vessilli, e arditamente corsero verso il porto di Costantinopoli, per collocare sul trono un uomo più grato a Dio e al popolo. Aveano fiducia di miracoli; ma questi miracoli non poterono resistere al fuoco greco29; e dopo la rotta e l’incendio dei loro vascelli, le loro isole senza difesa furono abbandonate alla clemenza o alla giustizia del vincitore. Aveva il figlio di Leone, nel primo anno del suo regno, intrapresa una spedizione contro i Saracini; e durante la sua assenza, erasi il parente di lui, Artavasdes, ambizioso difensore della Fede ortodossa, impadronito della capitale, del palazzo e della porpora. Si restaurò pomposamente il culto delle Immagini, rinunciò il Patriarca alla dissimulazione ch’erasi imposta30, ovvero dis[p. 273 modifica]simulò i sentimenti che avea adottati; e i diritti dell’usurpatore furono riconosciuti nella nuova e nella vecchia Roma. Riparò Costantino sulle montagne, ov’eran nati i suoi avi; ma con que’ prodi e fedeli Isauri discese da esse, e in una vittoria decisiva trionfò delle armi e delle predizioni dei fanatici; il lungo suo regno fu continuamente agitato da clamori, sedizioni, congiure, da un odio vicendevole, e da vendette sanguinolenti. La persecuzion delle Immagini fu il motivo o il pretesto de’ suoi avversari, e se non ebbero un diadema temporale, ricevettero dai Greci la corona del martirio. In tutte le trame che gli si ordirono contro, in palese, o in secreto, provò l’Imperatore l’implacabile inimicizia dei monaci, fedeli schiavi della superstizione, dalla quale ripetono le ricchezze e il potere31. Pregavano e predicavano, assolvevano e infiammavano il popolo, congiuravano contro il sovrano: sboccò dalla solitudine della Palestina un torrente d’invettive: e la penna di S. Giovanni Damasceno32, l’ultimo dei Padri greci, proscrisse la testa dell’Imperatore in questo Mondo e nel[p. 274 modifica]l’altro33. Non ho tempo d’esaminare fino a qual segno eransi i monaci tirato addosso i mali veri o supposti dei quali dolevansi, nè qual sia il numero di coloro che perdettero la vita, o qualche membro, gli occhi o la barba, per la crudeltà dell’Imperatore. Gastigati gl’individui, passò all’abolizione dei loro Ordini; essendo questi ricchi ed inutili, avrà potuto il risentimento di lui essere aizzato dall’avarizia, e scusato dal patriottismo. La missione e il nome formidabile di Dragone34, suo Visitator generale, sparsero l’orrore e lo spavento in tutta la nazione incappucciata. Furono disfatte le Comunità religiose, gli edifici convertiti in magazzeni od in baracche, confiscate le terre, le masserizie e le gregge; vari moderni esempi ci autorizzano a pensare, che non solo le reliquie, ma le biblioteche sieno divenute preda di quella rapina, ch’eccitò la licenza o il piacere [p. 275 modifica]di nuocere. Oltre l’abito e lo stato monastico si proscrisse col medesimo rigore anche il culto pubblico e privato delle Immagini; e parrebbe che si esigesse dai sudditi, od almeno dal clero dell’Impero d’Oriente, una solenne abiurazione dell’idolatria35.

Rinunziò con ripugnanza il sottomesso Oriente alle sue sacre Immagini; lo zelo independente degli Italiani le difese con vigore, e raddoppiò la divozione per esse. Era il Patriarca di Costantinopoli pel grado e per l’ampiezza della sua giurisdizione quasi uguale al Pontefice di Roma; ma il Prelato greco era uno schiavo sotto gli occhi del padrone che ad un cenno, ora da un convento il facea passare sul trono, ora dal trono nel fondo d’un convento. Il Vescovo di Roma, lontano dalla Corte, e sempre in pericolo, in mezzo ai Barbari dell’Occidente, traeva dalla sua condizione, coraggio e libertà; scelto dal popolo, gli era caro; bastavano le sue rendite ragguardevoli ai bisogni pubblici e a quelli dei poveri. La debolezza o la negligenza degli Imperatori lo determinò a consultare, in pace e in guerra, la sicurezza temporale della città. Nella scuola dell’avversità, s’andava egli a poco a poco arricchendo delle virtù di un principe, e ne sentia l’ambizione: l’Italiano, il Greco o il Siro, che arrivava alla Cattedra di S. Pietro, tutti [p. 276 modifica]procedeano del pari, e seguivano la medesima politica; e Roma, perdute e legioni e province, vedea di nuovo ristabilita la sua supremazia dal genio e dalla fortuna dei Papi. Tutti gli autori convengono, che nel secolo ottavo essi hanno fondato il dominio sulla ribellione36; che questa fu cagionata [p. 277 modifica]e giustificata dall’eresia degl’Iconoclasti; ma la condotta di Gregorio II e di Gregorio III, durante quella lotta memoranda, s’interpreta in varia guisa dai loro amici e nemici. Dichiarano gli Scrittori bizantini unitamente, che dopo un’utile ammonizione, pronunciarono i Papi la separazion dell’Oriente e dell’Occidente, e privarono il sacrilego Imperatore della rendita e della sovranità dell’Italia. I Greci, testimoni del trionfo dei Papi, parlano di questa scomunica in modo ancora più chiaro; ed essendo affezionati maggiormente alla loro religione che al loro paese, invece di biasimare, lodano essi lo zelo o l’ortodossia di quegli uomini apostolici37. Gli autori che ne’ tempi moderni difesero la Corte di Roma, mostrano gran premura ad avvalorare l’elogio ed il fatto; i cardinali Baronio e Bellarmino decantano quel grand’esempio del deponimento dei Re eretici38; e se loro dimandasi, perchè non si scagliarono le medesime folgori contro i Neroni e i Giuliani dell’anti[p. 278 modifica]chità, rispondono, che la debolezza della Chiesa primitiva fu la sola cagione della sua paziente fedeltà39. In tale occasione l’odio e l’amore produssero i medesimi effetti, e i protestanti pieni di zelo, che vogliono eccitare l’indignazione, e spaventare il potere dei principi e dei magistrati, ragionano alla distesa sull’innocenza e sul delitto dei due Gregorii verso il loro legittimo sovrano40. Questi Papi non sono difesi che dai cattolici moderati, i più della Chiesa gallicana41, che rispettano il Santo senz’approvarne il delitto. Que’ difensori della corona e della tiara giudicano della verità dei fatti dalla regola dell’equità, dalle opere che ci rimangono, e dalla tra[p. 279 modifica]dizione: ricorrono al testimonio42 dei Latini, alle Vite43 ed all’Epistole dei Papi istessi.

[A. D. 727] Abbiamo due Epistole originali di Gregorio II all’Imperatore Leone44; e se non si può citarle come modelli d’eloquenza e di logica, offrono il ritratto o almeno la maschera d’un fondatore della monarchia pontificale. „Pel corso di dieci anni di vera felicità, gli dice, abbiamo avuto la consolazio[p. 280 modifica]ne di ricever vostri fogli regii, sottoscritti con inchiostro di porpora, e di vostra propria mano: erano questi fogli per noi sacri pegni del vostro attaccamento alla Fede ortodossa dei nostri avi. Che cangiamento deplorabile! che orribile scandolo! Voi accusate ora i cattolici d’idolatria, e con tale accusa non fate che smascherare la vostra empietà ed ignoranza. Siamo costretti a proporzionare a siffatta ignoranza la rozzezza del nostro stile, e la materialità degli argomenti. Bastano a confondervi i primi elementi delle sante lettere; e se entrando in una scuola di grammatica, vi dichiaraste nimico del nostro culto, irritereste la semplicità e la pietà degli scolari a tale, che vi gitterebbero in faccia il loro alfabeto„. Dopo quest’esordio decente, tenta il Papa di stabilire l’ordinaria distinzione tra gl’Idoli dell’antichità, e le Immagini del cristianesimo. „Sono gli Idoli, dic’egli, figure immaginarie di fantasmi o diavoli, in un tempo che il vero Dio non avea manifestata la sua persona sotto forma visibile; le Immagini sono le vere forme di Gesù Cristo, di sua Madre, e dei suoi Santi, che con tanti miracoli provarono l’innocenza e il merito di questo culto relativo„. Bisogna veramente ch’egli siasi fidato nell’ignoranza di Leone per sostenere, che dai tempi degli Apostoli furono le Immagini sempre in onore, e che colla loro presenza santificarono i sei Concilii della Chiesa cattolica. Deduce dal possedimento momentaneo e dalla pratica attuale un argomento più specioso; pretende, che l’armonia del Mondo cristiano renda inutile un Concilio generale; ed ha la franchezza di confessare che non possono quelle assemblee esser utili che regnante un principe ortodosso. Volgendosi quindi [p. 281 modifica]all’impudente ed inumano Leone, molto più reo di un eretico, gli raccomanda la pace, il silenzio, ed una sommissione implicita, alle sue guide spirituali di Costantinopoli e di Roma. Fissa i limiti della potenza civile e della potenza ecclesiastica; sottomette il corpo alla prima, l’anima alla seconda; stabilisce, che la spada della giustizia è nelle mani del magistrato; che una spada più formidabile, quella della scomunica, appartiene al clero; che, nell’esercizio di questa divina commissione, non risparmierà un figlio zelante il padre colpevole; che il successore di San Pietro ha il diritto di gastigare i Re del Mondo. „O tiranno, soggiunse, tu ci assali con mano voluttuosa ed armata: noi, inermi ed ignudi, non possiamo ricorrere che a Gesù Cristo; principe dell’esercito celeste, e supplicarlo che ti mandi un demonio per la distruzion del tuo corpo e la salvezza dell’anima: spedirò i miei ordini a Roma, tu osi dichiarare con folle arroganza; farò in pezzi le Immagini di S. Pietro; e Gregorio, come Martino suo predecessore, sarà condotto, carico di catene, al piè del trono imperiale a ricevere la condanna dell’esilio. Ah! Dio volesse che mi fosse lecito camminare sull’orme di San Martino! Ma serva d’esempio il fatto di Costanzo ai persecutori della Chiesa. Condannato questo tiranno giustamente dai Vescovi della Sicilia, tutto coperto di peccati, morì dalla mano d’uno de’ suoi servi: questo sant’uomo è ancora adorato dai popoli della Scizia, fra i quali terminò l’esilio e la vita. Ma noi dobbiamo vivere per l’edificazione e il sostegno dei Fedeli; nè siamo ridotti ad avventurare la nostra sicurezza in una battaglia. Per quanto sii incapace di difendere la tua città di Roma, la situazione di lei [p. 282 modifica]sulla spiaggia del mare, può farle temere i tuoi saccheggiamenti; noi possiamo però ritirarci alla distanza di ventiquattro stadii45, nella prima Fortezza dei Lombardi, e allora perseguiterai i venti. Non sai tu che i Papi sono i legami dell’unione, e i mediatori della pace fra l’Oriente e l’Occidente? Stan fissi gli sguardi delle nazioni sulla nostra umiltà; adorano esse qua giù come un Dio l’Apostolo S. Pietro, di cui minacci d’annichilare l’Immagine46. I regni più remoti dell’Occidente offrono i loro omaggi a Gesù Cristo e al suo Vicario, e già noi ci apparecchiamo a visitare uno de’ più possenti monarchi di quella parte del Mondo, che desidera ricevere dalle nostre mani il Sacramento del Battesimo47. Si sottomi[p. 283 modifica]sero i Barbari al giogo dell’Evangelo, tu solo sei sordo alla voce del pastore. Questi pii Barbari sono pieni di furore; ardono di desiderio di vendicare la persecuzione che soffre la Chiesa in Oriente. Cessa dalla tua audace e funesta impresa; rifletti, trema e pentiti. Se ti ostini, noi non saremo rei del sangue che si verserà in questa disputa; possa egli cadere sul tuo medesimo capo!„

[A. D. 728] Le prime ostilità di Leone contro le Immagini di Costantinopoli aveano avuto a testimonio una folla di stranieri, venuti dall’Italia e da vari paesi dell’Occidente; vi raccontarono essi con isdegno e dolore il sacrilegio del monarca; ma al ricevere l’editto che proscrivea quel culto, tremarono pei loro Dei penati; si tolsero da tutte le Chiese dell’Italia le Immagini di Gesù Cristo, della Vergine, dei Martiri e dei Santi, e si propose al Pontefice di Roma questa scelta; il favore imperiale per premio della sua condiscendenza, la degradazione e l’esilio per gastigo della sua disobbedienza. Lo zelo religioso e la politica non gli permetteano d’esitare, e l’alterigia con cui trattò l’Imperatore, annunciava una gran fiducia nella verità della sua dottrina, o nelle forze di resistenza. Senza far conto delle preghiere o dei miracoli, armossi contro il nimico pubblico, e le sue lettere pastorali avvertirono gl’Italiani dei loro pericoli, e doveri48. A questo segnale, Ravenna, Venezia, e [p. 284 modifica]le città dell’Esarcato e della Pentapoli, aderirono alla causa della religione; erano quasi tutti indigeni i soldati di terra e di mare; e infusero ai mercenarii stranieri lo spirito di patriottismo e di zelo, da cui essi stessi erano animati. Giurarono gli Italiani di vivere o morire per la difesa del Papa e delle sante Immagini; era il popolo romano consegrato al suo padre spirituale, ed anche i Lombardi bramavano di dividere il merito e i vantaggi di quella sacrosanta battaglia. La distruzione delle statue di Leone fu l’atto di ribellione il più apparente, il più audace e quello che veniva in capo più naturalmente: il più efficace e il più vantaggioso fu di ritenere il tributo che pagava l’Italia a Costantinopoli, e di spogliare in tal guisa il principe d’un potere, del quale poco prima aveva abusato coll’esigere una nuova capitazione49. Si elessero magistrati e governatori, e si conservò così una forma di governo; tant’era la pubblica indignazione, che i Romani si disponeano a creare un Imperatore ortodosso, e a condurlo con una squadra navale ed un esercito nel palazzo di Costantinopoli. [p. 285 modifica]Furono nel tempo istesso Gregorio II e Gregorio III dichiarati dal monarca autori della ribellione, e condannati per tali: si fece il potere per impadronirsi della loro persona colla frode o colla violenza, o per toglier loro la vita. S’introdussero in Roma, o vennero più volte ad assalirla, capitani, guardie, duchi e vescovi, investiti d’una dignità pubblica, o deputati con una secreta commissione; approdarono con bande straniere; trovarono nel paese qualche soccorso, e dee la città superstiziosa di Napoli arrossire, che i suoi antenati difendessero allora la causa dell’eresia: il valore però e la vigilanza dei Romani rispinsero quegli assalti palesi o clandestini; i Greci furono sconfitti e trucidati, morti i Capi d’una morte ignominiosa, e per quanto fossero i Papi inclinati alla clemenza, ricusarono d’intercedere in favore di quelle colpevoli vittime. Risse sanguinose, prodotte da un odio ereditario, divideano da lungo tempo i diversi rioni della città di Ravenna50; trovarono quelle fazioni un nuovo alimento nella controversia religiosa che sorgeva allora; ma aveano i partigiani delle Immagini la superiorità del numero o del [p. 286 modifica]valore, e l’Esarca, che volle arrestar il torrente, perdè la vita in una sedizion popolare. Per punire quel misfatto, e ristabilire il suo dominio in Italia, mandò l’Imperatore una squadra ed un esercito nel golfo Adriatico. Ritardati lunga pezza dai venti e dall’onde, che loro cagionarono gran danno, sbarcarono i Greci alla fine nei dintorni di Ravenna; minacciarono di spopolare quella rea città, e d’imitare, forse di superare, Giustiniano II, il quale dovendo, già un tempo, punire una ribellione, avea consegnato al carnefice cinquanta dei primarii abitanti. Vestiti del sacco e coperti di cenere, pregavano le donne e il clero; gli uomini erano armati alla difesa della patria; aveva il comun pericolo riunite le fazioni, e vollero piuttosto avventurare una battaglia ch’esporsi alle lunghe miserie d’un assedio. Si combattè di fatto con accanimento. I due eserciti indietreggiarono e si avanzarono a vicenda; videsi un fantasma, s’udì una voce, e la certezza della vittoria rendè Ravenna vittoriosa. I soldati dell’Imperatore si ritirarono sopra i vascelli; ma la spiaggia del mare assai popolata mandò contro il nimico una gran quantità di schifi; si mescolò tanto sangue alle acque del Po, che per sei anni non volle il popolo cibarsi del pesce di quel fiume; l’instituzione d’una festa annuale consecrò il culto delle Immagini, e l’odio del tiranno greco. In mezzo al trionfo delle armi cattoliche, volendo il Pontefice di Roma, condannare l’eresia degl’Iconoclasti, convocò un Concilio di novantatre Vescovi. Coll’approvazione di questi, pronunciò una scomunica generale contro quelli che assalirebbero la tradizion de’ Padri, e le Immagini dei Santi sia con parole o con fatti; comprendeva questo decreto tacita[p. 287 modifica]mente l’Imperatore51; con tutto ciò sembra che la risoluzione presa di fargli per l’ultima volta un’ammonizione, senza speranza di buon esito, provi che l’anatema non era allora che sospeso sopra il suo reo capo. Sembra di più, che i Papi, dopo avere ben fondato le basi della propria sicurezza, del culto delle Immagini, e della libertà di Roma e dell’Italia, abbiano mitigato il rigore, e risparmiato il rimanente del dominio Bizantino. Differirono con moderati consigli ed impedirono l’elezione d’un nuovo Imperatore; esortarono gl’Italiani a non separarsi dal corpo della Monarchia romana. Si concedette all’Esarca di risedere nelle mura di Ravenna, dove fece la parte piuttosto di schiavo che di padrone; e fino all’incoronazione di Carlomagno, il governo di Roma e dell’Italia fu sempre tenuto in nome dei successori di Costantino52. [p. 288 modifica]

La libertà di Roma oppressa dalle armi e dall’arte d’Augusto, dopo settecento cinquant’anni di servitù fu campata dalla tirannia di Leone l’Isaurico. Aveano i Cesari annichilati i trionfi dei Consoli; nella decadenza e ruina dell’Impero romano, erasi il Dio Termine, quel sacro limite, ritirato a poco a poco dalle rive dell’Oceano, del Reno, del Danubio e dell’Eufrate, e Roma era ridotta al suo antico territorio, contando i paesi che da Viterbo si stendono a Terracina, e da Narni all’imboccatura del Tevere53. Espulsi i Re, riposò la Repubblica sopra la solida base fondata dalla loro saggezza e virtù. La loro perpetua giurisdizione si divise a due magistrati, che si eleggeano ogni anno; continuò il senato ad essere investito del potere amministrativo e deliberativo; le assemblee del popolo esercitarono l’autorità legislativa distribuita tra le classi diverse in proporzione delle sostanze, o dei servigi di ciascun individuo. Aveano i primi Romani, ignari delle arti del lusso, perfezionata la scienza del governo e della guerra: erano sacri i diritti personali; il volere della Comunità era assoluto; erano armati cento trentamila cittadini a difendere il loro paese, o ad ampliarlo per via di conquisti; una geldra di ladri e di proscritti era divenuta una nazione, degna di libertà e ardente di gloria54. Allorchè si estinse la [p. 289 modifica]sovranità degl’Imperatori greci, Roma spopolata più non era che il tristo scheletro della miseria; era la schiavitù divenuta per lei un’abitudine, e la sua libertà fu un accidente prodotto dalla55 superstizione, ch’essa medesima non potè mirare che con sorpresa e terrore. Non trovavasi nelle instituzioni o nella memoria dei Romani il menomo vestigio della sostanza, od anche delle forme della costituzione; nè aveano abbastanza lumi e virtù a rifabbricare l’edificio d’una Repubblica. Il debole avanzo degli abitanti di Roma, nati tutti da schiavi o da stranieri, era l’oggetto dello scherno dei Barbari trionfanti. Per esprimere il maggior disprezzo che aveano per un nimico, lo chiamavano i Franchi e Lombardi Romano; „e questo nome, dice il Vescovo Luitprando, abbraccia tutto ciò che è vile, infame e perfido; i due estremi dell’avarizia e del lusso, e tutti i vizi infine che possono prostituire la dignità della natura umana„56. La situazione dei [p. 290 modifica]Romani li gettò necessariamente in un governo repubblicano grossolanamente concepito. Furono obbligati a scegliere Giudici in tempo di pace, e Capi durante la guerra; si adunavano i Nobili per deliberare, e non poteansi eseguire le loro risoluzioni, senza il consenso della moltitudine. Si videro rinnovarsi le forme antiche del Senato e del Popolo romano57; ma non erano animate dall’istesso spirito, e quella nuova independenza fu disonorata dalla tempestosa lotta della licenza e dell’oppressione. La mancanza di leggi non poteva essere supplita che dal potere della religione, e l’autorità del Vescovo dirigeva l’amministrazione interna, e la politica esterna. Le sue limosine, i suoi discorsi, la sua corrispondenza coi re e prelati dell’Occidente, i servigi, che non guari prima avea renduto alla città, i giuramenti statigli prestati, e la gratitudine che gli si dovea, assuefarono i Romani a risguardarlo come il primo magistrato, o il principe di Roma. Il nome di dominus o di Signore non isgomentò l’umiltà cristiana dei Papi, e se ne scorge la figura e l’iscrizione sulle più antiche monete58. Il loro dominio temporale [p. 291 modifica]è oggigiorno assodato da dieci secoli di rispetto, e il loro più bel titolo e la libera scelta di un popolo, ch’essi aveano sottratto dalla schiavitù.

[A. D. 730-752] In mezzo alle dispute dell’antica Grecia godeva il popol santo dell’Elide una pace continua sotto la protezione di Giove, e nell’esercizio de’ Giuochi Olimpici59. Sarebbe stato una fortuna pei Romani che un simile privilegio difendesse il patrimonio della Chiesa dalle calamità della guerra, e che i cristiani, i quali andavano a vedere la tomba di San Pietro, si credessero tenuti, alla presenza dell’apostolo e del suo successore, di riporre le spade nel fodero; ma questo mistico cerchio non potea essere delineato che dalla verga d’un legislatore e d’un saggio: questo pacifico sistema non s’uniformava collo zelo e coll’ambizione dei Papi; non erano i Romani, come gli abitanti dell’Elide, dediti agl’innocenti e placidi lavori dell’agricoltura, e le instituzioni pubbliche e private dei Barbari dell’Italia, malgrado dell’effetto che aveva il clima prodotto sui loro costumi, erano assai inferiori a quelle degli Stati della Grecia. Luitprando, Re dei Lombardi, diede un esempio memorando di pentimento e di divozione. Ascoltò questo vincitore, in mezzo alle armi, alla porta del [p. 292 modifica]Vaticano, la voce di Gregorio II60, ritirò le schiere, abbandonò i conquisti, si condusse alla Chiesa di S. Pietro, e, dopo avere orato, depose sulla tomba dell’Apostolo la spada e il pugnale, la corazza e il mantello, la croce d’argento e la corona d’oro; ma tale fervor religioso fu un’illusione e forse un artificio del momento; il sentimento dell’interesse è possente e durevole. Era l’amore delle armi e della rapina inerente al carattere dei Lombardi, e i disordini dell’Italia, la debolezza di Roma, e la profession pacifica del suo nuovo Capo, furono per essi e pel loro Re un oggetto di tentazione irresistibile. Alla pubblicazione dei primi editti del monarca si dichiararono difensori delle Immagini. Invase Luitprando la provincia di Romagna, chiamata così fin da quei tempi; i cattolici dell’Esarcato si sottomisero senza ripugnanza al suo potere civile e militare, e per la prima volta venne introdotto un nimico straniero nell’inespugnabile Fortezza di Ravenna. Furono la città e la fortezza ricuperate bentosto dall’attività dei Veneziani valenti e poderosi in mare, e questi fedeli sudditi s’arresero alle esortazioni di Gregorio, che li indusse a separare il fallo personale di Leone dalla causa generale dell’Impero romano61. Dimenticarono i Greci [p. 293 modifica]un tale servigio, e i Lombardi si ricordarono di tale ingiuria. Formarono le due nazioni, nimiche per la lor Fede, un’alleanza pericolosa e poco naturale; marciarono il Re e l’Esarca al conquisto di Spoleti e di Roma: si dissipò la tempesta senz’alcun effetto; ma il politico Luitprando continuò a tenere l’Italia agitata da perpetue alternative di tregue e d’ostilità. Astolfo, successore di lui, si dichiarò ad un tempo nimico dell’Imperatore e del Papa. Fu soggiogata Ravenna dalla forza o dal tradimento62, e questa conquista troncò la serie degli Esarchi, i quali, dall’epoca di Giustiniano e dalla ruina del regno dei Goti in poi, aveano esercitato in quel paese una specie di potere dependente. Fu ingiunto a Roma di riconoscere per suo legittimo sovrano il Lombardo vittorioso; si fissò la taglia di ciascun cittadino ad un annuo tributo d’un pezzo d’oro; la spada sospesa sul loro capo era pronta a punire le disobbedienze. Esitarono i Romani; supplicarono, si dolsero, e l’effetto delle minacce dei Barbari fu impedito dalle lagrime e dai negoziati, fino a tanto che il Papa seppe procurarsi al di là delle Alpi un alleato e un vendicatore63. [p. 294 modifica]

[A. D. 754] Aveva Gregorio I, nelle sue calamità, implorato i soccorsi dell’eroe del suo secolo, di Carlo Martello, che governava la Francia col titolo modesto di Prefetto del Palazzo o di Duca, e che colla sua vittoria segnalata sopra i Saracini avea salvata la patria, e forse l’Europa, dal giogo dei Musulmani. Ricevè Carlo col dovuto rispetto gli ambasciatori del Papa; ma l’importanza delle sue occupazioni e la brevità della sua vita non gli permisero d’immischiarsi negli affari dell’Italia che per via d’una mediazione amichevole ed infruttuosa. Suo figlio Pipino, erede del suo potere e delle sue virtù, si dichiarò difensore della Chiesa romana, e sembra che lo zelo di questo principe fosse eccitato dall’amor della gloria e dalla religione; ma era il pericolo sulle sponde del Tevere, i soccorsi su quelle della Senna, e debole è la nostra compassione per miserie lontane da noi. Mentre abbandonavasi la città di Roma al dolore, Stefano III prese la generosa risoluzione di condursi in persona alla Corte di Lombardia e a quella di Francia, di piegare l’ingiustizia del suo nimico, o di destare la pietà e l’indignazione del suo amico. Mitigata la pubblica disperazione con preghiere e litanie, intraprese quel faticoso viaggio cogli ambasciatori del Monarca francese, e con quelli dell’Imperator greco. Il Re dei Lombardi fu inesorabile; ma non poterono le sue minacce frenare i lamenti, o ritardare la diligenza del Pontefice di Roma, che traversò le Alpi pennine, si riposò nell’abbazia di S. Maurizio, e [p. 295 modifica]andò poscia in tutta fretta a stringere quella mano del suo protettore, che mai non alzavasi in vano tra l’armi e per l’amicizia. Fu Stefano accolto come il successore visibile dell’Apostolo. Nella prima assemblea del Campo di Marzo o di Maggio, espose il Re di Francia a una nazione divota e guerriera le varie doglianze del Papa, e il Pontefice ripassò le Alpi non da supplichevole ma da conquistatore, con un esercito di Francesi guidati dal Re medesimo. Dopo una debole resistenza ottennero i Lombardi una pace ignominiosa; giurarono di restituire le possessioni, e di rispettare la santità della Chiesa romana; ma non appena fu liberato dalla presenza delle schiere francesi, dimenticò Astolfo la sua promessa, e non sentì che l’affronto ricevuto. Videsi Roma di nuovo investita dai soldati, e Stefano, temendo di stancare lo zelo degli alleati che si avea procurato al di là delle Alpi, immaginò di fortificare la sua doglianza, e la supplica, con una lettera eloquente scritta da S. Pietro istesso64. L’Apostolo accerta i suoi figli adottivi, il Re, il Clero e i Nobili di Francia, che morto corporalmente vive tuttavia in ispirito; che la voce ch’essi ascoltano e che devono obbedire, è quella del fondatore e del guardiano della Chiesa di Roma; che la Vergine, gli Angeli, i Santi, i Martiri e tutto [p. 296 modifica]l’esercito celeste, sollecitano la supplica del Papa, e impongon loro di marciare immediatamente; che in ricompensa della loro pia impresa avranno la fortuna, la vittoria e il paradiso, e che la perdizione eterna sarà la pena della loro negligenza, se lascieranno cadere nelle mani dei perfidi Lombardi la sua tomba, la sua Chiesa, il suo popolo. Non men rapida e felice della prima fu la seconda spedizione di Pipino; ottenne S. Pietro quanto bramava; Roma fu salva per la seconda volta, e sotto la sferza d’un padrone straniero imparò finalmente Astolfo a rispettare la giustizia e la buona fede. Dopo quel doppio gastigo, non fecero i Lombardi che languire, e decadere per lo spazio di circa vent’anni. Non erasi per altro il loro carattere conformato all’avvilimento della loro condizione; e in vece d’aspirare alle pacifiche virtù dei deboli, stancarono i Romani con una quantità di pretensioni, sutterfugii e scorrerie, che cominciarono senza riflessione, e terminarono senza gloria. Era la loro spirante monarchia angustiata, da un lato, dallo zelo e dalla prudenza del Papa Adriano I, dall’altro, dal genio, dalla fortuna e dalla grandezza di Carlomagno, figlio di Pipino: quegli eroi della Chiesa e dello Stato si unirono con un’alleanza e coll’amicizia; e quando calpestarono i deboli, seppero dare al loro procedere i più bei colori dell’equità e della moderazione65. Unica difesa dei Lombardi erano [p. 297 modifica]le gole delle Alpi e le mura di Pavia. Sorprese il figlio di Pipino quelle gole, e investì quelle mura, e dopo un assedio di due anni, l’ultimo dei loro principi naturali, Desiderio, consegnò al vincitore lo scettro e la capitale. [A. D. 774] I Lombardi, sottomessi a un Re straniero, serbando però le loro leggi nazionali, divennero piuttosto concittadini che sudditi dei Franchi, i quali, com’essi traevano l’origine, i costumi e la lingua dalla Germania66.

[A. D. 751, 753-768] Le obbligazioni reciproche dei Papi e della famiglia Carlovingia, formano l’importante anello che unisce l’istoria antica e moderna, la civile ed ecclesiastica. Erano stati i difensori della Chiesa incoraggiati al conquisto dell’Italia da una fausta occasione, da un titolo specioso, dai voti del popolo, dalle preghiere e dai raggiri del clero. La dignità di Re di Francia67 e quella di Patrizio di Roma [p. 298 modifica]furono i doni i più preziosi, che ricevè dai Papi la dinastia Carlovingia. I. Sotto la monarchia sacerdotale di S. Pietro, cominciarono le nazioni a ripigliare l’abitudine di cercare sulle sponde del Tevere il loro monarca, le loro leggi e gli oracoli del loro destino. Erano i Franchi imbarazzati tra due sovrani, l’uno di fatto, l’altro di nome; Pipino, semplice Prefetto del Palazzo, esercitava l’assoluto potere d’un Re; non mancava che questo titolo alla sua ambizione. Il suo valore abbatteva gl’inimici; la sua liberalità gli moltiplicava il numero degli amici. Era stato suo padre il salvatore del cristianesimo, e quattro illustri generazioni assodavano, e faceano risaltare i diritti del suo merito personale. L’ultimo discendente di Clodoveo, il debole Childerico, conservava tuttavia il nome e le apparenze della regia dignità, ma il suo diritto disusato non potea servire ad altro che d’istrumento a sediziosi; desiderava la nazione di restaurare la semplicità della sua costituzione, e Pipino, suddito e principe, voleva assicurare il proprio grado e la fortuna della sua famiglia. Legava un giuramento di fedeltà il Prefetto e i Nobili al fantasma reale; era il puro sangue di Clodoveo, sempre sacro ad essi: chiesero i loro ambasciatori al Pontefice romano di dissipare i loro scrupoli, o di assolverli dalle loro promesse. L’interesse determinò prontamente il Papa Zaccaria, successore dei due Gregorii, di pronunciare in loro favore; decise che la nazione aveva il diritto di unire sul medesimo capo il titolo e l’autorità di re; che lo sfortunato Childerico dovea essere immolato alla pubblica sicurezza; ch’era d’uopo deporlo dal trono, raderlo e chiuderlo in un convento pel resto de’ suoi giorni. Una [p. 299 modifica]risposta sì conforme al desiderio dei Franchi fu ricevuta da essi come l’opinione d’un casuista, la sentenza d’un Giudice, o l’oracolo d’un Profeta68: sparve la razza Merovingia; e fu innalzato Pipino sopra lo scudo da un popolo libero, assuefatto ad obbedire alle sue leggi ed a marciare sotto il suo vessillo. Fu incoronato due volte colla confermazione della Corte di Roma; la prima dal servo fedele dei Papi, S. Bonifazio, apostolo della Germania, e la seconda dalle mani riconoscenti di Stefano III, che nel monastero di S. Dionigi pose il diadema in capo al proprio benefattore. Alle altre cerimonie si aggiunse allora destramente l’unzione dei Re d’Israele69: il successore di S. Pietro assunse il carattere d’un messaggero di Dio; divenne un Capo germanico agli occhi dei popoli, l’unto del Signore, e tanto la va[p. 300 modifica]nità che la superstizione70 contribuirono a diffondere questa cerimonia giudaica per tutta l’Europa moderna. Si dispensarono i Franchi dal loro primo giuramento di fedeltà, ma furono minacciati dei più tremendi anatemi, i quali piomberebbero anche sulla loro posterità, se ardivano in avvenire di fare un nuovo uso della libertà d’elezione, o di scegliere un re, che non fosse della santa e degna stirpe dei principi Carlovingi. Godettero questi principi tranquillamente la loro gloria senz’inquietarsi dell’avvenire; afferma il secretario di Carlomagno, che lo scettro di Francia era stato trasferito dall’autorità dei Papi71, e in processo di tempo, nelle loro più ardite imprese, non lasciarono d’insistere con fiducia su quest’atto notabile, e approvato dalla loro giurisdizion temporale.

II. Aveano i costumi e la lingua cangiato a tale, che i patrizi di Roma72 erano ben lontani dal ram[p. 301 modifica]rammentare il Senato di Romolo, e gli officiali del palazzo di Costantino rassomigliavano poco ai Nobili della repubblica, od ai patrizi distinti dal titolo fittizio di padri dell’Imperatore. Allorchè ebbe Giuliano riconquistato l’Italia e l’Affrica, l’importanza di quelle province rimote, e i pericoli ai quali erano esposte, obbligarono a stabilire un magistrato supremo che risedesse colà; chiamavasi indifferentemente Esarca o patrizio, e que’ governatori di Ravenna, che stanno registrati nella cronologia dei principi, stendevano la loro giurisdizione sulla città di Roma. Dalla ribellion dell’Italia e dalla perdita dell’Esarcato in poi, aveva la miseria dei Romani, per certi riguardi, dimandato il sacrificio della loro independenza; ma in quest’atto esercitavano ancora il diritto di disporre d’essi medesimi, e i decreti del senato e del popolo investirono successivamente Carlo Martello e la sua posterità degli onori di patrizio di Roma. Avrebbero i Capi d’una potente nazione sdegnati titoli servili, e uffici dependenti; ma il regno degli Imperatori greci era sospeso, e durante la vacanza dell’Impero, ottennero essi dal Papa e dalla repubblica una missione più gloriosa. Presentarono gli ambasciatori romani a questi patrizi le chiavi della Chiesa di S. Pietro in prova e per simbolo di sovranità; ricevettero nel tempo stesso un santo vessillo che poteano e doveano spiegare a difendere la Chiesa [p. 302 modifica]e la città73. Ai giorni di Carlo Martello e di Pipino, l’interposizione del regno dei Lombardi minacciava la sicurezza di Roma, ma ne proteggea la libertà, e la parola patriziato rappresentava soltanto il titolo, i servigi e l’alleanza di que’ protettori lontani. La potenza e politica di Carlomagno annichilarono i Lombardi, e lo fecero signore di Roma. Quando per la prima volta entrò in quella città, vi fu ricevuto con tutti gli onori, renduti in altri tempi all’Esarca, cioè al rappresentante dell’Imperatore; la gioja e la gratitudine del Papa Adriano I74 aggiunsero maggior lustro a quegli onori. Non così tosto ei seppe l’improvviso avvicinamento del monarca, che gli mandò incontro i magistrati e i Nobili colla bandiera, trenta miglia in circa dalla città. Le Scuole o le Comunità nazionali dei Greci, dei Lombardi, dei Sassoni etc. si affilarono lunghesso i due lati della via flaminia, per lo spazio d’un miglio; era la gioventù di Roma sotto le armi, e fanciullini, con palme e rami d’olivo in mano, cantavano le lodi del[p. 303 modifica]l’illustre liberatore. Allorchè vide le croci e i vessilli, discese Carlo da cavallo; condusse al Vaticano la processione di que’ Nobili, e nel salire la scala baciò devotamente tutti i gradini, che metteano nel santuario degli Apostoli. Lo stava Adriano aspettando col clero sotto il portico. S’abbracciarono come amici ed uguali; ma andando verso l’altare prese il Re, o patrizio, la diritta del Papa, nè fu pago Carlomagno di queste vane dimostrazioni di rispetto. Durante i ventisei anni, che passarono fra il conquisto della Lombardia e la sua incoronazione in qualità d’Imperatore, governò da padrone la città di Roma che avea liberata colle sue armi. Giurò il popolo fedeltà alla sua persona e alla sua famiglia; si coniarono le monete; si amministrò la giustizia in suo nome; egli esaminò e confermò l’elezione dei Papi. Toltone il diritto di richiamare la sovranità del suo proprio capo, non poteva il titolo d’Imperatore aggiungere alcuna prerogativa a quelle delle quali era il patrizio di Roma già investito75.

Fu la gratitudine dei Carlovingi proporzionata a queste obbligazioni, e i loro nomi sono stati consegrati col titolo di salvatori e benefattori della Chiesa romana. Il suo antico patrimonio consistente in case [p. 304 modifica]e poderi affittati, fu trasformato dalla loro munificenza in un dominio temporale di città e province. Primo frutto delle vittorie di Pipino fu la concessione dell’Esarcato76. Abbandonò Astolfo sospirando la sua preda. Si consegnarono le chiavi e gli ostaggi delle primarie città all’ambasciatore di Francia, che li presentò, in nome del suo Re, sulla tomba di S. Pietro. Abbracciava l’Esarcato, secondo il più ampio significato di questo vocabolo77, tutte le province dell’Italia che aveano obbedito all’Imperatore e a’ suoi ministri; ma a tutto rigore non comprendea che i territori di Ravenna, di Bologna e di Ferrara; deesi aggiungere la Pentapoli, che estendevasi lunghesso il mare Adriatico, da Rimini fino ad Ancona, e che avanzavasi nell’interno del paese fino alla giogaia dell’Apennino. Si biasimarono molto l’ambizione e l’avarizia dei Papi in quel maneggio. Avrebbe forse dovuto l’umiltà d’un prete cristiano ricusare un regno terrestre, che non potea di leggieri governare senza rinunciare alle virtù del suo stato. Avrebbe forse dovuto un suddito fedele od anche un [p. 305 modifica]nimico generoso mostrar meno ardore a dividere le spoglie del principe Barbaro; e se aveva l’Imperatore commesso a Stefano di sollecitare in suo nome la restituzione dell’Esarcato, non assolverei il Papa dal rimprovero di perfidia o di falsità; ma stando esattamente alle leggi, può chiunque accettare senza offesa, ciò che senza ingiustizia gli può dare un benefattore. Aveva l’Imperator greco abbandonato o perduto i diritti all’Esarcato, e la spada d’Astolfo era rotta dalla spada più forte del Carlovingio. Non per difendere la causa dell’Iconoclasta, aveva Pipino esposto la sua persona e l’esercito ai pericoli di due spedizioni al di là della Alpi; possedea legalmente i suoi conquisti, e li potea legalmente alienare: rispose piamente alle importunità dei Greci, che niuna considerazione umana non lo determinerebbe a ripigliare un dono, che avea fatto al Pontefice di Roma per la remission de’ suoi peccati e la salute dell’anima. Aveva egli dato l’Esarcato con tutti i diritti di sovranità; e vide il Mondo per la prima volta un Vescovo cristiano investito delle prerogative d’un principe temporale, del diritto di nominare magistrati, di far esercitare la giustizia, di impor tasse, e di disporre delle ricchezza del palazzo di Ravenna. Al disciogliersi del reame Lombardo, cercarono gli abitanti del Ducato di Spoleti78 un rifugio dalla procella; si tagliarono i capelli all’uso dei Romani, si dichiararono servitori e sudditi di [p. 306 modifica]S. Pietro, e compierono, con questa volontaria confessione, il circondario odierno dello Stato ecclesiastico. Divenne questo circolo misterioso d’un’ampiezza indefinita mercè la donazione verbale o scritta di Carlomagno79, il quale ne’ primi trasporti della sua vittoria spogliò sè stesso e l’Imperatore greco delle città e delle isole dipendenti altre volte dall’Esarcato. Ma riflettendo, lontano dall’Italia, a mente più fredda a quanto avea fatto, guardò con occhio di invidia e di diffidenza la nuova grandezza del suo alleato ecclesiastico. Eluse in guisa rispettosa l’esecuzione nelle sue promesse e di quelle di suo padre; sostenne il Re dei Francesi e dei Lombardi i diritti inalienabili dell’Impero, e finch’ei visse, e nel punto di sua morte, Ravenna80 e Roma furono sempre contate nel numero delle sue città metropolitane. Svanì la sovranità dell’Esarcato tra le mani dei Papi. Trovarono questi nell’Arcivescovo di Ravenna un ri[p. 307 modifica]vale pericoloso81: sdegnarono i Nobili e il popolo il giogo d’un prete; e in mezzo ai disordini di quei tempi non poterono i Pontefici di Roma ritenere che la memoria d’un’antica pretensione, che in una epoca più favorevole rinnovarono con prospero evento.

La frode è l’arme della debolezza e dell’astuzia, e Barbari possenti, ma ignoranti, caddero ben spesso nei lacci della politica sacerdotale. Erano il Vaticano e il palazzo82 di Laterano un arsenale ed una manifattura, che secondo le occasioni produ[p. 308 modifica]o celavano una copiosa raccolta d’Atti veri o falsi, corrotti o sospetti, favorevoli agl’interessi della Chiesa romana. Prima della fine del secolo ottavo, qualche scriba della Santa Sede, forse il famoso Isidoro, fabbricò le Decretali e la donazione di Costantino, quelle due colonne della monarchia spirituale e temporale dei Papi. Fu mentovata quella memoranda donazione, per la prima volta, in una lettera d’Adriano I, il quale esortava Carlomagno ad imitare la liberalità del Gran Costantino, ed a farne rivivere il nome83. Secondo la leggenda, aveva San [p. 309 modifica]Silvestro, Vescovo di Roma, guarito dalla lebbra, e purificato nell’acque battesimali il primo degl’Imperatori cristiani, nè medico alcuno fu mai tanto ricompensato. Erasi il neofito reale allontanato dalla residenza e dal patrimonio di San Pietro: aveva dichiarato la sua risoluzione di fondare una nuova capitale in Oriente, e aveva abbandonata ai Papi l’intiera e perpetua sovranità di Roma, dell’Italia e delle province dell’Occidente84. Produsse una tale finzione gli effetti i più vantaggiosi. Furono i principi Greci convinti d’usurpazione, e la ribellione di Gregorio85 non fu più considerata che come l’atto, mercè del quale rientrava ne’ suoi diritti ad una eredità, che [p. 310 modifica]gli apparteneva legittimamente: si sciolsero i Papi dal dovere di gratitudine, poichè l’apparente donazione non era che la giusta restituzione d’una picciola parte dello Stato ecclesiastico. La sovranità di Roma non dipendeva più dalla scelta d’un popolo volubile, e si videro i successori di San Pietro, e di Costantino investiti della porpora e dei diritti dei Cesari. Tanta era l’ignoranza e la credulità di quel secolo, che in Grecia e in Francia si accolse con rispetto la più assurda delle favole, e che trovasi tuttavia fra i decreti della legge canonica86. Nè gl’Imperatori, nè i Romani non furono capaci di discernere una trufferia, che distruggea i diritti degli uni e la libertà degli altri: il solo ostacolo venne da un monastero della Sabinia, che sul principio del duodecimo secolo contrastò l’autenticità e la validità della donazione di Costantino87. [p. 311 modifica]Al risorgere delle lettere e della libertà fu quel falso atto trafitto dalla penna di Lorenzo Valla, critico eloquente, e Romano pieno di patriottismo88. Stupirono i suoi contemporanei del suo audace sacrilegio; ma tal’è il tacito ed irresistibile progresso della ragione, che avanti la fine del secolo vegnente, era quella favola rigettata con disprezzo dagli Storici89, dai Poeti90, e dalla censura tacita e moderata dei difensori della Chiesa di Roma91. I Papi sorrisero [p. 312 modifica]anch’essi alla pubblica credulità92: ma questo titolo, supposto e disusato, continuò a santificare il loro regno; e per un accidente felice al pari di quello che preservò le decretali e gli oracoli della Sibilla, distrutte le fondamenta, l’edificio non ruinò.

Mentre fondavano i Papi in Italia la loro independenza e il loro dominio, le Immagini, ch’erano state la primaria cagione della loro rivolta, si restauravano nell’Impero d’Oriente93. Sotto il segno di Costantino V aveva l’unione del poter civile e del potere ecclesiastico94 rovesciato l’albero della super[p. 313 modifica]stizione senza sbarbicarne la radice. Quella classe di uomini e quel sesso che sono più dediti alla divozione, amavano nel lor segreto il culto degli idoli, così nomandosi allora le Immagini95, e l’alleanza dei monaci e delle donne96 vinse decisamente la prova contro la ragione e l’autorità. Leone IV sostenne, ma con minor rigore la religion del padre e dell’avo mentre sua moglie, la bella e ambiziosa Irene, era imbevuta del fanatismo degli Ateniesi, eredi dell’idolatria assai più che della filosofia dei loro antenati. Vivente il marito, le sue inclinazioni non fecero che invigorirsi vie più pei rischi a cui l’esponevano, e per la dissimulazione che ne fu la conseguenza; solamente potè ella adoperarsi nel proteggere, e promovere alcuni monaci favoriti, che trasse dalle loro spelonche per collocarli sulle Sedi metropolitane dell’Oriente; ma non così tosto cominciò a regnare in nome proprio, e in quello del figlio, ella intese più seriamente alla ruina degl’Iconoclasti, e con un editto generale a favor della libertà di coscienza aperse la via alla persecuzione. Richiamando i monaci, espose delle Immagini a migliaia alla pubblica venerazione, e da quel punto s’inventarono mille leggende di martirii e di miracoli. Ad un Vescovo morto o scacciato, erano immantinente sostituiti uomini animati dalle sue pas[p. 314 modifica]sioni. Coloro che più ardentemente cercavano i favori temporali e celesti, prevenivano l’elezione che farebbe la sovrana, e non mancavano d’approvarla. La promozion di Tarasio, suo segretario, alla dignità di Patriarca di Costantinopoli, la fece arbitra della Chiesa d’Oriente: ma i decreti d’un Concilio generale non si poteano rivocare, che da un’assemblea della stessa qualità97; gl’Iconoclasti da lei radunati, fatti forti dal possesso attuale, pareano poco inclinati alle discussioni, e la debole voce dei loro Vescovi era avvalorata dalle grida assai più formidabili dei soldati e della plebe di Costantinopoli. Fu differito per un anno il Concilio; e in quest’intervallo si ordirono maneggi, si separarono le squadre mal affezionate, e finalmente, per toglier di mezzo tutti gli ostacoli, fu deciso che si congregherebbe il Concilio in Nicea; così secondo l’uso della Grecia fu un’altra volta la coscienza dei Vescovi in mano dei principi. [A. D. 787] Non si assegnarono che diciotto giorni pur l’esecuzione di sì grande affare; comparvero gl’Iconoclasti nell’Assemblea non come giudici, ma come rei o penitenti; la presenza dei Legati del Papa Adriano e dei Patriarchi dell’Oriente crebbero la pompa di quella scena98. Tarasio, che presedeva al Concilio, stese [p. 315 modifica]il decreto, che fu confermato e ratificato dalle acclamazioni e dalla sottoscrizione di trecentocinquanta Vescovi. I quali con voce unanime dichiararono, che il culto delle Immagini è conforme ai dettami della Scrittura e della ragione, dei Padri e dei Concilii; ma stettero in forse quando si volle determinare, se questo culto sia relativo, o diretto, se la Divinità e la figura di Gesù Cristo ponno ammettere la stessa forma d’adorazione. Abbiamo già gli Atti di questo secondo Concilio di Nicea; monumento singolare di superstizione e d’ignoranza, di menzogna e di follia. Solamente riferirò il giudizio dato dai Vescovi sul merito comparativo del culto che si rende alle Immagini, e della moralità nelle azioni della vita. Aveva convenuto un monaco99 una tregua col demonio della fornicazione, a patto che cesserebbe di fare le solite orazioni quotidiane davanti un’Immagine sospesa al muro della sua cella. Fu dagli scrupoli indotto a consultare il suo abate. „È meglio, gli rispose il casuista, entrare in tutti i lupanari; e visitare tutte le prostitute della città, che astenerti dall’adorar Gesù Cristo e sua Madre nelle lor sante Immagini„100. [p. 316 modifica]

[A. D. 841] È gran disgrazia per l’onor dell’ortodossia o per lo meno di quello della Chiesa romana, che i due principi i quali convocarono i due Concilii di Nicea si sieno macchiati del sangue del loro figlio101. Irene approvò e mandò despoticamente ad effetto i decreti [p. 317 modifica]della seconda di queste Assemblee, e ricusò ai suoi avversari quella tolleranza che da prima aveva conceduta a’ suoi amici. La lite fra gli Iconoclasti e i difensori del culto delle Immagini durò trentott’anni, o sia per cinque regni consecutivi, collo stesso furore, benchè con diversi successi; ma non è mio intendimento di rivangare minutamente fatti simili ai già narrati. Diede Niceforo su questa materia una libertà generale di discorsi e di contegno; e i monaci indicarono questa sola virtù del suo regno come origine delle sue disgrazie in questo Mondo, e della sua dannazione eterna. Superstizione e debolezza fecero il carattere di Michele I; ma non valsero nè i Santi nè le Immagini, a cui offeriva omaggio continuamente, a sostenerle sul trono. Quando Leone ottenne la porpora, col nome d’Armeno, ne prese pure la religione, e le Immagini coi lor sediziosi aderenti furono di bel nuovo sbandite. Avrebbero i partigiani delle Immagini santificato cogli elogi l’assassinio di un empio tiranno; ma Michele II suo assassino, e successore, era sin dalla nascita affetto dell’eresie frigie volle interporre la sua mediazione fra le due Sette, e l’intrattabile contegno dei cattolici fece pendere la bilancia a poco a poco dall’altra parte. Per timidezza si mantenne nella moderazione; ma Teofilo, suo figlio, incapace del pari di timore e di compassione, fu l’ultimo e il più crudele degl’Iconoclasti. Allora erano sfavorevoli ad essi le disposizioni generali, e gl’Imperatori che vollero fermare il torrente, non conseguirono altro che l’odio pubblico. Morto Teofilo, una seconda moglie, Teodora sua vedova, a cui lasciò la tutela dell’Impero, finì il trionfo compiuto delle Im[p. 318 modifica]magini. I suoi provvedimenti furono arditi e decisivi. Per rimettere in onore la riputazione e salvar l’anima di suo marito, ebbe ricorso alla supposizione di un tardo pentimento. La punizion degl’Iconoclasti, che li condannava a perdere gli occhi, fu commutata in una flagellazione di duecento colpi di sferza; tremarono i Vescovi, mandarono grida di gioia i monaci, e la Chiesa cattolica celebra annualmente la festa del trionfo delle Immagini. Non rimaneva più da discutere che una quistione, cioè, se abbiano esse una santità loro propria ed inerente: se ne trattò dai Greci dell’undecimo secolo102, e quest’opinione è tanto assurda, che mi fa maraviglia il vedere che non sia stata ammessa in modo più positivo. Approvò Papa Adriano e pubblicò in Occidente i decreti del Concilio Niceno, rispettato oggi dai cattolici come il settimo dei Concilii ecumenici. Roma e l’Italia furono docili alla voce del lor Padre spirituale; ma la maggior parte dei cristiani della Chiesa latina rimasero in questo proposto molto addietro nella carriera della superstizione. [A. D. 794] Le Chiese di Francia, di Germania, d’Inghilterra, di Spagna s’apersero una strada fra l’adorazione e la distruzione delle Immagini, le quali da quei popoli sono ammirate ne’ lor templi, non come oggetti di culto, ma come cose atte a richiamare e conservar la memoria di qualche fatto che concerne la Fede. Comparve sotto il nome di Carlomagno un libro di controversia scritto collo [p. 319 modifica]stile della collera103 104. Si adunò a Francoforte sotto l’autorità di questo principe un Concilio di trecento Vescovi105. Questi biasimarono il furore degl’Iconoclasti, ma furon più severi nel censurare la superstizione dei Greci e i decreti del preteso loro Concilio, il quale fu lunga pezza vilipeso dai Barbari dell’Occidente106. Non fece il culto delle Immagini pres[p. 320 modifica]so di loro che progressi taciti ed impercettibili; ma la loro esitazione e i loro indugi furono bene espiati dalla grossolana idolatria dei secoli che precedettero la riforma, e da quella che regna in diverse contrade tanto dell’Europa che dell’America, tuttavia ottenebrate dalla caligine della superstizione.

Dopo il secondo Concilio di Nicea, e nel regno della pia Irene, avvenne che i Papi dando l’Impero a Carlomagno, assai meno ortodosso di lei, distaccarono dall’Impero d’Oriente Roma e l’Italia. Era mestieri scegliere fra due nazioni rivali; non fu la religione il solo motivo che prevalse: dissimulando i falli dei loro amici, vedeano con inquietudine e con ripugnanza le virtù cattoliche dei nimici; di già per la differenza di lingua e di costumi s’era perpetuata la nimistà delle due capitali, e settant’anni di scisma le avevano totalmente alienate una dall’altra. In questo spazio aveano i Romani assaporata la libertà, e i Papi la signorìa; se si fossero sottomessi si sarebbero esposti alla vendetta d’un despota geloso, e la rivoluzion dell’Italia avea già svelata l’impotenza ad un tempo e la tirannide della Corte bizantina. Aveano gl’Imperatori greci rimesse le Immagini, ma non restituiti i demanii della Calabrianota, nè le diocesi del- 107 [p. 321 modifica]l’Illiria108, usurpati dagl’Iconoclasti ai successori di San Pietro; e Papa Adriano li minacciò di scomunica se non abiuravano questa eresia pratica109. I Greci allora erano ortodossi, ma potea il monarca regnante infettar col suo soffio la lor religione; i Franchi comparivano restii; ma da un occhio acuto si potea facilmente scorgere che presto passerebbero dall’uso al culto delle Immagini. Il nome di Carlomagno avea la taccia del fiele polemico versato da’ suoi scrittori: ma quanto alle opinioni sue proprie s’uniformava il vincitore, con la pieghevolezza d’un uomo accorto, alle varie idee della Francia e dall’Italia. Nei quattro pellegrinaggi, o visite ch’egli fece al [p. 322 modifica]Vaticano, era sembrato e per affetto e per credenza unito coi Papi; s’era inginocchiato davanti alla tomba, e per conseguente davanti l’immagine di S. Pietro, e senza scrupolo avea partecipato alle orazioni e alle processioni della liturgia romana. Ma la prudenza e la gratitudine doveano forse impedire ai Pontefici di Roma lo scostarsi dal lor benefattore? Avean essi il diritto di vendere l’Esarcato ricevuto da lui? avean essi l’autorità d’abolirne a Roma il governo? Troppo inferiore al merito e alla grandezza di Carlomagno era il titolo di patrizio, e non avean essi altro modo di sdebitarsi con lui, o di raffermare il proprio Stato, fuor quello di rinnovare l’Impero d’Occidente. Quest’atto decisivo avrebbe per sempre annichilite le pretensioni dei Greci, e Roma si sarebbe sollevata dall’umiliante condizione di città provinciale per riprendere l’antica sua maestà; i cristiani della Chiesa latina sarebbero stati riuniti sotto un Capo supremo nella prisca metropoli, e avrebbero i vincitori dell’Occidente ricevuta la corona dalle mani dei successori di S. Pietro. Si procacciava la Chiesa romana un difensore zelante e formidabile, e sotto la protezione potente dei Carlovingi avrebbe da indi in poi potuto il Vescovo di Roma governare quella capitale con onore e con sicurezza110. [p. 323 modifica]

[A. D. 800] Prima della caduta del paganesimo, dalla concorrenza pel Vescovado di Roma, erano sovente nate turbolenze ed uccisioni. Nel tempo di cui parliamo era meno numerosa la popolazione, ma erano più rozzi i costumi, più rilevante il conquisto, e però dagli ecclesiastici ambiziosi, che aspiravano al grado di sovrani, era con furore disputata la Cattedra di S. Pietro. Il lungo regno d’Adriano I111 fu anche più lungo di quello de’ suoi predecessori, e dei Papi che vennero di poi112; trofei della sua gloria furono l’erezione delle mura della città di Roma, il Patrimonio della Chiesa, la distruzion dei Lombardi, l’amicizia di Carlomagno; innalzò segretamente il trono dei suoi successori, e in un picciolo teatro spiegò le virtù d’un gran principe. Fu rispettata la sua memoria; ma quando fu d’uopo sostituirgli un altro, fu preferito un sacerdote della Chiesa di Laterano, Leone III, al suo nipote ed al suo favorito, da lui investiti delle pri[p. 324 modifica]me dignità ecclesiastiche. Costoro, sotto la maschera della sommessione o della penitenza, dissimularono per quattr’anni gli orrendi loro disegni di vendetta; finalmente in una processione, un drappello di cospiratori furibondi, dopo aver dispersa una moltitudine inerme, si avventò alla sacra persona del Papa; che fu oppresso da colpi e da ferite. Voleano torgli la vita o la libertà; ma, fosse confusione o rimorso, non conseguirono l’intento. Leone, lasciato come morto sulla piazza, riavutosi dallo svenimento sofferto nel perdere il sangue, ricuperò la parola e la vista: e su questo accidente naturale fu poi fabbricata la storia miracolosa aver lui ricuperati gli occhi e la lingua, di cui l’avea privato due volte il ferro degli assassini113. Scampò dalla prigione, e si riparò nel Vaticano; volò il duca di Spoleto in suo soccorso; Carlomagno fu irritato da tanto misfatto, e il Pontefice di Roma, invitato da lui, o spontaneamente, andò a visitarlo nel campo di Paderborna in Vestfalia. Ripassò Leone le alpi, scortato da conti e da vescovi, che dovean difendere la sua persona, e sentenziare ch’egli era innocente; e non senza rincrescimento indugiò il vincitor dei Sassoni fino all’an[p. 325 modifica]no seguente d’andare esso stesso a compiere questo pio dovere in Roma. Vi si trasferì di fatto Carlomagno per la quarta ed ultima volta, e fu accolto cogli onori dovuti al re de’ Franchi, e al patrizio di quella capitale. Fu permesso a Leone di scolparsi col giuramento dai delitti imputatigli; i suoi nimici furon ridotti al silenzio, e troppo umanamente puniti furono coll’esilio i sacrileghi assassini che aveano cospirato contro la sua vita. Nel giorno di Natale dell’ultimo anno del secolo ottavo, si trasferì Carlomagno alla Basilica di S. Pietro: per satisfare alla vanità dei Romani avea cangiato l’abito semplice della sua nazione, in quello di patrizio di Roma114. Dopo la celebrazione dei Santi Misteri improvvisamente Leone pose sul capo del principe una corona preziosa115, e risonò la Chiesa di questa acclamazione „Lunga vita e vittoria a Carlo, piissimo Augusto, coronato dalla mano di Dio, grande e pacifico Imperator dei Romani„. Gli fu versato l’olio reale sulla testa e sul corpo. Secondo l’esempio de’ Cesari fu salutato e adorato dal Pontefice; nel giuramento della sua incoro[p. 326 modifica]nazione era inchiusa la promessa di mantener la Fede e i privilegi della Chiesa, e ne furono il primo frutto le ricche offerte che depose sulla tomba del Sant’Apostolo. Protestò per altro l’Imperatore, ne’ suoi colloqui famigliari, di avere ignorata l’intenzione del Papa; che se ne fosse stato consapevole, l’avrebbe delusa colla sua assenza; ma per altro gli apparecchi della cerimonia doveano averne palesato il secreto, e prova il viaggio di Carlomagno ch’egli s’aspettava questa incoronazione; egli avea confessato d’ambire il titolo d’Imperatore, e da un Sinodo tenuto in Roma era stato detto quello essere il solo guiderdone proporzionato al suo merito e a’ suoi servigi116.

[A. D. 768-814] Soventi volte fu dato il soprannome di Grande, e talora giustamente; ma non v’ha che Carlomagno per cui questo nobile epiteto sia stato indissolubilmente accoppiato al nome proprio. Questo nome è stato collocato nel calendario di Roma fra quello dei Santi; e, per una sorte ben rara, questo Santo ottenne gli elogi degli storici e dei filosofi d’un secolo illuminato117. È fuor di dubbio per altro, che il suo me[p. 327 modifica]rito reale risalta di più per la barbarie del secolo e della nazione sulla quale egli si sollevò; ma gli oggetti acquistano pure una grandezza apparente dal confronto della picciolezza di quelli che stan loro d’intorno, e alla nudità del deserto son debitrici le rovine di Palmira di gran parte della loro maestà. Io posso senz’ingiustizia notare alcune macchie sulla santità e la grandezza del restauratore dell’Impero occidentale. La continenza non è tra le sue virtù morali quella che risplenda di piùnota: per altro nove mogli o concubine, altri amorazzi meno osservati e meno durevoli, i tanti bastardi, che tutti furon da lui collocati nell’Ordine ecclesiastico, il lungo celibato e i licenziosi costumi delle sue figlienota, le quali, per quanto sembra, erano da lui amate più del dovere, 118 119 [p. 328 modifica]non avranno forse avuto conseguenze realmente funeste alla pubblica felicità. Appena si vorrà permettermi d’accusare l’ambizione d’un conquistatore; ma in un giorno di ricompense, i figli di Carlomano suo fratello, i principi Merovingi d’Aquitania, e i quattromila cinquecento Sassoni decapitati nel luogo medesimo, avrebbero qualche rimprovero da fare alla giustizia e all’umanità di Carlomagno. Il trattamento che soffersero i Sassoni120 fu un abuso del dritto della vittoria. Le sue leggi non furono men sanguinarie delle sue armi, e nell’esame de’ suoi motivi tutto quello che non si attribuisce alla superstizione debbe essere imputato al suo naturale. Il lettor sedentario stupisce dell’instancabile attività dello spirito e del corpo di quel gran principe; e i suoi sudditi erano sorpresi del pari che i suoi nemici delle subitanee comparse, con cui veniva lor sopra, quando lo credeano nelle contrade più lontane dell’Impero. Non riposava nè in tempo di pace, nè in tempo di guerra; non nel verno, non nella state; e la nostra immaginazione non sa facilmente conciliare gli annali del suo regno colle particolarità geografiche delle sue spedizioni. Ma quella prontezza era una virtù nazionale piut[p. 329 modifica]sto che personale: a que’ giorni il Francese passava la sua vita vagabonda alla caccia, in pellegrinaggi, o in avventura militari; nè differivano i viaggi di Carlomagno se non per una serie più numerosa di corse, e per un oggetto più rilevante. A ben giudicare della fama, che ottenne nel mestiere dell’armi, è d’uopo considerare quali fossero le sue soldatesche, i suoi nemici e le azioni sue. Alessandro fece i suoi conquisti coi soldati di Filippo; ma i due eroi, che avean preceduto Carlomagno, gli lasciarono in eredità col nome gli esempli loro, ed i compagni delle lor vittorie. Con queste vecchie milizie, di gran lunga più numerose, sconfisse egli nazioni selvagge o tralignate, inette a riunirsi per la sicurezza comune; e giammai non ebbe a combattere un esercito ugualmente copioso, o paragonabile al suo per armi o per disciplina. La scienza della guerra s’è perduta e ravvivata colle arti della pace; ma le campagne non sono state illustrate da verun assedio o da veruna battaglia molto difficile, o di successo molto strepitoso; e dovette con occhio d’invidia vedere i trionfi del suo avo sui Saracini. Dopo la sua corsa di Spagna, il suo retroguardo fu sbaragliato nei Pirenei; e i suoi soldati, che vedeansi in un cimento irreparabile e dove il valore era inutile, poterono morendo accusare il lor Generale di poca abilità o circospezione121. Con tutto il rispetto farò un cen[p. 330 modifica]no delle leggi di Carlomagno, tanto lodate da un giudice sì rispettabile. Le quali non formano già un sistema, ma una serie d’editti minuziosi pubblicati secondo i bisogni del momento per la correzion degli abusi, la riforma dei costumi, l’economia dei suoi possedimenti, la cura del suo pollame, ed anche la vendita delle sue uova. Volea migliorare la legislazione, e l’indole dei Francesi, e meritano elogio i suoi tentativi comecchè deboli ed imperfetti: sospese o alleviò colla sua amministrazione i mali inveterati che gravitavano sul suo secolo122; ma nelle sue instituzioni non so scorgere che di rado le mire generali e lo spirito immortale d’un legislatore, che sopravvive a sè stesso pel bene della posterità. L’unione e la fermezza del suo Impero dipendevano dalla sua vita unicamente: egli seguì l’usanza pericolosa di dividere il regno tra i figli, e dopo le tante Diete che tenne lasciò tutti i punti della Costituzione incerti, fra i disordini dell’anarchia e quei del dispotismo. Fu sedotto da’ suoi riguardi per la pietà e pei lumi del clero a porre fra le mani di questo Ordine ambizioso i demanii temporali, e una giurisdizione civile; e quando Luigi suo figlio fu accusato e deposto dal trono per opera de’ Vescovi, potea aver qualche dritto di accagionarne l’imprudenza del padre. Ingiunse colle sue leggi il pagamento della decima perchè i demonii avevano gridato per aria, che una penuria di grani era succeduta per motivo che non [p. 331 modifica]s’era pagata la decima123. Il suo gusto per le lettere è provato dalle scuole che fondò, dalle arti che introdusse ne’ suoi Stati, dalle Opere pubblicate col suo nome, e dal suo commercio familiare con quei sudditi e forestieri che chiamò alla sua Corte, affinchè attendessero alla sua educazione e a quella del suo popolo. Tardivi furono i suoi studii, laboriosi ed imperfetti: se parlava il latino, e se intendeva il greco, aveva apparato più nel conversare che sui libri ciò che ne sapea di queste due lingue; e solo in età matura s’ingegnò il sovrano dell’Impero Occidentale di familiarizzarsi coll’arte dello scrivere, che oggi sin dall’infanzia è conosciuta da tutti i paesani124. Allora non si studiava la grammatica, la logica, l’astronomia, la musica che per farne uso in servigio della superstizione; ma la curiosità dello spirito umano debbe finalmente perfezionarlo, e gl’incoraggiamenti dati alle scienze sono i più puri e i [p. 332 modifica]più bei raggi della gloria di cui si cinse il carattere di Carlomagno125. La sua figura maestosa126, il lungo suo regno, la prosperità delle sue armi, la forza della sua amministrazione, gli omaggi che gli tributarono le nazioni lontane lo sollevano sopra la turba dei Re; e la rinnovazione dell’Impero d’Occidente, ristabilito da lui, incominciò una nuova epoca per l’Europa.

Ben era degno quest’Impero del suo titolo127; ed il principe che per diritto d’eredità o di conquista regnava ad un’ora sulla Francia, sulla Spagna, sull’Italia, sulla Germania, sull’Ungheria, potea considerarsi come possessore della maggior parte de’ più bei reami d’Europa128. I. La provincia romana della Gal[p. 333 modifica]lia era divenuta la monarchia di Francia; ma nel decadere della linea dei Merovingi ne furono ristretti i limiti dall’independenza de’ Bretoni e dalla rivolta dell’Aquitania. Carlomagno incalzò i Bretoni sino alle rive dell’Oceano, confinò sulle coste quella feroce tribù, per l’origine e pel dialetto tanto rimota dai Francesi, e per gastigo le impose tributi, ne trasse ostaggi, e obbligolla alla pace. Dopo lungo contrasto, la provincia d’Aquitania fu confiscata, e i suoi Duchi perdettero libertà e vita. Sarebbe stata questa una punizione troppo rigorosa per governatori ambiziosi, rei soltanto d’aver voluto troppo imitare i Prefetti del Palazzo; ma una carta non guari scoperta129 prova che quelli erano gli ultimi discendenti di Clodoveo, e i legittimi eredi della sua corona per parte d’un ramo cadetto proveniente da un fratello di Dagoberto. Era ridotto l’antico loro regno al Ducato di Guascogna, colle contee di Fesenzac e d’Armagnac, situate alle falde de’ Pirenei; se ne propagò la razza fino al cominciamento del sesto secolo; e sopravvissero ai Carlovingi, loro oppressori, per provare [p. 334 modifica]l’ingiustizia o il favore d’una terza dinastia. Unendo a sè l’Aquitania acquistò la Francia quell’estensione, che oggi conserva, aggiugnendovi i Paesi Bassi sino al Reno; II. I Saracini erano stati cacciati di Francia dal padre e dall’avo di Carlomagno; ma rimanevano padroni della maggior parte della Spagna, dalla rupe di Gibilterra fino ai Pirenei. Nel tempo delle lor dissensioni civiche, un Arabo, l’Emir di Saragossa, andò alla Dieta di Paderborna a implorar la protezione dell’Imperatore. Carlomagno si trasferì in Ispagna, ripose in carica l’Emir, e senza far distinzione, tra le varie credenze, oppresse i cristiani che vollero resistere, e premiò l’obbedienza e i servigi de’ Musulmani. Indi partendo, statuì la Marca spagnuola130 che si prolungava dai Pirenei sino alla riviera dell’Ebro: il governator francese presedeva in Barcellona e reggeva le contee di Rossiglione e di Catalogna, e i piccioli regni d’Aragona e di Navarra soggiacevano alla sua giurisdizione; III. come Re dei Lombardi, e patrizio di Roma, Carlomagno governava la maggior parte dell’Italia131, la quale dalle Alpi fino alle frontiere della Calabria aveva un’estensione di mille miglia. Il Ducato di Benevento, feudo lombardo, erasi [p. 335 modifica]a spese dei Greci allargato su tutto il paese che forma oggi il regno di Napoli. Ma il Duca allora regnante, Arrechis, non volle partecipare alla servitù del suo paese; si dichiarò principe independente, e oppose la sua spada alla monarchia Carlovingia. Si difese egli con fermezza, nè fu senza gloria la sua sommessione; l’Imperatore si contentò ad esigerne un tributo modico, la demolizion delle Fortezze, e l’obbligo di riconoscere nelle sue monete la superiorità d’un Signore. Grimoaldo, figlio d’Arrechis, lusingando Carlomagno, e scaltramente onorandolo col nome di padre, sostenne del pari la propria dignità con prudenza, e a poco a poco Benevento si sottrasse al giogo francese132. IV. Carlomagno è il primo che sotto lo stesso scettro tenesse la Germania. Il nome di Francia orientale sussiste nel Circolo di Franconia; e per la conformità di religione e di governo s’erano recentemente incorporati gli abitanti dell’Assia e della Turingia alla nazion dei vincitori. Gli Alemanni, sì formidabili a Roma, eran divenuti i fidi vassalli e gli alleati dei Franchi, e il lor paese abbracciava il territorio dell’Alsazia, della Svevia e della Svizzera. I Bavaresi, a cui pure si lasciavano le leggi e i costumi patrii, erano più intolleranti di dominio estero; le continue tradigioni del lor Duca Tasillo giustificarono l’abolizione della sovranità ereditaria, e fu divisa l’autorità dei Duchi fra i conti che doveano custodire ad un tempo quella rilevante frontiera francese, ed esercitarvi l’officio di giudici. Ma la parte settentrionale dell’Alemagna, che dal [p. 336 modifica]Reno s’estende oltre l’Elba, era sempre nemica e pagana, e solo dopo una guerra di trentatre anni abbracciarono i Sassoni il cristianesimo, e furono soggetti a Carlomagno. Si discussero gl’idoli e i loro adoratori: la fondazione dei vescovadi di Munster, di Osnabruck, di Paderborna, di Minden, di Brema, di Verden, d’Hildesheim e d’Halberstadt, segnò dalle due rive del Veser i confini della Sassonia antica: formarono quei vescovadi le prime scuole e le prime città di quella terra selvaggia, e così la religione e l’umanità instillate ai fanciulli espiarono in qualche modo la strage dei padri. Al di là dell’Elba, gli Slavi, o Schiavoni, popoli di conforme costume, benchè diversi di nome, occupavano il territorio, che oggi forma la Prussia, la Polonia, la Boemia; e da qualche indizio di temporaria obbedienza furon condotti gli Storici francesi a prolungare l’Impero di Carlomagno fino al Baltico ed alla Vistola. È più recente il conquisto o la conversion di quel paese; ma si può riferire alle armi di quel principe la prima congiunzione della Boemia al Corpo Germanico. V. Agli Avari o Unni della Pannonia rendette le calamità, onde avean essi aggravate le nazioni, e dal triplice sforzo d’un esercito francese, che penetrò nella loro contrada per terra e pei fiumi, attraversando i monti Carpazii che ingombrano per lo lungo la pianura del Danubio, furono atterrate le fortificazioni dei boschi che ne cingeano i distretti e i villaggi. Dopo una lotta sanguinosa di otto anni, fu colla strage dei loro Nobili primarii vendicato l’eccidio d’alcuni Generali francesi: il resto della nazione si sottomise. Fu devastata e al tutto distrutta la reggia dal Chagan, e i tesori accumulati in due [p. 337 modifica]secoli a mezzo di rapine arricchirono le milizie vittoriose, o andarono ad ornare le Chiese dell’Italia e della Gallia133. Dopo l’assoggettamento della Pannonia, non ebbe l’Impero di Carlomagno altri confini che il confluente del Danubio, della Teyss e della Sava: acquistò senza fatica, ma con poco profitto, le province d’Istria, di Liburnia e di Dalmazia; e per un effetto della sua moderazione soltanto, rimasero i Greci possessori, veri o titolari, delle città marittime; ma l’acquisto di que’ paesi rimoti giovò più alla sua fama che alla sua potenza, e non ebbe il coraggio di avventurare qualche fondazione ecclesiastica per togliere i Barbari alla lor vita vagabonda, ed all’idolatria. Non fece che pochi tentativi per aprire qualche canale di comunicazione tra la Sonna e la Mosa, il Reno e il Danubio134. Questo divisamento se fosse stato compiuto avrebbe dato vita all’Impero; e in vece Carlomagno sprecò spesse volte, nel costruire una cattedrale, più denari e lavori di quelli che avrebbe costato sì fatta impresa. [p. 338 modifica]

Raffrontando i grandi tratti di questa dipintura geografica si vedrà, che l’Impero dei Francesi si estendeva fra l’Oriente e l’Occidente dall’Ebro all’Elba, o alla Vistola; fra il Settentrione e il Mezzodì, dal Ducato di Benevento alla riviera d’Eyder, che ha sempre separata la Germania e la Danimarca. Lo stato di miseria e la divisione del rimanente dell’Europa davan maggiore risalto personale e politico a Carlomagno. Gran numero di principi, d’origine Sassone o Scozzese, si contendeano fra loro le isole della Gran Brettagna e dell’Irlanda; e dopo la perdita della Spagna il regno dei Goti cristiani, governati da Alfonso il Casto, fu limitato da un’angusta catena dei monti delle Asturie. Riverivano quei regoli la potenza o la virtù del monarca Carlovingio; imploravano l’onore e la protezione della sua alleanza, lo nomavano padre comune, sommo e supremo Imperatore dell’Occidente135. Trattò più da pari a pari col Califfo Harun al Rascid136, i cui Stati andavano dall’Affrica fino all’India, e dagli ambasciatori di questo principe ricevette una tenda, un oro[p. 339 modifica]logio da acqua, un elefante e le chiavi del Santo Sepolcro. Non è agevol cosa a comprendere la personale amicizia d’un Francese e d’un Arabo che non si eran veduti giammai, e che aveano sì diverso il linguaggio e la religione; ma quanto al loro carteggio pubblico era fondato sulla vanità; e la lontananza dell’uno dall’altro non permetteva che i loro interessi potessero trovarsi in concorrenza. Furono soggetti a Carlomagno i due terzi dell’Impero posseduto da Roma nell’Occidente, ed egli era ben compensato della parte che gliene mancava col dominio di nazioni inaccessibili e indomabili della Germania; ma nello scegliere i suoi amici fa maraviglia ch’egli preferisse sì spesso la povertà del Settentrione alle ricchezze del Mezzodì. Le trentatre campagne che fece con tante fatiche nelle foreste e nei paduli della Germania, avrebbero bastato a cacciare d’Italia i Greci, di Spagna i Saracini, e a procacciargli così tutto l’Impero di Roma. La debolezza dei Greci gli prometteva sicura e facile vittoria; la gloria e la vendetta avrebbero mosso i sudditi ad una Crociata contro i Saracini, la quale avrebbe avuto i suffragi della religione e della politica. È probabile che nelle sue imprese al di là del Reno e dell’Elba avesse in mira di sottrarre la sua monarchia al destino dell’Impero romano, di disarmare i nemici delle culte nazioni, e di sterpare i germi delle trasmigrazioni future. Ma fu saggiamente osservato dover le conquiste di precauzione essere universali per conseguire l’intento, avvegnachè allargando la sfera delle conquiste, non si fa che ingrandire il circolo de’ nemici intorno alle proprie frontiere137. Coll’assoggettar la Germania s’aperse il [p. 340 modifica]velo che sì lungamente aveva celato all’Europa il Continente o sia le isole della Scandinavia; si risvegliò allora in que’ barbari abitanti il sopito valore. Gl’idolatri della Sassonia che aveano più energia, scamparono dalle mani dell’oppressore cristiano, e cercarono un asilo nel Settentrione; ingombrarono di corsari l’Oceano e il Mediterraneo, ed ebbe Carlomagno il dolore di scorgere i funesti progressi dei Normanni, che in meno di settant’anni di poi accelerarono la ruina della sua razza, non che della sua monarchia.

[A. D. 814-887] Se il Papa e i Romani avessero rinnovata la primitiva costituzione, non avrebbe Carlomagno goduto che in vita i titoli d’Imperatore e d’Augusto, e sarebbe stato necessario, ad ogni vacanza, che con una elezione formale o tacita fosse collocato sul trono ogni successore; ma nell’associare all’Impero suo figlio, Luigi il Buono, statuì i suoi diritti d’independenza, come monarca e come conquistatore; e pare che in quella occasione scorgesse e prevenisse le occulte pretensioni del clero. [A. D. 813] Ordinò al giovine principe di pigliar la corona sull’altare, e di porsela in capo da sè, come un dono che gli veniva da Dio, da suo padre e dalla nazione138. Di poi, quando furono associati all’Imperio Lotario e Luigi II, si [p. 341 modifica]ripetè la stessa cerimonia, ma con minore pubblicità; passò lo scettro de’ Carlovingi di padre in figlio per quattro generazioni, e l’ambizione dei Papi fu ridotta alla sterile onorificenza di dar la corona e l’unzione reale a quei principi ereditari di già investiti del potere, e possessori dei loro Stati. [A. D. 814-840] Luigi il Buono sopravvisse ai fratelli, e unì sotto il suo scettro tutto l’Impero di Carlomagno; ma presto i popoli e i Nobili, i Vescovi e i suoi figli s’avvidero, che quel gran Corpo non era avvivato dalla stessa anima di prima, e che i fondamenti erano scassinati nel centro, mentre la esterna superficie sembrava tuttavia bella e intatta. Dopo una guerra o una battaglia in cui perirono centomila Francesi, fu da un trattato di divisione partito l’Impero fra i suoi tre figli, che aveano mancato a tutti i doveri figliali e fraterni. [A. D. 840-856] I reami della Germania e della Francia furono per sempre separati; Lotario, a cui fu dato il titolo d’Imperatore, s’ebbe le province della Gallia fra il Rodano, le Alpi, la Mosa e il Reno. Quando poscia fu divisa la sua porzione tra i suoi figli, la Lorena e Arles, due piccioli regni fondati poco prima, e che poco durarono, furono il retaggio de’ suoi due figli più giovani. Luigi II il maggiore fu contento del regno d’Italia, patrimonio naturale e bastante ad un Imperatore di Roma. Morì senza figli maschi, ed allora i suoi zii e i cugini si contesero il trono: i Papi afferrarono destramente questa occasione per farsi giudici delle [p. 342 modifica]pretensioni o del merito de’ candidati, e per dare al più docile o al più liberale l’imperial dignità di avvocato della Chiesa romana. Non s’incontra più nei miserabili avanzi della grande stirpe Carlovingia la menoma apparenza di virtù o di potere, e solo dai ridicoli soprannomi di Calvo, di Balbo, di Grosso, di Semplice sono caratterizzati i tratti nobili ed uniformi di questa folla di Re, tutti ugualmente degni dell’obblivione. L’estinzione dei rami materni trasmise l’intera eredità a Carlo il Grosso, ultimo Imperatore della sua famiglia: dalla debolezza del suo ingegno derivò la diffalta della Germania, dell’Italia e della Francia: fu deposto in una Dieta e ridotto a mendicare il pane giornaliero da’ ribelli, il disprezzo de’ quali gli avea lasciata la libertà e la vita. [A. D. 888] I Governatori, i Vescovi ed i Signori, ciascheduno secondo le sue forze, usurparono qualche frammento dell’Impero che andava in ruina; si usò qualche preferenza a coloro, che per parte di donne o di bastardi discendeano da Carlomagno. Erano ugualmente incerti il titolo e il possesso della maggior parte di questi competitori, e il loro merito pareva adeguato alla poca estensione de’ loro dominii. Quelli che poterono comparire con un esercito davanti alle porte di Roma furono coronati Imperatori nel Vaticano; ma fu paga il più delle volte la loro modestia del solo titolo di Re d’Italia; e si può considerare come un interregno lo spazio di settantaquattr’anni trascorsi dall’abdicazione di Carlo il Grosso, sino all’esaltamento di Ottone I.

[A. D. 896] Ottone139 apparteneva al nobile lignaggio dei [p. 343 modifica]Duchi di Sassonia, e se è vero che discendesse da Vitichindo, già nemico e poi proselito di Carlomagno, la posterità del popolo vinto giunse in fine a regnare sui vincitori. Enrico l’Uccellatore, suo padre, eletto dal suffragio della sua nazione avea salvato, e su salde basi fondato il regno della Germania. Il figlio d’Enrico, il primo e il più grande degli Ottoni, allargò d’ogni lato i confini di quel reame140. Fu aggiunta alla Germania quella porzion della Gallia che all’Occidente del Reno costeggia le sponde della Mosa e della Mosella, i cui popoli, fin dai tempi di Cesare e di Tacito, avean co’ Germani molta somiglianza di linguaggio e di temperamento. I successori d’Ottone acquistarono tra il Reno, il Rodano e le Alpi una vana supremità sopra i regni di Parigi, di Borgogna e d’Arles. Dalla parte del Settentrione, il cristianesimo fu propagato dalle armi d’Ottone, vincitore ed apostolo delle nazioni Schiavone dell’Elba e dell’Oder; con varie colonie d’Alemanni fortificò le Marche di Brandeburgo e di Schleswik; il Re di [p. 344 modifica]Danimarca, ed i duchi di Polonia e di Boemia si dichiararono suoi vassalli e tributari. Valicò egli le Alpi con un esercito vittorioso, soggiogò il regno d’Italia, liberò il Papa e congiunse per sempre la corona imperiale al nome ed alla nazione dei Germani. Da quell’epoca memoranda s’introdussero due massime di giurisprudenza pubblica fondate dalla forza, e ratificate dal tempo; I che il principe eletto in una Dieta di Alemagna acquistava ad un tempo i regni subordinati dell’Italia e di Roma; II ma che non poteva legalmente qualificarsi per Imperatore ed Augusto prima di ricevere la corona dalle mani del romano Pontefice141.

Il nuovo titolo di Carlomagno fu annunziato in Oriente dal cangiamento di stile nello scrivere; fu sostituito il titolo di padre che gli davano gl’Imperatori greci a quello di fratello, simbolo d’uguaglianza e di famigliarità142. Forse ne’ suoi carteggi con Irene aspirava al titolo di sposo: i suoi ambasciatori a Costantinopoli parlarono il linguaggio della pace e dell’amicizia; e il fine segreto della lor missione fu quello per avventura di trattar un matri[p. 345 modifica]monio con quell’ambiziosa principessa, che aveva abiurato tutti i doveri di madre. Non è possibile il congetturare quale sarebbe stata la qualità, la durata e le conseguenze di tal unione fra due Imperi così lontani ed estranei l’uno all’altro; ma dal silenzio concorde dei Latini si debbe argomentare che la nuova di questo trattato di matrimonio fosse inventata dai nimici d’Irene, per porle addosso il delitto d’aver voluto dar la Chiesa e lo Stato in balìa dei popoli dell’Occidente143. Gli ambasciatori di Francia furon testimoni della cospirazion di Niceforo e dell’odio nazionale, e per poco ebbero a divenirne le vittime. Fu irritata Costantinopoli dal tradimento e sacrilegio dell’antica Roma; e ogni bocca ripetea quel proverbio „che i Francesi eran buoni amici, e cattivi vicini„; ma doveasi temere di provocar un vicino che poteva esser tentato a rinnovare nella Chiesa di Santa Sofia la cerimonia della sua incoronazione. Dopo un viaggio disastroso, lunghi andirivieni, e molti indugi gli ambasciatori di Niceforo trovarono Carlomagno nel suo campo sulle sponde della Saal; il quale per confondere la lor vanità dispiegò in un villaggio di Franconia tutta la pompa, o per lo meno tutto il fasto della reggia Bizantina144. Passarono i Greci per quattro sale d’udien[p. 346 modifica]za; nella prima stavan già per prostrarsi davanti un personaggio magnificamente vestito, seduto sopra un alto seggio, quando egli avvisolli, esser lui soltanto il Contestabile o maestro de’ cavalli, cioè un servo del principe. Fecero uno sbaglio simile, ed ebbero la stessa risposta, nelle tre stanze successive ove stavano il Conte del palazzo, l’Intendente e il gran Ciamberlano. Essendosi così raddoppiata in essi la impazienza, finalmente fu aperta la porta della camera ove era Carlomagno, e videro il monarca attorniato da tutto lo sfarzo di quel lusso straniero ch’egli spregiava, e dall’amore, e dal rispetto de’ suoi capitani vittoriosi. Conchiusero i due Imperi un trattato di pace e d’alleanza, e fu deciso che ciascuno serberebbe i dominii che possedeva; ma i Greci145 dimenticaron ben presto quest’umiliante uguaglianza, o non se ne ricordarono che per detestare i Barbari che li aveano obbligati a riconoscerla. Fino a tanto che furono congiunti in un uomo il potere e le virtù, salutarono ossequiosamente l’augusto Carlomagno, dandogli i titoli di Basileus, e d’Imperatore de’ Romani. Come tosto coll’esaltamento di Luigi il Pio, queste due qualità furono disgiunte, si videro nella soprascritta delle lettere della Corte di Bizanzio queste parole „Al Re, o come [p. 347 modifica]egli stesso si qualifica, all’Imperatore dei Francesi e dei Lombardi„. Quando più non videro nè potere, nè virtù, tolsero a Luigi II il suo titolo ereditario, e dandogli la barbara denominazione di rex o rega, lo relegarono nella turba dei Principi latini. La sua risposta146 ne dimostra la debolezza; provando con molta erudizione, che nella storia sagra e profana il nome di Re è sinonimo della parola greca Basileus; e soggiungendo, che se a Costantinopoli viene preso in un significato più esclusivo e più augusto, egli ricevè da’ suoi antenati e dal Papa il giusto diritto di partecipare agli onori della porpora romana. Ricominciò la stessa disputa nel regno degli Ottoni, l’ambasciatore dei quali dipinge con vivi colori l’insolenza della Corte di Costantinopoli147. Affettavano i Greci molto disprezzo per la povertà e l’ignoranza de’ Francesi e de’ Sassoni; e, ridotti all’estremo avvilimento, ricusavano ancora di prostituire il titolo d’Imperatori romani ai Re della Germania.

Gl’Imperatori d’Occidente continuavano ad inge[p. 348 modifica]rirsi nell’elezione dei Papi, come già facevano prima arbitrariamente i principi Goti e gl’Imperatori greci; e il valore di questa prerogativa crebbe coi dominii temporali, e colla giurisdizione spirituale della Chiesa romana. [A. D. 800-1060] Secondo la costituzione aristocratica del clero, i suoi membri primari formavano un Senato che cooperava all’amministrazione de’ suoi Consigli e nominava al vescovado, quand’era vacante. Ventotto erano le parrocchie in Roma, ed ognuna era governata da un Cardinale prete o presbitero, titolo modesto nella sua origine, ma che poi volle uguagliarsi alla porpora dei Re. Il numero dei membri di questo Consiglio venne crescendo coll’associazione dei sette Diaconi degli spedali più considerevoli, dei sette giudici del palazzo di Laterano, e di alcuni dignitari della Chiesa. Questo Senato era diretto da sette Cardinali vescovi della Provincia romana, i quali non attendeano tanto alle lor diocesi d’Ostia, di Porto, di Velletri, di Tuscolo, di Preneste, di Tivoli, e del paese de’ Sabini, situati, può dirsi, ne’ sobborghi di Roma, quanto al servigio settimanale nella Corte del Papa, e alla premura d’ottenere una maggior parte degli onori e dell’autorità della Sede apostolica. Morto il Papa, questi Vescovi indicavano al Collegio de’ Cardinali quello che doveano eleggere per successore148; [p. 349 modifica]e dagli applausi o dagli schiamazzi del popolo romano era approvata o rigettata la scelta. Ma dopo il suffragio del popolo era ancor imperfetta l’elezione; e per consecrar legalmente il Pontefice era d’uopo che l’Imperatore, come avvocato della Chiesa, avesse data l’approvazione e l’assenso. Il Commissario imperiale esaminava sul luogo la forma e la libertà dell’elezione, e solamente dopo aver ben disaminate le qualificazioni degli Elettori, ricevea il giuramento di fedeltà, e confermava le donazioni che aveano successivamente arricchito il Patrimonio di San Pietro. Se sopravveniva uno Scisma, e di frequente ne accadevano, si sottometteva il tutto al giudizio dell’Imperatore, il quale in mezzo a un Sinodo di Vescovi osò giudicare, condannare e punire un Pontefice delinquente. Si obbligarono il senato ed il popolo, in un trattato con Ottone I, di eleggere quel candidato che più a sua maestà fosse aggradevole149: i suoi successori anticiparono o prevennero i loro suffragi: diedero al proprio Cancelliere il Vescovado di Roma, non che quelli di Colonia e di Bamberga; e qualunque pur fosse il merito d’un Francese o d’un Sassone, prova il suo nome abbastanza l’intro[p. 350 modifica]missione d’una Potenza straniera. I disordini d’un’elezion popolare erano per questi atti autorevoli una scusa assai speciosa. Il competitore, escluso dai Cardinali, si appellava alle passioni o alle venalità della plebe: il Vaticano e il Palazzo di Laterano furono imbrattati d’assassinii, e i senatori più potenti, i Marchesi di Toscana e i conti di Tuscolo tennero in lungo servaggio la Sede apostolica. I Papi del nono e decimo secolo, furono insultati, incarcerati, assassinati dai lor tiranni; e quando erano spogliati dei demanii dipendenti dalla loro Chiesa, tant’era la lor indigenza, che non potevano sostenere la condizione d’un principe non solo, ma neppure esercitare la carità d’un sacerdote150. La riputazione ch’ebbero allora due sorelle prostitute, Marozia e Teodora, era fondata su le ricchezze e l’avvenenza loro, sui loro raggiri amorosi o politici; la mitra romana era il guiderdone dei più instancabili dei loro amanti, e il loro regno151 ha potuto152 nei [p. 351 modifica]secoli d’ignoranza dar origine alla favola153 d’una Papessa154. Un bastardo di Marozia, un suo nipote e un pronipote, discendenti dal bastardo (genealo- [p. 352 modifica]gia veramente singolare!) salirono la Cattedra di San Pietro, ed aveva l’età di diciannov’anni il secondo degli anzidetti, quando divenne Capo della Chiesa latina. Giunto alla maturità degli anni corrispose all’aspettazione che avea dovuto dare di sè in gioventù; e la folla de’ pellegrini che concorrevano a Roma poteva attestar la verità delle accuse fattegli in un Sinodo romano, e alla presenza d’Ottone il Grande. Dopo avere rinunciato all’abito e al decoro della sua dignità, potea Papa Giovanni XI, nella sua qualità di soldato, non avere taccia per gli eccessi nel bere, per gli omicidii, per gl’incendii, per la smodata passione del giuoco e della caccia: poteano i suoi Atti pubblici di simonìa essere una conseguenza della sua ristrettezza; e supposto che abbia invocato, come è fama, Giove e Venere, potea essere questa una facezia; ma noi veggiamo con istupore questo degno nipote di Marozia vivere pubblicamente in adulterio colle Matrone romane; il palazzo Lateranense trasformato in un postribolo, e lo svergognato Papa, tiranno del pudore delle vergini e delle vedove, il quale impediva così alle donne di andare in pellegrinaggio al sepolcro di San Pietro, ov’elle avrebbero corso rischio, in quell’atto di divozione, d’essere violate155 da quel successor dell’aposto[p. 353 modifica]lo156. Hanno insistito con maligno diletto i protestanti su questi segni di somiglianza coll’anticristo; ma agli occhi d’un filosofo son men pericolosi i vizi del clero che le virtù del medesimo. Dopo lunghi scandoli fu purificata e rialzata la Sede apostolica dall’austerità e dallo zelo di Gregorio VII. [A. D. 1075] Questo frate ambizioso157 passò tutta la sua vita meditando, e regolando l’esecuzione de’ suoi gran disegni, il primo de’ quali era [p. 354 modifica]fissare nel Collegio de’ Cardinali la libertà e l’independenza della elezione del Papa, e per sempre togliervi l’intervento, o legittimo o usurpato, degl’Imperatori, e del popolo romano; il secondo di dare e riprendere l’Impero d’Occidente come un feudo, o benefizio158 della Chiesa, e a stendere il suo dominio temporale sopra i re, e sopra i reami della terra. Dopo cinquant’anni di combattimenti, la prima di queste operazioni fu condotta ad effetto mercè dell’Ordine ecclesiastico, la libertà del quale andava congiunta a quella del Capo; ma la seconda, non ostante qualche buon esito apparente o parziale, trovò nella potestà civile una gran resistenza, e fu impedita da’ progressi dell’umana ragione.

Quando risorse l’Impero di Roma, nè il suo Vescovo nè il popolo poteano dare a Carlomagno o ad Ottone le province, perdute per la sorte dell’armi come erano state acquistate; ma i Romani aveano la facoltà d’eleggersi un padrone, e l’autorità delegata al patrizio fu irrevocabilmente conferita agl’Imperatori francesi e sassoni. Gli annali imperfetti di que’ tem- [p. 355 modifica]pi159 ci serbarono qualche memoria del palazzo, della moneta, del tribunale, degli editti di que’ principi, e della giustizia esecutiva, che sin al decimo-terzo secolo era dal Prefetto di Roma esercitata in virtù de’ poteri conferitigli da’ Cesari160; ma infine per gli artificii de’ Papi e per la violenza del popolo, questa sovranità degl’Imperatori fu soppressa. I successori di Carlomagno, paghi de’ titoli d’Imperatore e d’Augusto, non posero cura nel mantenere quella giurisdizione locale; ne’ tempi prosperi, era l’ambizione loro pasciuta d’idee più lusinghiere, e nella decadenza e division dell’Impero i lor pensieri furono del tutto assorti da quello di difendere le province ereditarie. [A. D. 932] In mezzo a’ disordini dell’Italia, la famosa Marozia indusse uno degli usurpatori a sposarla, e la sua fazione guidò Ugo, re di Borgogna, entro la Mole d’Adriano, ossia Castello Sant’Angelo, che domina il ponte principale, ed uno degli ingressi di Roma. Suo figlio Alberico, ch’ella ebbe da uno de’ suoi primi mariti, fu astretto a servire al banchetto nuziale; il suo suocero sdegnato della ripugnanza manifesta con cui quegli adempieva tale ufficio gli diede una percossa. Questa originò una rivoluzione. „Romani, gridò il giovanetto, voi eravate un tempo i signori del Mondo, e questi Borgo[p. 356 modifica]gnoni erano allora i più abietti fra i vostri schiavi. Ed oggi regnano, que’ selvaggi voraci e brutali, e l’oltraggio ch’io ricevetti è il principio della vostra servitù„161. Sonarono le campane a stormo; corse il popolo all’armi da tutti i quartieri della città, e i Borgognoni fuggirono a precipizio svergognati e atterriti. Il vincitore Alberico cacciò in un carcere sua madre Marozia, e ridusse suo fratello, Papa Giovanni XI, all’esercizio del suo ministero spirituale. Governò Roma per più di vent’anni col titolo di principe, e dicesi che per assecondare i pregiudizi del popolo, rinnovò l’officio, o almeno il nome de’ Consoli, e de’ Tribuni. Ottaviano, suo figlio ed erede, prese col Pontificato il nome di Giovanni XII: tribolato come il suo predecessore da’ principi Lombardi cercò un difensore che potesse liberare la Chiesa e la Repubblica, e quindi la dignità imperiale divenne il guiderdone de’ servigi d’Ottone; ma il Sassone era prepotente, e intolleranti i Romani. La festa dell’incoronazione fu turbata dalle secrete dispute suscitate per una parte dalla gelosia del potere, per l’altra dal desiderio di libertà. Temendo Ottone d’essere assalito, e assassinato al piè dell’altare, ordinò al suo Porta-spada di non iscostarsi dalla sua persona162. [A. D. 967] Prima di ripassare le Alpi, l’Imperatore punì [p. 357 modifica]la rivolta del popolo, e l’ingratitudine di Giovanni XII. Il Papa fu deposto dalla Sede in un Sinodo; il Prefetto a cavallo d’un asino fu frustato per tutti i quartieri della città, poi cacciato nel fondo d’un carcere; tredici cittadini de’ più colpevoli spirarono su le forche, altri furono mutilati e sbanditi, e servirono le antiche leggi di Teodosio e di Giustiniano a giustificare tanta severità di gastighi. Ottone II dalla voce pubblica fu accusato d’avere con una atrocità pari alla perfidia fatto trucidare alcuni Senatori, da lui invitati a pranzo, sotto le sembianze d’ospitalità e d’amicizia163. [A. D. 998] Durante la minorità di Ottone III, suo figlio, Roma tentò con vigoroso sforzo di scuotere il giogo de’ Sassoni, e il console Crescenzio fu il Bruto della repubblica. Dalla condizione di suddito e d’esule giunse due volte al comando della città; perseguitò, cacciò, creò i Papi, e tramò una cospirazione per ristabilire l’autorità degl’Imperatori greci. Sostenne un assedio ostinato in castel Sant’Angelo; ma sedotto da una promessa d’impunità, fu appiccato, e s’espose il suo capo su i merli della Fortezza. Per un rovescio di sorte avvenne poi che Ottone, avendo diviso qua e là il suo esercito, fu assediato per tre giorni nel suo palazzo, ove difettava di vittovaglie; e solamente con una vergognosa fuga potè sottrarsi alla giustizia o al furor de’ Romani. Il senatore Tolomeo [p. 358 modifica]guidava il popolo, e la vedova del console Crescenzio ebbe la consolazione di vendicare il marito dando il veleno all’Imperatore divenuto suo amante: almeno se ne dà il vanto a lei. Era intendimento di Ottone III abbandonare le aspre contrade del Settentrione per collocare il suo trono in Italia, e far rivivere le instituzioni della monarchia romana; ma i successori di lui non comparvero che una volta in tutta la lor vita sulle sponde del Tevere per ricevere la corona nel Vaticano164. La loro assenza li esponea al disprezzo, e la loro presenza era odiosa e formidabile. Discendeano dalle Alpi co’ loro Barbari, stranieri all’Italia, ove giungevano coll’armi in mano, e le loro passaggere comparse non offerivano che scene di tumulto e di strage165. I Romani, sempre tormentati da una debole memoria dei loro antenati, vedeano con pio sdegno quella serie di Sassoni, di Francesi, di principi di Svevia e di Boemia usurpare la porpora e le prerogative de’ Cesari.

[A. D. 774 1250] Non v’ha forse nulla di più contrario alla natura e alla ragione, che il tenere sotto il giogo paesi lontani e straniere nazioni contro lor voglia, e contro [p. 359 modifica]il loro interesse. Può un torrente di Barbari passare sopra la terra; ma per mantenere un vasto Impero, si richiede un sistema profondo di politica e d’oppressione. Vi dev’essere al centro un potere assoluto pronto all’atto e ricco di espedienti; è necessario poter comunicare facilmente e rapidamente dall’una estremità all’altra; fan d’uopo Fortezze per reprimere i primi assalti dei ribelli; un’amministrazione regolare atta a proteggere e a punire, e un esercito ben disciplinato che possa infondere timore senz’eccitare l’odio e la disperazione. Ben diversa era la situazione de’ Cesari della Germania, allorchè divisarono d’assoggettare a sè il regno d’Italia. Le loro terre patrimoniali s’estendevano lunghesso il Reno, od erano sparse qua e là nelle loro varie province; ma l’imprudenza o la miseria di molti principi aveva alienato questo ricco retaggio, e la rendita, che traevano da un esercizio minuto e gravoso delle loro prerogative, bastava appena alle spese della lor casa. Erano i loro eserciti fondati soltanto sopra il servizio, legale o volontario, dei loro diversi feudatarii che valicavano le Alpi con ripugnanza, si permetteano ogni sorta di rapine e di eccessi, e sovente disertavano avanti la fine della campagna. Il clima dell’Italia ne distruggeva eserciti intieri; quelli che sfuggivano alla sua mortifera influenza riportavano in patria le ossa dei principi e Nobili loro166; imputavano talvolta l’ef[p. 360 modifica]fetto della loro intemperanza alla perfidia e malizia degl’Italiani, che rallegravansi almeno dei mali dei Barbari. Questa tirannia irregolare combattea con armi uguali contro la potenza de’ piccioli tiranni del paese: l’esito della disputa non interessava molto il popolo, e dee oggi interessar poco il lettore. Ma ne’ secoli undecimo e duodecimo riaccesero i Lombardi la fiaccola dell’industria e della libertà, e le repubbliche della Toscana imitarono finalmente quel generoso esempio. Avevano le città d’Italia conservata mai sempre una specie di governo municipale; e i loro primi privilegi furono un dono della politica degl’Imperatori, che voleano fare servire i plebei a raffrenare l’independenza della Nobiltà. Ma i rapidi progressi di queste Comunità, e l’estensione ch’esse davano ogni giorno al loro potere, non ebbero altra cagione che il numero e l’energia dei loro Membri167. La giurisdizione di ciascuna città abbracciava tutta l’ampiezza d’una diocesi o d’un distretto; quella de’ Vescovi, de’ marchesi e dei conti fu annichilata, e i più orgogliosi de’ Nobili si lasciarono persuadere, o furono costretti, d’abbandonare i loro castelli solitari e d’assumere la qualità più onorevole di cittadini e di magistrati. L’autorità legislativa apparteneva all’Assemblea generale; ma il potere esecutivo era nelle mani de’ tre consoli che s’estraevano annualmente [p. 361 modifica]dai tre Ordini de’ quali componevasi la repubblica, cioè: i capitani, i valvassori168 e i comuni sotto la protezione d’una legislazion uguale per tutti. L’agricoltura e il commercio si ravvivarono a poco a poco; la presenza del pericolo sosteneva il carattere guerriero de’ Lombardi, ed al suono della campana, o al ventilare del vessillo169, sboccava dalle porte della città una schiera numerosa ed intrepida, il cui zelo patriottico si lasciò ben tosto guidare dalla scienza della guerra, e dalle regole della disciplina. L’orgoglio de’ Cesari ruppe contro questi baluardi popolari, e l’invincibile Genio della libertà trionfò dei due Federici, i due più gran principi del medio evo: il primo forse più grande per le geste militari, ma il secondo dotato senza dubbio di maggiori lumi e di virtù più grandi che convengono alla pace. Vago di ravvivare tutto lo sfarzo della porpora, invase Federico I le repubbliche della Lombardia coll’arte d’un politico, col valore d’un soldato, e colla crudeltà d’un tiranno. Aveva la recente scoperta delle Pandette rinnovata una scienza molto favorevole al dispotismo; e alcuni giureconsulti venali dichiararono che l’Imperatore era assoluto padrone della vita e delle proprietà dei sudditi. La Dieta di Roncaglia riconobbe la regia prerogativa in un senso [p. 362 modifica]meno odioso; a sessantamila marchi d’argento170 fu portata la rendita dell’Italia, ma ad infinita ampiezza la estesero colle estorsioni gli officiali del fisco. Col terrore e colla forza dell’armi furono ridotte al dovere le città più pertinaci; i prigioni furono consegnati al carnefice, o fatti perire sotto i dardi scagliati dalle macchine guerresche: dopo l’assedio e la resa di Milano, Federico fece radere gli edifici di quella magnifica capitale; ne levò trecento statici cui spedì in Alemagna, e disperse in quattro villaggi gli abitanti messi sotto il giogo dall’inflessibile vincitore171. Non tardò Milano a risorgere dalle sue ceneri: la sventura formò la lega di Lombardia; Venezia, il Papa, Alessandro III, e l’Imperator greco ne difesero gl’interessi; l’edificio del dispotismo fu atterrato in un giorno, e nel trattato di Costanza Federico sottoscrisse, con qualche riserva, la libertà di ventiquattro città. Aveano queste acquistato tutto il vigore e la maturità, quando entrarono in lotta contro il suo nipote; ma questi, Federico II, era dotato di qualità personali, e singolari che lo segnalavano172. Per la nascita e per la educazione era raccomandato agli Italiani, e durante l’implacabil discordia della fazione [p. 363 modifica]de’ Ghibellini e de’ Guelfi, aderirono i primi all’Imperatore, [A. D. 1198-1250] mentre i secondi inalberarono il vessillo della libertà e della Chiesa. La Corte romana, in un momento di sonno, avea permesso ad Enrico VI di congiungere all’Impero i regni di Napoli e di Sicilia; e Federico II, suo figlio, ricavò da quegli Stati ereditarii grandi sussidii in soldati e in denari. Fu non di meno oppresso in fine dalle armi lombarde e dai fulmini del Vaticano; ne fu dato il reame ad uno straniero, e l’ultimo della sua razza fu pubblicamente decapitato sul palco nella città di Napoli. Per uno spazio di sessant’anni non si vide più un Imperator in Italia, e appena fu ricordato questo nome per la vendita ignominiosa degli ultimi rimasugli della sovranità.

[A. D. 814-1250 ec.] Piaceva ai Barbari, vincitori dell’Occidente, il dare al lor Capo il titolo d’Imperatore, senz’aver però l’intenzione di conferirgli il dispotismo di Costantino e di Giustiniano. La persona dei Germani era libera, come loro proprii i conquisti, e l’energia del loro carattere nazionale aveva a schifo la servil giurisprudenza dell’antica e della nuova Roma. Sarebbe stata impresa di gran rischio ed inutile il voler imporre il giogo monarchico a cittadini armati, che mal poteano sopportare in pace un magistrato, ad uomini ardimentosi che non voleano obbedire, e ad uomini potenti che voleano comandare. I duchi delle nazioni o delle province, i conti dei piccioli distretti, i margravii delle Marche, o frontiere, si partirono fra loro l’Impero di Carlomagno e d’Ottone, e riunirono l’autorità civile e militare tal quale era stata delegata ai luogotenenti dei primi Cesari. I governatori romani, per lo più soldati di ventura, sedussero le loro legioni mercenarie, e preser la porpora imperiale, con [p. 364 modifica]buono o cattivo successo, nella lor rivolta senza nuocere al potere e all’unità del governo. Se meno audaci furono nelle pretensioni i duchi, i margravii e i conti dell’Alemagna, più durevoli furono, e più funesti allo Stato gli effetti dei loro vantaggi. Invece d’aspirare alla dignità suprema, attesero in segreto a fermare l’independenza sul territorio che occupavano. I lor disegni ambiziosi furon favoreggiati dal numero dei dominii loro e dei vassalli, dall’esempio e dal soccorso che si prestavano vicendevolmente; dall’interesse comune dei Nobili subordinati, dal cangiamento dei principi e delle famiglie, dalla minorità d’Ottone III e da quella d’Enrico IV, dall’ambizione dei Papi, e dalla vana perseveranza con cui gl’Imperatori correan dietro alle fuggiasche corone dell’Italia e di Roma. A poco a poco i comandanti delle province usurparono tutti gli attributi della giurisdizione regia e territoriale; i dritti di pace e di guerra, di vita e di morte, quello di batter moneta, di mettere imposizioni, di contrar alleanze coll’estero, e d’amministrare l’interno. Tutte le usurpazioni della violenza furono dall’Imperatore ratificate sia che il facesse di buona voglia, sia per forza di necessità, e questa conferma divenne il prezzo d’un suffragio dubbio, o d’un servigio volontario; quel che avea conceduto all’uno non potea da lui ricusarsi senz’ingiustizia al successore o all’eguale di quello; così da questi differenti atti di dominio passaggero o locale s’è formato a grado a grado la costituzione del Corpo germanico. Il duca o conte d’ogni provincia era il Capo visibile collocato fra il trono e la Nobiltà; i sudditi della legge diveniano i vassalli d’un Capo particolare, che spesso levava contro il sovrano lo stendardo che [p. 365 modifica]ne avea ricevuto. La potenza temporale del clero fu secondata ed accresciuta dalla superstizione, o dai fini politici delle dinastie Carlovingia e Sassone, le quali ciecamente confidavano nella sua moderazione e fedeltà: i vescovadi d’Alemagna acquistarono l’estensione e i privilegi dei più vasti demanii dell’Ordine militare, e in ricchezze e in popolazione li superarono. Per quanto tempo poterono gl’Imperatori conservare la prerogativa di nominare i benefici ecclesiastici e laici, la gratitudine o l’ambizione dei loro amici e favoriti seguì le parti della Corte; ma nata la disputa delle investiture, perdettero ogni ingerenza sui Capitoli episcopali; le elezioni tornarono libere, e per una specie di beffa solenne, fu ridotto il sovrano alle sue prime preghiere, cioè al diritto di raccomandare una volta sola, durante il suo regno, un soggetto per una prebenda di ogni Chiesa. Anzi che obbedire ad un superiore, non poterono i governatori secolari essere dimessi dalla carica che per sentenza dei lor pari. Nella prima età della monarchia, la nomina d’un figlio al ducato o alla contea del padre era domandata come un favore; a poco a poco divenne un’usanza, e in fine fu pretesa come un diritto. Sovente la successione in retta linea si estese ai rami collaterali o femminili; gli Stati dell’Impero, denominazione popolare da principio, poi divenuta legale, furono divisi e alienati con testamenti e con trattati di vendita; ed ogn’idea d’un deposito pubblico si confuse in quella d’una eredità particolare e trasmissibile in perpetuo. Non potea nemmeno l’Imperatore arricchirsi colle confische e colla estinzione di qualche linea; non avea che un anno per disporre del feudo vacante, e nell’eleggere il can[p. 366 modifica]didato dovea consultare la Dieta generale o quella della provincia.

[A. D. 1250] Morto Federico II parea l’Alemagna un mostro di cento teste. Una moltitudine di principi e di prelati si contendeano i frantumi dell’Impero: innumerabili castella aveano padroni più inclinati ad imitare i lor superiori che ad obbedirli, e, secondo la misura delle forze di ciascheduno, alle continue loro ostilità si dava il nome di conquisto o di ladroneccio. Cotale anarchia era conseguenza inevitabile delle leggi e de’ costumi europei, e lo stesso turbine aveva messo in brani i regni della Francia e dell’Italia; ma le città italiche e i vassalli francesi, discordi fra loro, si lasciarono distruggere, mentre l’unione degli Alemanni ha prodotto sotto nome d’Impero un gran sistema di confederazione. Le Diete, da prima frequenti e poi perpetue, hanno serbato vivo lo spirito nazionale, e la legislazione generale dello Stato è rimasa nei tre rami, o Collegi, degli Elettori, de’ principi e delle città libere ed imperiali. I. A sette dei più potenti feudatarii fu permesso d’esercitare con un nome e un grado speciale il privilegio esclusivo di eleggere un Imperatore romano, e questi elettori furono il re di Boemia, il duca di Sassonia, il margravio di Brandeburgo, il conte palatino del Reno e i tre arcivescovi di Magonza, di Treveri e di Colonia. II. Il Collegio dei principi e de’ prelati si liberò da una moltitudine accozzata confusamente; ridussero a quattro voti rappresentativi la lunga lista dei Nobili independenti, ed esclusero i Nobili, o membri dell’ordine equestre, che nel campo dell’elezione, del pari che in Polonia, s’erano veduti in numero di sessantamila a cavallo. III. Non ostante l’orgoglio della nascita o del pote[p. 367 modifica]re, non ostante quello che inspirano la spada o la mitra, si ebbe la prudenza di porre nei Comuni il terzo ramo del poter legislativo, e i progressi della civiltà, quasi nell’istess’epoca, fecero altrettanto nelle assemblee nazionali della Francia, d’Inghilterra e dell’Alemagna. La lega anseatica padroneggiava il commercio e la navigazione del Settentrione; i confederati del Reno manteneano la pace e la comunicazione interna nell’Alemagna: le città han conservato una certa influenza proporzionata alle ricchezze e alla politica loro, e la lor negativa annulla ancora le risoluzioni dei due Collegi superiori, cioè di quello degli Elettori e dell’altro dei principi173.

[A. D. 1347-1378] Nel quattordicesimo secolo precipuamente fa stu[p. 368 modifica]pore la contraddizione che si trova fra il nome e lo Stato dell’Impero romano di Alemagna, il quale, eccetto sulle rive del Reno e del Danubio, non possedeva una sola provincia di quelle di Traiano e di Costantino. Questi principi aveano per indegni successori174 i conti d’Absburgo, di Nassau, di Lussemburgo e di Schwartzenburgo: l’Imperator Enrico VII ottenne pel figlio la corona di Boemia, e suo nipote, Carlo IV, ebbe la culla presso un popolo che gli stessi Alemanni trattavano da forestiero, da Barbaro175. [p. 369 modifica]Dopo avere scomunicato Luigi di Baviera, i Papi che, quantunque esuli o prigionieri nella contea di Avignone, affettavano di disporre dei reami della Terra, gli diedero o gli promisero l’Impero allora vacante. La morte dei competitori gli procurò i voti del Collegio elettorale, e fu dagli unanimi suffragi riconosciuto Re de’ romani e futuro Imperatore, titolo che veniva prostituito ai Cesari della Germania e a quei della Grecia. Altro non era l’Imperator d’Alemagna che il magistrato elettivo, e senza autorità, d’un’aristocrazia di principi che non gli aveano lasciato un solo villaggio di cui potesse dirsi padrone. La sua più bella prerogativa era il diritto di presedere il senato della nazione, convocato per le sue lettere, e di proporvi le cose su cui deliberare; e il suo regno di Boemia, meno opulento della città di Norimberga posta in quel dintorno, era il fondamento più saldo del suo potere e la fonte più ricca delle sue rendite. Non più di trecento guerrieri componeano l’esercito con cui varcò le Alpi. Fu coronato nella cattedrale di S. Ambrogio colla corona di ferro attribuita dalla tradizione alla monarchia Lombarda; ma non se gli permise che un picciol seguito; gli furon chiuse alle spalle le porte della città, e le armi de’ Visconti tennero prigioniero il re d’Italia, che fu obbligato di confermarli nel possesso di Milano. Una seconda volta, fu coronato nel Vaticano colla corona d’oro dell’Im [p. 370 modifica]pero; ma per adattarsi ad un articolo d’un trattato segreto, l’Imperatore romano si ritirò senza passare neppure una notte nel ricinto di Roma. L’eloquente Petrarca176, il quale trasportato dalla sua immaginazione vedea di già risorgere la gloria del Campidoglio, deplora ed accusa la fuga ignominiosa del principe Boemo; e gli autori contemporanei osservano, che la vendita lucrosa de’ privilegi e de’ titoli fu il solo atto d’autorità che esercitò l’Imperatore nel suo passaggio. L’oro dell’Italia assicurò l’elezion di suo figlio; ma tanta era la vergognosa povertà di questo Imperator romano, che fu fermato sulla strada di Worms da un beccaio, e ritenuto in un’osteria per cauzione, o per ostaggio delle spese che avea fatto.

[A. D. 1356] Da questo spettacolo d’avvilimento volgiamo lo sguardo all’apparente maestà che Carlo IV portò nelle Diete dell’Impero. La Bolla d’oro che fissò la costituzione germanica è scritta in tuono di sovrano e di legislatore. Cento principi s’incurvavano ai piedi del suo soglio, e sublimavano la propria dignità cogli omaggi volontarii, che concedeano al lor Capo o al lor ministro. I sette Elettori suoi grandi officiali ereditari, che per grado e per titoli pareggiavano i re, servivano alla tavola imperiale. Gli Arcivescovi di Magonza, di Treveri e di Colonia, arcicancellieri perpetui dell’Alemagna, dell’Italia e della provincia di [p. 371 modifica]Arles portavano in gran pompa i suggelli del triplice reame. Il gran Maresciallo, montato sur un palafreno, per segno di sue incombenze, tenea in mano un moggio d’argento pieno d’avena, ch’egli spandea per terra, indi scendea da cavallo per regolare l’ordinanza de’ convitati. Il gran Siniscalco, il conte palatino del Reno, recava i piatti in tavola. Dopo il banchetto il margravio di Brandeburgo, gran Ciamberlano, si presentava colla brocca e il bacino d’oro, e gli dava da lavar le mani; il re di Boemia era raffigurato, come gran Coppiere dal fratello dell’Imperatore duca di Lussemburgo e del Brabante; e la cerimonia era terminata dai grandi officiali della caccia, i quali con un frastuono di corni e di cani introduceano un cervo ed un cignale177. Nè alla sola Alemagna era ristretta la supremazia dell’Imperatore; i monarchi ereditari dell’altre contrade dell’Europa confessavano la preeminenza sua di grado e di dignità: era egli il primo dei principi cristiani, e il Capo temporale della gran repubblica d’Occidente178: già da gran tempo assumeva il titolo di maestà, e contrastava al Papa l’eminente diritto di creare i re, e di convocare i Concilii. L’oracolo delle leggi civili, il dotto Bartolo, riceveva una pensione da Carlo IV, e la sua scuola risonava di questa sentenza, che il romano Imperatore era il sovrano legittimo della Terra, cominciando dai luoghi ove si leva il Sole sino a quelli dove tra[p. 372 modifica]monta. La contraria opinione fu condannata non come un errore, ma come eresia, in vigor di quelle parole dell’Evangelo: „E un decreto di Cesare Augusto dichiarò che tutto il Mondo dovesse pagare l’imposizione„179.

Se attraverso lo spazio dei tempi o de’ luoghi, noi raffrontiamo Augusto con Carlo, i due Cesari ci presenteranno un contrapposto ben forte. Carlo nascondea la sua debolezza sotto la maschera dell’ostentazione, e il primo velava la sua forza coi colori della modestia. Augusto, capitanando le sue vittoriose legioni, dando leggi alla terra e al mare, dal Nilo e dall’Eufrate sino all’Oceano Atlantico, si dicea servitor dello Stato e l’uguale a’ suoi concittadini. Il trionfator di Roma e delle province si sottomettea alle formalità volute dagli offici legali e popolari di censore, di console e di tribuno. La sua volontà era la legge del Mondo; ma per pubblicar questa legge prendeva in prestito la voce del senato e del popolo; da essi il padrone riceveva le nomine rinnovate delle cariche temporanee già conferitegli per amministrar la repubblica. Negli abiti, nell’interno della casa180, nei titoli, in tutte le azioni [p. 373 modifica]della vita sociale serbò Augusto le maniere d’un semplice privato, e da’ suoi scaltri adulatori fu rispettato il segreto della sua assoluta e perpetua monarchia.



fine del volume nono.

Note

  1. In vece di curiosità dovevasi dire (trattandosi della Transustanziazione) seria considerazione de’ teologi rivolta sempre a spiegare i passi misteriosi dell’Evangelo, a togliere gli apparenti obbietti, che potrebbero per avventura presentarsi, ed a mostrare a credenti i motivi di credibilità, onde tener ferma la fede. (Nota di N. N.)
  2. Il dotto Selden ci dà, in una parola molto energica, e d'un significato estesissimo, tutta l'istoria della Transustanziazione: „Quest'opinione è una figura di retorea, della quale si fece una proposizione di logica„. Vedi le sue opere, vol. III, p. 2073, nel suo Seldeniana o i suoi Propos de table.
    1. Non è maraviglia che Selden, protestante, abbia ciò asserito; e non ha alcuna autorità per un cattolico il detto di un protestante in questo proposito, siccome in tutti gli altri intorno le cose di religione. (Nota di N. N.)
  3. Il culto delle Immagini non può chiamarsi superstizione popolare, perchè fu spiegato, sanzionato, e stabilito dai Concilii generali, e dai Papi, che condannarono l’opinione eretica degli Iconoclasti, che invano vi si opposero per tanti anni per abolirlo. Vedi la nostra Nota a p. 248. (Nota di N. N.).
  4. Nec intelligunt homines ineptissimi, quod si sentire simulacra et moveri possent, adoratura hominem fuissent a quo sunt expolita. (Div. Instit., lib. 11, c. 2). Lattanzio è l’ultimo e il più eloquente degli apologisti del cristianesimo; i loro motteggi sugli idoli intaccano non solo l’oggetto, ma anche la forma e la materia.
  5. Vedi Sant’Ireneo, Sant’Epifanio e S. Agostino (Basnagio Hist. des Eglises réformées, t. II, p. 1313). Questa pratica dei Gnostici ha una singolare relazione col culto secreto usato da Alessandro Severo (Lampridio, cap. 29; Lardner Heathen Testimonies, vol. III, p. 34).
  6. Vedi i capitoli XXIII e XXVIII di quest’opera.
  7. Οὐ γὰρ τὸ Θεῖον ἁπλοῦν ὑπάρχον καὶ ἄληπτον μορφαῖς τισι καὶ σχήμασιν ἀπεικάζομεν. Οὔτε κήρῳ καὶ ξύλοις τὴν ὑπερούσιον καὶ προάναρχον οὐσίαν τιμᾶν ἡμεῖς διεγνώκαμεν. Imperciocchè noi non rappresentiamo con figure od immagini la Divinità, sostanza semplice ed incomprensibile: nè in cera o in legno intendiamo d’onorare una Essenza suprema ed eterna. (Concilium Nicenum, II, in Collect. Labbe, t. VIII, p. 1025, edizione di Venezia). Il serait peut-être à propos, dice il signor Dupin, de ne point souffrir d’images de la Trinité ou de la Divinité; les défenseurs les plus zélés des images ayant condamné celles-ci, et le Concile de Trente ne parlant que des images de Jésus-Christ et des Saints. (Bibliot. ecclés. t. VI, p. 154).
  8. Il culto del divin Fondatore della religione, Gesù Cristo, era sì spiritualmente impresso ne’ Cristiani che non ne avrebbero giammai perduta l’idea, quand’anche non avessero avuto il soccorso de’ sensi per mezzo dell’immagine di lui; e ciò sarebbe anche avvenuto, perchè la fede in lui non poteva mancare (Nota di N. N.).
  9. I Greci, ed i Latini adottarono l’idea della assunzione per un motivo già di sopra esposto, nella nostra Nota a pag. 44. (Nota di N. N.).
  10. Questo compendio della Storia delle Immagini è tratto dal ventesimosecondo libro dell’Histoire des Eglises reformées di Basnagio, t. II, p. 1310-1337. Era protestante, ma d’uno spirito maschio; e non temono i riformati la taccia di imparziali in una cosa intorno alla quale hanno così evidentemente ragione. Vedi la perplessità del povero monaco Pagi, Critica, t. I, p. 42.
  11. Quando si studiano gli annalisti, messi da un lato i miracoli e le contraddizioni, si giudica che dall’anno 300 avea la città di Paneade, in Palestina, un gruppo di bronzo, rappresentante un gran personaggio, avviluppato in un mantello, ed una donna a’ suoi piedi che gli attestava la propria gratitudine, o gl’indirizzava suppliche; e leggevasi per avventura sul piedestallo τῷ Σωτῆρι, τῷ ευεργέτῃ, al salvatore, al benefattore. Supponevano i cristiani pazzamente, che un tal gruppo rappresentasse Gesù Cristo, e la povera donna ch’egli avesse guarito d’un flusso di sangue. (Eusebio, VII, 18; Filostorgio VII, 3, ec.). Il Signor di Beausobre con più ragione congettura, che quella statua rappresentava il filosofo Apollonio o l’Imperatore Vespasiano: in quest’ultima supposizione la donna è una città, una provincia, o forse la regina Berenice. Biblioth. germ. XIII, p. 192.
  12. Gli storici, e gli eruditi ecclesiastici del pari che i Teologi hanno rifiutato con tutte le ragioni la corrispondenza fra il re Abgaro, e Gesù Cristo, e qualificata falsa ed inventata la lettera di quel re a Cristo, sebbene sia questa riferita dal Vescovo Eusebio nella sua storia ecclesiastica. La di lui autorità unita a quella di S. Efrem, e di Giacomo Vescovo di Sarug accreditò cotal favola: non si sa precisamente quando, e da chi sia stata inventata. La mancanza di buone istorie ed ancor più quella di buona critica, ne’ primi secoli del cristianesimo, cagionarono tale ignoranza. Il cattolico saggio, ed istruito, deve tener certe e ferme le cose narrate ne’ libri rivelati del Nuovo Testamento e quelle definite dalla Chiesa, e lasciare le altre alla critica giudiziosa de’ dotti. (Nota di N. N.)
  13. Eusebio, Hist. ecclesiast., l. I, c. 13. Il dotto Assemani vi aggiugne il testimonio di tre Sirii, di S. Efremo, di Giosuè Stilite, e di Giacomo, vescovo di Sarug; ma non so che s’abbia prodotto l’originale di quella lettera, o indicati gli archivi d’Edessa. (Bibl. orient. t. I, p. 318, 420, 554). Si fatta tradizione così incerta venia loro probabilmente dai Greci.
  14. Lardner discute e rigetta colla sua solita ingenuità i testimonii citati in favore di quel carteggio (Heathen Testimonies, vol. I, p. 297-309). Arrossisco di vedere tra la folla degli scrittori superstiziosi, ch’egli scaccia da questo posto ragguardevole insieme ai Grabe, Cave e Tillemont, anche il signor Addison (Vedi le sue opere, vol. I, p. 528 ediz. di Baskerville); ma il trattato superficiale da lui composto sulla religion cristiana ha acquistato credito dal nome dell’autore, dal suo stile, e dagli elogi troppo sospetti del clero.
  15. Dal silenzio di Giacomo di Sarug (Assemani Bibliot. orient. p. 289-318), e dalla testimonianza d’Evagrio (Hist. eccl. l. IV, c. 27) giudicai, essere stata quella favola inventata tra gli anni 521 e 594, probabilmente dopo l’assedio di Edessa, nel 540 (Assemani t. I, p. 4167. Procopio De bello persico, l. II). È la spada e lo scudo di Gregorio II (in epist. 1, ad Leon. Isaur. Concil.; t. VIII, p. (656, 657), di S. Giovanni Damasceno (Opera, t. I, p. 281, ediz. di Lequien), e del secondo Concilio di Nicea (Actio V, p. 1030). La più perfetta edizione si trova in Cedreno (Compend. p. 175-178).
  16. Ἀχειροποίητος, senza mani. Vedi Ducange, in Gloss. graec. et latin. Questo soggetto è trattato con erudizione non meno che con pregiudizii dal Gesuita Gretser (Syntagma de imaginibus non manu factis, ad calcem codicis de officiis, p. 289-330), l’asino o piuttosto la volpe d’Ingolstadt (Vedi la Scaligeriana); con pari senno e ragione dal protestante Beausobre nella controversia ironica da lui inserita in differenti volumi della Bibliothèque germanique (t. XVIII, pag. 1-50; t. XX, p. 27-68; t. XXV, p. 1-36; t. XXVII, pag. 85-118; t. XXVIII, pag. 1-33; t. XXXI, p. 111-148; l. XXXII, p. 75-107; t. XXXIV, p. 67-96).
  17. Teofilato Simocatta (l. II, c. 3, p. 34; l. III, cap. I, p. 63), celebra θεανδρικὸν εἴκασμα, l’immagine dell’Uomo Dio, ch’egli chiama ἀχειροποίητον, senza mano; ma non era che una copia, poichè soggiugne ἀρχέτυπον οἱ Ῥωμαῖοι (d’Edessa) θρεσκεύουσί τι ἄρρητον, che i Romani (di Edessa) venerano quell’originale con un culto singolare. (Vedi Pagi, t. II, A. D. 596, n. II).
  18. Vedi nelle opere autentiche o supposte di S. Giovanni Damasceno, due passi sulla Vergine Maria e sopra S. Luca, dimenticati da Gretser, e per conseguente non rammentati da Beausobre (Opera Johan. Damascen. t. I, p. 618-631).
  19. „Escono le vostre scandalose figure fuor della tela; sono esse cattive come le statue in grupo„. Lodavano in tal guisa l’ignoranza e il fanatismo d’un prete greco alcuni quadri di Tiziano, ch’egli avea comandati, e che non volea più ricevere.
  20. Secondo Cedreno, Zonara, Glycas e Manasse, gli autori della Setta degli Iconoclasti furono il Califfo Iezid e due Ebrei che aveano promesso l’Impero a Leone. I rimproveri che l’odio suggerisce a que’ Settarii vengono interpretati come un’assurda cospirazione pel ristabilimento della purità del culto cristiano. (Vedi Spanheim, Hist. Imag., c. 2).
  21. Jezid, nono Califfo della razza degli Omniadi, distrusse tutte le Immagini della Siria verso l’anno 719: onde gli ortodossi rimproverarono ai Settarii di seguire l’esempio dei Saracini e degli Ebrei (Fragm. mon. Johan. Jerosolymit. script. Byz., t. XVI, p. 235. Hist. des Répub. ital., par Sismondi t. I, p. 126). (Nota dell’Editore francese).
  22. Vedi Elmacin (Hist. Saracen., pag. 267), Abulfaragio (Dynast., p. 201), Abulfeda Annal. Moslem., p. 264), e le Critiche del Pagi (t. III, A. D. 944). Non ardisce questo prudente Francescano di determinare, se a Roma o a Genova riposi l’immagine d’Edessa; ma essa riposa senza gloria; non è più alla moda, ed ha perduta la sua antica celebrità.
  23. Αρμενιοις και Αλαμανοις επισης η αγιων εικονων προσκυνησις απηγορευται, agli Armeni del pari che agli Alemanni è proibita l’adorazione delle sante Immagini. (Niceta, lib. II, p. 258). Le Chiese d’Armenia non fan ancor uso che della Croce (Missions du Levant, t. III, p. 148); ma il Greco superstizioso è senza dubbio ingiusto verso la superstizione degli Alemanni del duodecimo secolo.
  24. Negli Atti dei Concilii (tom. VIII e IX Collect. de Labbe ediz. di Venezia), e negli scritti istorici di Teofane, di Niceforo, di Manasse, di Cedreno, di Zonara ec. si devono cercare i monumenti originali di tutto ciò che è relativo agl’Iconoclasti; non si troveranno però affatto imparziali. Fra i moderni cattolici, Baronio, Pagi, Natalis Alessandro (Hist. eccl., secul., 8 e 9) e Maimbourg (Hist. des Iconoclastes) mostrarono a questo riguardo pari erudizione, passione e credulità. Le indagini del protestante Federico Spanheim (Hist. imaginum restituta), e di Giacomo Basnagio (Hist. des Eglises réformées, t. II, l. 1XIII, p. 1339-1385), inclinano dal lato degli Iconoclasti. Pei soccorsi che ci offrono le due parti, e per la loro opposta disposizione, ci è facile il giudicare questa lite con una imparzialità filosofica.
  25. Come si raccoglie da questi fiori di rettorica Συνοδον παραμον και αθεον Sinodo empio ed ateo, si trattarono i Vescovi da τοις ματαιοφροσιν vanagloriosi. Damasceno chiama questo Concilio ακυρος και αδεκτος, non autorevole e non ammesso. (Opera, t. I, p. 623) Fece Spanheim con pari ingegno e sincerità l’apologia del Concilio di Costantinopoli (p. 171, ee.); ne trasse i materiali dagli Atti del Concilio di Nicea (p. 1046, etc.) L’arguto Giovanni di Damasco, dice επισκωτους tenebrosi in vece di επισκοπους Vescovi, e dà ai Vescovi il nome di κοιλιοδουλους schiavi del loro ventre, ec. (Opera, t. 1, p. 306.).
  26. Tutto al più poteva dirsi, che la credenza, e la protezione de’ sovrani hanno influito a dar coraggio ai Vescovi ortodossi nel sostenere e fissare le buone dottrine contro le false opinioni dei Vescovi eretici, e dei Conciliaboli; ma i Vescovi nei Concilii ortodossi, e generali, che appunto spiegavano, e fissavano i dogmi, furono liberi nelle loro decisioni. Se, per esempio nei quattro primi Concilii generali, che spiegarono, e fissarono i fondamenti dogmatici, vi assistettero gli Imperatori, o i loro ministri, e consiglieri, se vi furono ufficiali di Polizia e soldatesche, ciò fu solamente per tener il buon’ordine ed impedire i disordini delle contese. (Nota di N. N.).
  27. Si accusa Costantino d’avere proscritto il titolo di Santo, d’aver chiamata la Vergine Maria madre di Gesù Cristo, d’averla paragonata, dopo il parto, ad una borsa vuota; si accusa di più d’arianismo, di nestorianismo, ec. Spanheim, che lo difende (c. 4, p. 207), è alquanto imbrogliato tra gl’interessi d’un protestante, e i doveri d’un teologo ortodosso.
  28. Il santo confessore Teofane approva il principio della loro ribellione θειω κινουμενοι ζηλο, mossi da zelo divino. (p. 339). Gregorio II (in epist. 1, ad imp. Leon, Concil., t. VIII, p. 661-664) applaudisce allo zelo delle donne di Bizanzio, che uccisero gli officiali dell’Imperatore.
  29. I Greci ortodossi, cultori delle Immagini, avranno sperato d’ottenere qualche miracolo a loro favore nella battaglia contro l’armata dell’Imperatore Leone Iconoclasta; ma, i miracoli stanno nella mano di Dio, e se i Greci sostenitori delle Immagini non ne ottennero, il fuoco greco doveva avere il suo effetto di distruggere la loro flotta; e questo effetto non avrebbe avuto luogo se avessero ottenuto un miracolo. (Nota di N. N.)
  30. La violenza di Costantino Copronimo ha indotto la prudenza del Patriarca a preferire per il momento la dissimulazione ad uno zelo pericoloso, sperando di poter in circostanze più favorevoli spiegare il vero suo sentimento; e questo accorgimento politico non è da biasimarsi. (Nota di N. N.)
  31. Dovevasi dire fedeli al culto delle Immagini il quale, per la nota nostra alla pag. 248, nel vero senso non è superstizione; se poi i monaci ammassarono ricchezze, abusarono della loro influenza sugli animi, delle circostanze, e dell’ignoranza de’ tempi, ciò è da disapprovarsi. (Nota di N. N.)
  32. Giovanni o Mansur era nobile cristiano di Damasco, che avea una carica ragguardevole al servizio del Califfo. Il suo zelo nella causa delle Immagini l’espose al risentimento e alla perfidia dell’Imperatore greco; pel sospetto d’una rea corrispondenza, gli fu tagliata la mano destra restituitagli miracolosamente dalla Vergine. Cedette quindi la carica, distribui le sue ricchezze, e andò a nascondersi nel monastero di San Saba, tra Gerusalemme e il mar Morto. Famosa è la Leggenda; ma il padre Lequien, dotto editore di lei, sgraziatamente provò, che S. Giovanni Damasceno era già monaco prima della controversia iconoclastica. (Opera, t. I, vita S. Johannis Damascen., p. 10-13. et Notas ad loc.)
  33. Dopo aver mandato al diavolo Leone, fa parlare il suo erede το μιαρον αυτου γεννημα, και της κακιας αυτου κληρονομος εν διπλω γενομενος, scellerato germe di lui, divenuto erede doppiamente della sua malvagità. (Opera Damascen. t. I, p. 625.) Se l’autenticità di questo pezzo è sospetta, siamo certi, che in altre opere, che non esistono più, Giovanni dà a Costantino i titoli di νεον Μωαμεθ, Χριστμαχον, μιςαγιον, nuovo Maometto, avversario di Cristo, nimico dei Santi. (t. I. p. 306).
  34. Spanheim (p. 235-238), che narra questa persecuzione secondo Teofane e Cedreno, dilettasi a paragonare il draco di Leone coi dragoni (dracones) di Luigi XIV, e si ricrea grandemente con questo scherzo di parole.
  35. Προγραμμα γαρ εξεπεμψε κατα πασαν εξαρχιαν την υπο της χειρος αυτος; παντας υπογραψαι και ομνυναι του αθετησαι την προσκουησιν των σεπτων εικονων. Imperocchè mandò un avviso per tutto l’Esarcato che da lui dipendeva di dover tutti sottoscrivere e giurare che abiuravano l’adorazione delle occidentali Immagini. (Damascen., Op., t. I, p. 625.) Non mi ricordo d’aver letto questo giuramento nè questa sottoscrizione in niuna raccolta moderna.
  36. Se la sollevazione d’Italia contro il suo legittimo sovrano, cagionata dall’Iconoclastia, diede occasione, agli abitanti di Roma e delle vicine terre di darsi volontariamente a Gregorio II, e di considerarlo suo principe, onde quest’atto può riguardarsi il primo dei molti avvenimenti che determinarono ne’ Papi potestà, e indi sovranità temporale, bisogna per altro aggiungere, e confessare, che lo stesso Gregorio II s’adoperò scrivendo ad Orso, Doge di Venezia, acciocchè l’Esarcato di Ravenna invaso dai Longobardi nel tempo della ribellione pel decreto dell’Imperatore Leone contro il culto delle Immagini rimanesse sotto il dominio dell’Imperatore stesso; Quia peccato faciente Ravennatum civitas quae caput est omnium a nec dicenda gente longobardorum capta est, et filius noster eximius D. Exarchus apud Venetias moratur (ut cognovimus) debeat Nobilitas tua ei adhaerere, et cum eo nostra vice pariter decertare, ut ad pristinum statum sanctae reipubblicae in Imperiali servitio ipsa revocetur Ravennatum civitas etc. Epistola Gregorj II. Labbe T. 8. p. 177 ad Ursum Ducem Venetiarum. E la Repubblica di Venezia obbedendo al papa, potente in que’ giorni anche nelle cose politiche, e civili, rimise con un’armata Paolo Esarca, per l’Imperatore, nel governo di Ravenna siccome ci documenta il Sigonio, Lectis litteris Veneti autoritatem Pontificis secuti Paulum summa ope adjuvandum decreverunt Sigonius de Regno Italiae, l. 3.
    Ed è vero ancora, che lo stesso Gregorio indi impedì, che gli Italiani eleggessero un nuovo Imperatore; omnis Italia consilium iniit ut eligeret Imperatorem, sed compescuit tale judicium Pontifex sperans conversionem Principis. Anes. Bibl. Vita Gregorii II. (Nota di N. N.)
  37. Και την Γωμην σ υν Ιταλια της βασιλειας αυτου απεστησε, e separò dal suo regno con tutta l’Italia, dice Teofane (Chronograph. p. 343). Gregorio è chiamato perciò da Cedreno ανηρ αποςολικος, uomo apostolico, (p. 550). Zonara specifica questo fulgore di αναθηματι συνοδικω, scomunica Sinodico (t. II. l. XV, p. 104, 105). È da notare essere i Greci disposti a confondere i regni e le azioni dei due Gregorii.
  38. Vedi Baronio (Annal. eccles., A. D. 730, num. 4, 5): dignum exemplum! (Bellarmin., De rom. Pontifice, l. V, c. 8.): mulctavit eum parte imperii. (Sigonius, De regno Italiae, l. III, opera, t. II, pag. 169.) Ma le opinioni in Italia sono cangiate a tale, che l’editore di Milano, Filippo Argelati, Bolognese e suddito del Papa, corregge Sigonio.
  39. Quod si Christiani olim non deposuerunt Neronem aut Julianum; id fuit quia deerant vires temporales Christianis (così parla il virtuoso Bellarmino, De rom. Pont., l. V, c. 7.) Il Cardinale du Perron fa una distinzione che è più onorevole ai primi cristiani, ma che non dee piacere di più ai principi moderni. Distingue il tradimento degli eretici e degli apostati, che mancano ai loro giuramenti, falsificano il marchio ricevuto, e rinunciano alla fedeltà che devono a Gesù Cristo e al suo Vicario (Perroniana, p. 89).
  40. Si può citare per esempio il circospetto Basnagio (Hist. de l’Eglise, p. 1350, 1351), e il veemente Spanheim (Hist. imaginum), che calcano con cent’altri le vestigia dei centuriatori di Magdeburgo.
  41. Vedi Launoy (Op., t. V, part. II, ep. VII, 7, p. 456-474), Natalis Alexander (Hist. novi Testam., secul. 8, Dissert. 1, p. 92, 96), Pagi (Critica, t. III, p. 215, 216), e Giannone (Istoria civ. di Napoli, t. I, p. 317-320), discepolo della Chiesa gallicana. Nel campo delle controversie io compiango sempre la fazion moderata, che sta in mezzo ai combattenti, esposta al fuoco d’ambe le parti.
  42. Ricorrono a Paolo Warnefrido, o il Diacono (De gestis Langobard., l. VI, c. 49, p. 506, 507) in script. Ital., Muratori, t. 1, part. 1), e all’Anastasio supposto (De vit. pont., in Muratori, t. III, part. I), a Gregorio II (p. 154), a Gregorio III (p. 158), a Zaccaria (p. 161), a Stefano II (p. 165), a Paolo (p. 172), a Stefano IV (p. 174), ad Adriano (p. 179), a Leone III (p. 175). Ma io noterò che il vero Anastasio (Hist. eccles., p. 134 edit. Reg.) e l’autore dell’Historia miscella (l. XXI, p. 151, in t. I. script. Ital.), amendue scrittori del quinto secolo, traducono e approvano il testo greco di Teofane.
  43. Con qualche picciola differenza, i critici i più dotti, Luca Olstenio, Schelestrate, Ciampini, Bianchini, Muratori (Prolegomena, ad t. III, parte I.), convengono, essere stato il Liber pontificalis principiato e quindi continuato dai bibliotecarii e notai apostolici dei secoli ottavo e nono, e non essere che l’ultima parte (la meno ragguardevole) opera di Anastasio, il cui nome sta in fronte al libro. N’è barbaro lo stile, piena di parzialità la narrativa; son minutissimi i ragguagli; si dee però leggerla come un monumento curioso ed autentico del secolo di cui parliamo in questo luogo. L’Epistole dei Papi si trovano sparse nei volumi dei Concilii.
  44. Le due Epistole di Gregorio II furono conservate negli Atti del Concilio di Nicea (t. VIII, p. 651-674); van senza data: Baronio dà loro quella del 726; Muratori (Annali d’Italia, t. VI, p. 120) dice che furono scritte nel 729, e Pagi nel 730. Tal’è la forza delle prevenzioni che alcuni Papi scrittori lodarono il buon senso e la moderazione di queste lettere.
  45. Εικοσι τεσσαρα σταδια υποχωρησει ο Αρχιερευς Ρομης εις την χωραν της καμπανιας, και υπαγε διωξων των ανεμους. Il Pontefice di Roma si ritrarrà per ventiquattro stadii nella provincia della Campania, e tu perseguiterai i venti. (Epist. I, p. 664). Questa vicinanza dei Lombardi è molto indigesta. Camillo Pellegrini (Dissert. 4, De ducatu Beneventi, nelle Script. Ital. t. V, p. 172, 173) conta con qualche apparenza di ragione i ventiquattro stadii, non da Roma, ma dai confini del ducato Romano, fino alla prima Fortezza dei Lombardi, ch’era forse Sora. Credo piuttosto, che Gregorio, secondo la pedanteria del suo secolo, impiegò il termine di stadio in vece di quello di miglio, senza badare al vero valore della parola che usa.
  46. Ον αι πασαι βασιλειαι της δυσεως ως Θεον επιγειον εχουσι. Cui tutti i regni d’Occidente risguardano come un Dio terreno.
  47. Απο της εσωτερου δυσεως του λεγομενου Σεπτετου„. Dall’Occidente estremo, denominato Septeto. Sembra che il Papa facesse impressione sull’animo de’ Greci ignoranti: visse, e morì nel palazzo di Laterano, e all’epoca del suo regno tutto l’Occidente aveva abbracciato il cristianesimo. Questo Septeto ignoto non potrebbe per avventura avere qualche conformità col Capo dell’Eptarchia sassone, come quell’Inn, re di Wessex, che nel pontificato di Gregorio II andò a Roma non per ricevere il Battesimo, ma come pellegrino? (Pagi, A. D. 689, num. 2; A. D. 726, num. 15).
  48. Trascriverò qui il passaggio ragguardevole e decisivo del Liber pontificalis. Respiciens ergo pius vir profanam principis jussionem, jam contra imperatorem quasi contra hostem se armavit, renuens haeresim ejus, scribens ubique se cavere christianos eo quod orta fuisset, impietas talis. igitur permoti omnes Pentapolenses, atque Venetiarum exercitus contra imperatoris jussionem restituerunt: dicentes se nunquam in ejusdem pontificis condescendere necem, sed pro ejus magis defensione viriliter decertare (p. 156).
  49. Un census o capitazione, dice Anastasio (p. 156), tassa crudele e ignota agli stessi Saracini, esclama lo zelante Maimbourg (Histoire des Iconoclastes, l. I), e Teofane (p. 344), che ricorda l’enumerazione dei maschi d’Israele, ordinata da Faraone. Questa forma di gabella era famigliare ai Saracini, e sgraziatamente per Maimbourg, Luigi XIV suo protettore la introdusse in Francia pochi anni dopo.
  50. V. il Liber pontificalis d’Agnellus (nei Scriptores rerum italicarum di Muratori, t. II part. I). Scorgesi in questo scrittore un color più carico di barbarismo, d’onde risulta, ch’erano i costumi di Ravenna un pò differenti da quelli di Roma. Gli siamo però debitori di alcuni fatti curiosi e particolari di quella città. Egli ci dà a conoscere i quartieri e le fazioni di Ravenna (p. 154), la vendetta di Giustiniano II (p. 160, 161) e la sconfitta dei Greci (p. 170, 171), etc.
  51. È chiaro, che i termini del decreto comprendeano Leone si quis .... imaginum sacrarum .... destructor .... extiterit, sit extorris a corpore D. N. Jesu-Christi, vel totius Ecclesiae unitate. Tocca ai Canonisti a decidere se basti il delitto per avere la scomunica, o se bisogna essere nominato nel decreto. E questa decisione interessa estremamente la sicurezza degli scomunicati, poichè l’oracolo (Gratien, Caus., 23, (q. 5, c. 47, apud Spanheim, Hist. immag. p. 112) dice: homicidas non esse qui excommunicatos trucidant.
  52. Compescuit tale consilium pontifex, sperans conversionem principis (Anastasio, p. 156). Sed ne desisterent ab amore et fide R. J. admonebat. (p. 157) Danno i Papi a Leone e a Costantino Copronimo i titoli d’imperatores e di domini, accompagnati dallo strano epiteto di piissimi. Un celebre mosaico del palazzo di Laterano (A. D. 798) rappresenta Gesù Cristo che consegna le chiavi di San Pietro e lo stendardo a Costantino V. (Muratori, Annali d’Italia, t. VI; p. 337.)
  53. Indicai l’estensione del Ducato di Roma secondo le carte geografiche, e mi servii di queste carte secondo l’eccellente dissertazione del padre Beretti (Chorographia Italiae medii aevi, sect. 20, p. 216-232). Devo per altro notare, essere stato Viterbo fondato dai Lombardi (p. 211), e Terracina presa dai Greci.
  54. Si leggeranno con piacere nel Discorso preliminare della République romaine, opera del Signor di Beaufort, (t. I.) le particolarità concernenti all’estensione, alla popolazione etc. del Regno romano: non si accuserà quest’autore di troppa credenza pei primi secoli di Roma.
  55. Non è superstizione, come dice sempre l’Autore, il culto delle Immagini bene inteso, e prestato secondo il sentimento della Chiesa. È poi vero che le controversie, le sollevazioni per cotal contrattato culto, produssero un nuovo governo in Roma, e diedero occasione alla sovranità dei Papi. (N. di N. N.)
  56. Quos (Romanos) non Langobardi scilicet, Saxones, Franci, Lotharingi, Bajoarii, Suevii, Burgundiones, tanto dedignamur ut inimicos nostros commoti, nihil aliud contumeliarum nisi Romani, dicamus: hoc solo, id est Romanorum nomine, quicquid ignobilitatis, quicquid timiditatis, quicquid avaritiae, quicquid luxuriae, quicquid mendacii, immo quicquid vitiorum est comprehendentes. (Luitprando, in legat. script. Ital., t. II, p. 481). Minosse avrebbe potuto imporre a Catone o a Cicerone, in penitenza dei loro peccati, l’obbligo di leggere ogni giorno questo passaggio d’un Barbaro.
  57. Pipino, Regi Francorum, omni senatus, atque universa populi generalitas a Deo servatae romanae urbis. (Codex Carolin. epist. 36, in script. Ital., t. III, part. II, p. 160). I nomi di senatus e di senator non furono mai al tutto annichilati (Dissert. chorograph., p. 216, 217). Ma nell’età media essi non significarono nient’altro che nobiles, optimates, ec. (Ducange, Gloss. latin.)
  58. Vedi Muratori, Antiq. Ital. medii aevi, t. II. Dissert. 27, p. 548. Sopra una di quelle monete leggesi Hadrianus Papa (A. D. 772), sul rovescio, Vict. DDNN, colla parola CONOB, che il padre Ioubert (Science des médailles, t. II, p. 42) spiega per CONstantinopoli Officina B, (secunda).
  59. Vedi la dissertazione di West sui Giuochi Olimpici (Pindaro, vol. 2, p. 32-36: ediz. in 12), e le giudiziose riflessioni di Polibio (t. I., l. IV, p. 466, ediz. di Gronov.)
  60. Sigonio (De regno Ital. l. III, opera, t. II, p. 173) mette in bocca a Gregorio un discorso al Re dei Lombardi, in cui v’ha l’audacia e il coraggio di quelli di Salustio e di Tito Livio.
  61. Due storici veneziani, Giovanni Sagorino (Chron. Venet. p. 13) e il doge Andrea Dandolo (Script. rer. Ital., t. XII, p. 135) conservarono quest’Epistola di Gregorio. Paolo Diacono (De gest. Langobard., l. VI, c. 49-54, in script. Ital. t. I, part. I, p. 506-508) fa menzione della perdita e della ripresa di Ravenna; ma non possono i nostri cronologisti Pagi e Muratori ec., accertare nè l’epoca di questo avvenimento, nè le circostanze che l’accompagnarono.
  62. Quest’incertezza è fondata sulle varie lezioni del manoscritto d’Anastasio: leggesi nell’una deceperat e nell’altra decerpserat (Scriptor. Ital., tom. III, part. I, p. 167).
  63. Il Codex Carolinus è una raccolta di lettere dei Papi a Carlo Martello (ch’essi chiamarono Subregulus), a Pipino e a Carlomagno; giungono fino all’anno 791, epoca in cui l’ultimo di que’ principi le unì insieme. Il manoscritto originale e autentico (Bibliothecae Cubicularis) è oggigiorno nella Biblioteca imperiale di Vienna, e fu pubblicato da Lambecio e da Muratori (Script. rer. Ital., t. III, part. II, 75. ec.)
  64. Vedi questa lettera straordinaria nel Codex Carolinus, epist. 3, p. 92. I nemici dei Papi accusarono Stefano di superchieria e di bestemmia; era però intenzione di quel Pontefice più di persuadere che d’ingannare. Era questo metodo di far parlare i morti o gl’immortali familiare agli antichi oratori; ma bisogna confessare ch’esso fu impiegato in tale occasione colla rozzezza dell’epoca di cui parliamo.
  65. Trascurarono per altro questa precauzione quando si trattò del divorzio della figlia di Desiderio, ripudiata da Carlomagno, sine aliquo crimine. Il Papa Stefano IV erasi opposto con furore al matrimonio d’un nobile Franco, cum perfida, horrida, nec dicenda, faetentissima natione Langobardorum, alla quale attribuisce l’origine della lebbra (Cod. Carol. epist. 45, p. 178, 179). Un’altra ragione contro quel matrimonio era l’esistenza d’una prima moglie. (Muratori, Ann. d’Ital., t. VI, p. 232, 233-236, 237.) Ma Carlomagno si facea lecito la poligamia o il concubinato.
  66. Vedi gli Annali d’Italia del Muratori, t. VI, e le tre prime Dissertazioni delle sue Antiquitat. Italiae medii aevi, t. I.
  67. Oltre gli storici ordinarii, tre critici francesi, Launoy (Opera, t. V. part. II, l. VII, epist. 9. p. 477-487), Pagi (Critica, A. D. 751; num. 1-6; A. D. 752, num. 1-10) e Natalis Alexander (Hist. Novi Testamenti, Dissertat. 2; p. 96-107) trattarono dottamente, e con accuratezza questo soggetto del discacciamento di Childerico, ma dando un contorno ai fatti per salvare l’independenza della corona. Si trovarono però terribilmente angustiati dai passaggi che traggono da Eginardo, da Teofane e dagli antichi Annali Laureshamenses, Fuldenses, Loisielani.
  68. Non è maraviglia che in quei tempi d’ignoranza di tutte le cose, e di confusione di tutte le idee, un vasto campo si sia presentato ad alcuni Papi per estendere grandemente con molti disordini ed abusi il loro potere, e per trasformarlo a danno dei diritti dei re e dei governi, e tacendo le affievolite leggi, e le volontà, sieno in Europa, divenuti gli oracoli in ogni argomento civile, e politico; ma gli abusi non somministrano ragioni di offendere la religione. (Nota di N. N.).
  69. Non fu assolutamente allora la prima volta che si usò l’unzione dei re d’Israele; se ne fece uso sopra un teatro meno cospicuo nel sesto e settimo secolo dai Vescovi della Brettagna e della Spagna. L’unzione reale di Costantinopoli fu presa ad imprestito dai Latini nell’ultima epoca dell’Impero. Costantino Manasse parla di quella di Carlomagno come d’una cerimonia straniera, giudaica e incomprensibile. Vedi i Titoli d’onore di Selden nelle sue opere, vol. 3, part. 1. p. 234-249.
  70. Quantunque, a dir vero, gli Imperatori romani cristiani e cattolici del quarto, e quinto secolo, non sieno stati unti, non può chiamarsi superstiziosa la cerimonia dell’unzione, che, sebbene in origine ebraica, non fu o condannata, o tolta via dal cristianesimo, che riformando il giudaismo su d’esso essenzialmente si fondò; e poi cotal cerimonia serviva e serve a rendere specialmente per il volgo più rispettabili i sovrani, i quali lo sono grandemente per gli uomini ragionevoli, e fedeli, anche senza la cerimonia anzidetta. (Nota di N. N.)
  71. Vedi Eginardo, in vita Caroli Magni, c. 1, p. 9, ec. c. 3, p. 24. Childerico fu deposto, jussu, e la razza Carlovingia ristabilita sul trono, auctoritate pontificis romani. Launoy ed altri scrittori pretendono che quest’energiche parole sono suscettive d’un’interpretazione assai mite; sia pure; ma Eginardo conosceva bene il Mondo, la Corte e la lingua latina.
  72. Vedi sul titolo e sui poteri di patrizio di Roma, Ducange (Gloss. lat., t. V, p. 148-151), Pagi (Crit., A. D. 740; num. 6-11), Muratori (Annali d’Italia, tom. VI, 308-329) e Saint-Marc (Abrégé chronologique de l’Italie, t. I, p. 379-382). Di tutti questi scrittori il Francescano Pagi è più disposto a ravvisare nel patrizio un luogotenente della Chiesa, anzi che dell’Impero.
  73. Possono i difensori del Papa rattemperare il significato simbolico della bandiera e delle chiavi; ma sembra che le parole ad regnum dimisimus o direximus (Codex Carol. epist. I, t. III, part. II, p. 76) non ammettino nè palliativi nè sutterfugii. Nel manoscritto della Biblioteca di Vienna leggesi rogum, preghiera o supplica, in vece di regnum (Vedi Ducange), e questa rilevante correzione distrugge il titolo regio di Carlo Martello. (Catalani, nelle sue Prefazioni critiche degli Annali d’Italia, t. XVII, p. 95-99.)
  74. Leggesi nel Liber pontificalis, che contiene relazioni autentiche intorno a quel ricevimento: Obviam illi ejus sanctitas dirigens venerabiles cruces, id est signa; sicut mos est ad exarchum aut patricium suscipiendum, eum cum ingenti honore suscipi fecit (t. III, part. I., p. 185).
  75. Paolo Diacono, che scrisse prima dell’epoca in cui assunse Carlomagno il titolo d’Imperatore, parla di Roma come d’una città suddita di questo principe. „Vestrae civitates„ (ad Pompeium Festum) „suis addidit sceptris„ (De Metensis Ecclesiae episcopis). Alcune medaglie carlovingie coniate a Roma, guidarono Le Blanc in una dissertazione elaborata, ma molto parziale, risguardante l’autorità che aveano i Re di Francia su Roma, in qualità di patrizii e d’Imperatori. (Amsterdam, 1692, in 4.)
  76. Mosheim (Instit. Hist. eccl., p. 263) esamina questa donazione con pari saggezza e buona fede. L’Atto originale non è mai stato prodotto; ma il Liber pontificalis descrive questo bel presente (p. 171), e il Codex Carolinus lo suppone. Sono queste due Opere monumenti contemporanei, ed è l’ultimo ancor più autentico, perchè fu conservato nella Biblioteca dell’Imperatore, e non in quella del Papa.
  77. Tra le pretensioni esorbitanti e le concessioni assai limitate dell’interesse e del pregiudizio, di cui non è esente lo stesso Muratori (Antiquitat., t. I, p. 65-68), nel determinare i confini dell’Esarcato e della Pentapoli presi a guida la Dissert. chorograph. Italiae medii aevi, t. X, p. 160-180.
  78. Spoletini deprecati sunt, ut eos in servitio B. Petri reciperet et more Romanorum tonsurari faceret (Anastasio p. 185); ma si può domandare, se essi diedero sè stessi o il loro paese.
  79. Saint-Marc (Abrégé, t. 1, p. 390-408) che ha bene studiato il Codex Carolinus, esamina accuratamente qual fu la politica e quale la donazione di Carlomagno. Credo con lui che quella donazione non fu che verbale. L’Atto il più antico di donazione che si produce è quello dell’Imperatore Luigi il Pio (Sigonio, De regno Italiae, l. IV, Opera, t. II, p. 267-270). Si dubita assai della sua autenticità, o almeno della sua integrità (Pagi, A. D. 817, num. 7, ec; Muratori, Annali, t. VI, p. 432, ec; Dissertat. chorographica, p. 33, 34); ma non trovo negli autori alcuna ragionevole obiezione fondata sul modo con cui disponeano que’ principi liberamente di ciò che loro non apparteneva.
  80. Domandò Carlomagno i mosaici del palazzo di Ravenna ad Adriano I, cui apparteneano; li ottenne; voleva abbellire con essi Aquisgrana (Codex Carol., epist. 67, p. 223).
  81. I Papi si lamentavano spesso delle usurpazioni di Leone di Ravenna (Codex Carol., epist. 51, 52, 53, p. 200-205). Si corpus S. Andreae, fratris Germani S. Petri, hic humasset, nequequam nos romani pontifices sic subjugassent (Agnellus, Liber pontificalis, in Script. rerum ital., t. II, part. I, p. 107).
  82. La occultazione, o fabbricazione di documenti si fece per altro per promuovere ed aggrandire la signoria temporale de’ Papi, e non nelle cose intrinseche alla religione; e poi anche non consta ch’essi espressamente abbiano dato cotal ordine; ciò avvenne per opera dei loro ministri, zelanti di promuoverne la potestà temporale, e la sovranità. Non può negarsi la falsità della donazione di Costantino: se ne ignora l’autore: tutti gli eruditi anche cattolici lo confessano; (Vedi anche Petrus de Marca Archiep. Paris, De ficta donatione Constantini.) La falsità delle lettere decretali de’ primi Papi fino a Siricio comparve verso la metà del secolo nono, fu riconosciuta per ragioni evidenti da tutti i critici ed eruditi non molto dopo il Concilio di Trento: lo stesso Cardinal Baronio (annali an. 865) e lo stesso Cardinal Bellarmino (de Rom. Pontifice l. 2.) non la negano. Quello che la distese fu un certo Vescovo Isidoro Mercatore (Hincmaro Opuu) aiutato da un monaco: vennero di Spagna, e per opera di Riculfo, Vescovo di Magonza, divotissimo de’ Papi, furono divulgate ed acquistarono credito. Nicolò I, ed i suoi successori, nel secolo nono e decimo, vennero a capo di farle ricevere da’ Vescovi, e da tutti furono presentate a’ Sovrani di que’ dì, ed inserite nelle Collezioni di Diritto canonico; finalmente anche il monaco Graziano le pose nella sua autorevole, ed amplissima Collezione, e divennero testo in tutte le scuole degli ecclesiastici, ed in tutte le Università nelle cattedre di Diritto. Furono citate in alcuni Concilii, e riputate autentiche. I Vescovi di Francia per altro furono gli ultimi ad accettarle: tandem eo adventum est ut tantis nominibus veterum Pontificum cesserint una cum reliquis episcopis etiam Gallicanae ecclesiae rectores. (De Marca l. 3. c. 5) Accrebbero grandemente l’autorità dei Papi nelle cose ecclesiastiche, civili, e politiche. Di esse dice il dotto Benedettino Padre Coustan nella sua prefazione: Porro hac fraude quam sit perniciose de ecclesia meritus (Isidorus) vix dici potest: hinc debilitati penitus fraetique disciplinae nervi, perturbata episcoporum jura, sublatae judiciorum leges ex probrata catholicis nimia credulitas, fuco fasi ec. Diedero grande motivo a’ protestanti di far accuse a’ cattolici. (Nota di N. N.)
  83. Piissimo Constantino magno, per ejus largitatem S. R. Ecclesia elevata et exaltata est, et potestatem in his Hesperiae partibus largiri dignatus est.... Quia ecce novus Constantinus his temporibus ec. (Cod. Carol. epist. 49, in t. III, part. II, p. 195). Pagi (Critica, A. D. 324, num. 16) li attribuisce ad un impostore dell’ottavo secolo, che prese il nome di Sant’Isidoro. Il suo umile titolo di peccator fu cangiato per ignoranza, ma acconciamente, in quello di mercator. Ebbero in fatti quegli scritti supposti uno spaccio felice, e pochi fogli di carta furono pagati con tante ricchezze e tanto potere.
  84. Fabricio (Bibl. graec., t. VI, p. 4-7) ha accennato le varie edizioni di quest’Atto in greco e in latino. Sembra che la copia riferita da Lorenzo Valla, e da lui medesimo rigettata, sia stata fatta sugli Atti supposti di San Silvestro, o sul decreto di Graziano, al quale, secondo lui ed altri scrittori, fu aggiunta di soppiatto.
  85. Non può chiamarsi ribellione la forte opposizione di Gregorio II in Italia all’Iconoclastia dell’Imperatore Leone; se poi per questa i popoli d’Italia, avvertiti da Gregorio dell’errore, si sollevarono, si ribellarono, ciò fu un effetto di quella, giacchè quei popoli volevano le Immagini, e non una ribellione di Gregorio, che fu invano anche accusato da’ malevoli d’aver impedito l’esazione di una gravezza. Gregorio, ch’era allora suddito dell’Imperatore, conosceva i doveri della suddittanza. (Nota di N. N.)
  86. Nel 1059, secondo l’opinione del Papa Leone IX e del cardinale Pietro Damiano, (veramente loro opinione?) colloca Muratori (Annali d’Italia, tom. IX, pag. 23, 24) le pretese donazioni di Luigi il Pio, d’Ottone, ec. (De Donatione Constantini. Vedi una Dissertazione di Natalis Alexander, seculum 4, Dissert. 25, p. 335-350).
  87. Vedi un racconto circostanziato di questa controversia (A. D. 1105) che si levò in occasione d’un processo nel Chronicon Farsense (Script. rer. ital., t. II, part. II, p. 637, ec.), e un copioso estratto degli archivi di quell’abbazia di Benedettini. Erano altre volte quegli archivi accessibili alla curiosità degli stranieri (Le Blanc e Mabillon), e quello ch’essi contengono avrebbero arricchito il primo volume dell’Historia monastica Italiae di Quirini; ma la timida politica della Corte di Roma li tiene oggigiorno chiusi (Muratori, Script. rerum ital., t. II, part. II, p. 269); e Quirini, che pensava al cappello di Cardinale, cedette alla voce dell’autorità, ed alle insinuazioni dell’ambizione. (Quirini, Comment., part. II, p. 123-136.)
  88. Lessi nella raccolta di Scardio (De potestate imperiali ecclesiastica, p. 734-780) questo discorso animato, composto da Valla (A. D. 1440) sei anni dopo la fuga del Papa Eugenio IV. È un’operetta assai veemente, e dettata dallo spirito di parte. L’autore giustifica ed eccita la ribellione dei Romani, e vedesi ch’egli avrebbe approvato l’uso del pugnale contro il loro tiranno sacerdotale. Sì fatta critica dovea aspettarsi la persecuzione del clero; pure Valla si riconciliò e fu sepolto nel Laterano (Bayle, Diction. critique, art. Valla; Vossio, De Histor. latin. p. 580.)
  89. Vedi Guicciardini, servo dei Papi, in quella lunga e preziosa digressione, che ripigliò il suo luogo nell’ultima edizione correttissima, fatta sul manoscritto dell’autore, e stampata in quattro volumi in 4, sotto il nome di Friburgo 1775 (Istoria d’Italia), t. I, p. 385-395).
  90. Il Paladino Astolfo trovò quell’Atto nella luna fra le cose perdute nel nostro Mondo (Orlando Furioso XXXIV, 80.)

    Di varii fiori ad un gran monte passa,
    Ch’ebbe già buono odore, or putia forte.
    Questo era il dono (se però dir lece)
    Che Constantino al buon Silvestro fece.

    E pure questo poema incomparabile fu approvato da una Bolla del Papa Leone X.

  91. Vedi Baronio, A. D. 324 num. 117-123; A. D. 1191, num. 51 etc. Vorrebbe supporre, che Costantino offerì Roma a Silvestro, e che questo Papa la ricusò. Ha un’idea stravagantissima dell’Atto di donazione; la crede opera dei Greci.
  92. „Baronius n’en dit guère contre; encore en a t-il trop dit, et l’on voulait sans moi (cardinal du Perron) qui l’empêchai, censurer cette partie de son histoire. J’en devisai un jour avec le pape, et il ne me répondit autre chose: Che volete? i canonici la leggono; il le disait en riant.„ (Perroniana p. 77.)
  93. Il rimanente dell’istoria delle Immagini da Irene fino a Teodora, è stata fatta, per parte dei cattolici, da Baronio e Pagi (A. D. 780-840), da Natalis Alexander (Hist. N. T. seculum 8, Panoplia adversus haereticos, p. 118-178), e da Dupin (Bibl. ecclés., t. VI. p. 136-154); per parte de’ protestanti da Spanheim (Hist. Imag. p. 305-639), da Basnagio (Hist de l’Eglise, t. I. p. 566-572, t. II. p. 1362-1385), e da Mosheim (Institut. Hist. eccles. secul. VIII. IX). I protestanti, trattone Mosheim, sono inaspriti dalla controversia, ma i cattolici, eccetto Dupin, si danno a divedere ardenti di tutto il furore e di tutta la superstizione monastica; nè da questo odioso contagio sa preservarsi lo stesso Le Beau (Hist. du Bas-Empire) il quale era pure un uom di mondo e un letterato.
  94. Non è maraviglia, che Costantino V Copronimo iconoclasta, ed anche generalmente incredulo, abbia unito inconvenientemente in lui il potere civile all’ecclesiastico. Gli illuminati governi conoscono i limiti d’ambedue. (Nota di N. N.)
  95. Le Immagini non erano considerate idoli dai cattolici istruiti come non lo sono neppure oggidì, e come abbiamo già mostrato; gli Iconoclasti poi le consideravano tali, e perciò per uno zelo che diveniva male inteso le proscrivevano. (Nota di N. N.)
  96. Rimandiamo il lettore alla nostra nota in proposito. Vedi a pag. 248. (Nota di N. N.).
  97. Vedi gli Atti in greco e in latino del secondo Concilio Niceno, coi documenti relativi, nel volume ottavo dei Concilii (p. 645-1600 ). Una version fedele, corredata d’annotazioni critiche, moverebbe i lettori, secondo che fossero disposti nell’animo, o al riso o al pianto.
  98. I Legati del Papa che intervennero al Concilio erano messaggeri inviati a caso, sacerdoti senza missione speciale, che furon disapprovati nel lor ritorno. I cattolici persuasero alcuni monaci vagabondi a rappresentare i Patriarchi d’Oriente. Questo curioso aneddoto ci vien rivelato da Teodoro Studita, uno dei più Iconoclasti del suo secolo (Epist. 1, 38 in Sirmond, Opp. t. V, p. 1319.)
  99. Che ha a fare una estrinseca particolarità degli Atti del cattolico, e generale Concilio di Nicea II, la quale partecipava delle idee di que’ tempi, colla decisione di lui che ristabilì il culto delle Immagini? quella particolarità nulla toglie all’autorità del Concilio. (Nota di N. N.)
  100. Συμφερει δε σοι μη καταλιπειν εν τη πολει ταυτη πορνειον εις ο μη εισελθης, η ινα αρνηση το προσκυνειν τον κυριον ημον και θεον Ιησουν Χριςον μετα της ιδιας αυτου μητρος εν εικονι. Queste visite non poteano essere innocenti poichè il Δαιμων πορνειας (il demonio della fornicazione) Επολεμει δε αυτον .... εν μια ουνως επεκειτο αυτω σφοδρα, Actio IV, pag. 109; Actio V, p. 1031.
  101. Se Costantino che convocò il primo Concilio generale di Nicea, presieduto dai Legati di Silvestro Papa, l’anno 325, che vi fu presente con gran pompa imperiale, e con soldatesche, e dove contro i Vescovi, e contro tutti gli altri numerosissimi seguaci d’Ario, per cui furon detti Ariani, fu determinato secondo l’Evangelo, che Gesù Cristo era consustanziale al Padre, espressione che fu posta nel Credo, si lasciò trasportare da furiosa gelosia, e fece uccidere Crispo suo figlio, e indi conosciuta la calunnia della moglia Fausta, matrigna di Crispo, perchè questi non aveva voluto condiscendere alla sua brama, mise a morte anch’essa, ciò nulla pregiudica l’ortodossia, cioè la retta opinione dei cattolici, a’ quali Costantino non solo diede pace ma protezione validissima, e pubblica, mettendo la religione cattolica in trono, perseguitando da una parte la religione politeistica nella quale era nato, e cresciuto, e dall’altra, gli Ariani, e colmando di ricchezze e d’autorità il Papa, i Vescovi cattolici, e tutto il Clero cattolico, onde venne accrescimento e splendore a tutto il Corpo ecclesiastico, ed alla religione. Se l’Imperatrice Irene fece cavar gli occhi a suo figlio, Costantino VI, per feroce avidità di regnare, ciò neppure pregiudica l’autorità, ed il retto giudizio del Concilio generale VI, di Nicea II, da lei convocato per far decretare il culto delle Immagini, e la cui decisione osservano i cattolici anche oggidì. (Nota di N. N.)
  102. Vedi alcune particolarità su questa controversia nell’Alessio d’Anna Comnena (lib. V. p. 129), e in Mosheim (Instit. Hist. ecclés. p. 371, 372.)
  103. Noi intendiamo di parlare del Libri Carolini (Spanheim, p. 443-529) composti nella Reggia o nei quartieri d’inverno di Carlomagno a Worms, (A. D. 790), e mandati da Engeberto al Papa Adriano I, che ricevutili, scrisse una grandis et verbosa epistola. (Concil., t. VIII, p. 1553.) Quei Carolini propongono cento venti obiezioni contro il Concilio Niceno; ecco qualche saggio dei fiori rettorici che vi si incontrano: Dementiam priscae gentilitatis... obsoletum errorem... argumenta insanissima et absurdissima.... derisione dignas naenias, etc.
  104. Crediamo che il lettore sia già munito abbastanza, dalle cose dette, contro questi scherzi inconvenienti, e queste ironie. Quanto poi ai libri detti Carolini, mandati dall’Imperatore Carlomagno al Papa Adriano I, contro il generale Concilio VI, di Nicea II, furono essi condannati da questo Pontefice colla sua lettera; e quanto al Concilio di Francoforte di 360 Vescovi, che decretò contro il culto dalle Immagini e condannò il Concilio generale VI suddetto, essendo provinciale, o nazionale, come si voglia, non ha alcuna autorità contro il Concilio generale di Nicea convocato da Irene, avvalorato, e legittimato dalla presenza dei Legati, o procuratori del Papa. (Nota di N. N.)
  105. Le assemblee convocate da Carlomagno concernevano l’amministrazione ad un tempo e la Chiesa; e i trecento Membri (Nat. Alexander, sec. VIII. p. 53.) che sedettero e diedero voto nell’Adunanza di Francoforte, dovean comprendere non solo i Vescovi, ma gli abati e i laici ragguardevoli.
  106. Qui supra sanctissima patres nostri (episcopi et sacerdotes) omnimodis servitium et adorationem imaginum renuentes, contempserunt, atque consentientes condemnaverunt. (Concil. t. IX p. 101. canon. 2. Francoforte.) Sarebbe necessario un cuor ben duro per non sentir compassione delle fatiche del Baronio, del Pagi, d’Alexander e di Maimburgo ec. impiegate ad eludere questa sciagurata sentenza.
  107. Teofane (p. 343) indica i demanii della Sicilia e della Calabria che davano una rendita annua di tre talenti e mezzo d’oro, forse settemila lire sterline. Luitprando fa una numerazione più pomposa dei patrimonii della Chiesa romana, nella Grecia, nella Giudea, nella Persia, nella Mesopotamia, in Babilonia, nella Libia, ingiustamente ritenuti dall’Imperator greco (Legat. ad Nicephorum, in Script. rerum Ital., t. II. part. I. p. 481.)
  108. Qui si parla della gran diocesi dell’Illiria orientale con l’Apulia, la Calabria e la Sicilia: Thomassin (Discip. de l’Eg., t. 1. p. 145). Per confessione dei Greci, aveva il Patriarca di Costantinopoli distaccati da Roma i Metropolitani di Tessalonica, d’Atene, di Corinto, di Nicopoli e di Patrasso (Luc. Holsten. Geograph. sacra, p. 22) e i suoi conquisti spirituali andavano fino a Napoli ed Amalfi, (Giannone, Istoria civile di Napoli., t. I, p. 517-524. Pagi A. D. 730 num. 11.)
  109. In hoc ostenditur, quia ex uno capitulo ab errore reversis, in aliis duobus, in eodem (era forse lo stesso?) permaneant errore ....de diocesi S. R. E. seu de patrimoniis iterum increpantes commonemus, ut si en restituere noluerit, haereticum eum pro hujusmodi errore perseverantia decernemus. (Epist. Adriani papae ad Carolum Magnum, in Concil. t. VIII, p. 1598) Aggiunge una ragione che direttamente si opponeva al suo procedere, dicendo, di proferire ai beni di questo Mondo corruttibile la salute dell’anime e la regola della Fede.
  110. Fontanini non vede negl’Imperatori se non se gli avvocati della Chiesa advocatus, et defensor S. R. E (Vedi Ducange, Gloss. lat. t. I, p. 97). Muratori, suo avversario, considera il Papa come l’Esarca dell’Imperatore. Giusta l’opinione più imparziale di Mosheim (Instit. Hist. ecclés., p. 264, 265), i Papi reggeano Roma come vassalli dell’Impero, e come possessori della più onorevole specie di feudo o di beneficio: queste particolarità, per altro premuntur nocte caliginosa!
  111. Un epitafio di trentotto versi, di cui si dichiara autore Carlomagno (Concil. t. VIII, p. 520), ne ragguaglia del suo merito e delle sue speranze.

         Post patrem lacrymans Carolus haec carmina scripsi.
    Tu mihi dulcis amor, te modo plango pater....
         Nomina jungo simul titulis, clarissima, nostra
    Adrianus, Carolus, rex ego, tuque pater.

    Può credersi che Alcuino facesse questi versi, ma che poi questo glorioso tributo di lagrime venisse da Carlomagno.

  112. Ad ogni nuovo Papa si fa quest’annuncio Sancte pater, non videbis annos Petri, i venticinque anni. Esaminando la lista dei Papi si osserva che il termine medio del loro regno è di ott’anni circa; termine assai breve per un Cardinale ambizioso.
  113. Anastasio (t. III, part. 1. p. 197, 198) lo afferma positivamente, e lo credono pure alcuni Annalisti francesi; ma sono più ragionevoli o più sinceri Eginardo ed altri scrittori dello stesso secolo. Unus ei oculus paululum est laesus, dice Giovanni, Diacono di Napoli (Vit. episcop. Napol., in Scriptores, Muratori, t. 1, part. 11. p. 312). Un contemporaneo, cioè Teodolfo, vescovo d’Orleans, osserva prudentemente (l. 11. carm. 3 ):

         Reddita sunt? mirum est: mirum est auferre nequisse.
    Est tamen in dubio, hinc mirer an inde magis..

  114. Si fece veder due volte in Roma ad istanza d’Adriano e di Leone, „longa tunica et chlamide amictus, et calceamentis quoque romano more formatis„. Eginardo (c. 23, p. 109-113) descrive, alla maniera di Svetonio, la semplicità del suo abito, talmente usitato in Francia, che quando Carlo il Calvo ritornò colà con un vestito forestiero, i cani patriotti gli abbaiavano dietro (Gaillard, Vie de Charlemagne, t. IV, p. 109).
  115. V. Anastasio (p. 199) ed Eginardo (c. 28; p. 124-128). L’unzione è riferita da Teofane (p. 399); il giuramento da Sigonio, (giusta l’Ordo romanus); e dagli Annali Bertiniani (Script. Muratori t. 11, part. II, p. 505) l’adorazione del Papa, more antiquorum principum.
  116. Questo gran fatto della traslazione o restaurazione dell’Impero Occidentale è narrato e discusso da Natalis Alexander (seculum, 9, Dissert. 1 p. 390-397), dal Pagi (t. III, p. 418), dal Muratori (Annali d’Italia, t. VI. p. 339-352), dal Sigonio (De regno Italiae, l. IV, Opp. t. 2. p. 247-251), dallo Spanheim (De ficta translatione imperii), dal Giannone (t. 1. p. 395-405), da Saint Marc (Abrégé chronologique, t. 1. p. 438-450), dal Gaillard (Hist. de Charlemagne. t. II, p. 386-446). Questi moderni quasi tutti van soggetti a qualche pregiudizio religioso o nazionale.
  117. Mably (Observ. sur l’Hist. de Franc.), Voltaire (Hist. générale), Robertson (Hist. de Charles V.) e Montesquieu (Esprit. des Lois, l. XXXI. c. 28) hanno profuso a Carlomagno gli elogi. Il Signor Gaillard pubblicò nel 1782 la storia di questo monarca (4. Vol. in 12), la quale mi fu assai profittevole, e ne ho usato liberamente. L’autore è giudizioso ed umano; la sua opera elegante ed accurata. Ho per altro esaminato anche i monumenti originali dei regni di Pipino e di Carlomagno nel quinto volume degli Storici di Francia.
  118. La visione di Veltin, composta da un monaco, undici anni dopo la morte di Carlomagno, lo mostra in purgatorio, ove un avvoltoio gli sta lacerando l’organo de’ suoi peccaminosi piaceri, senza toccare le altre parti del suo corpo, emblemi delle sue virtù (V. Gaillard, t. II, p. 317-360.)
  119. Il matrimonio d’Eginardo con Emma, figlia di Carlomagno, è abbastanza confutato, per mio avviso, dal probrum e dalla suspicio rovesciate da lui su queste belle fanciulle, senza eccettuarne quella che se gli assegna per moglie (c. XIX, p. 98-100 cum notis Schmincke); un marito avrebbe avuto un animo troppo forte se avesse adempiuto così esattamente i doveri d’uno storico.
  120. Oltre le strage e le trasmigrazioni, a cui furono assoggettati i popoli della Sassonia, decretò Carlomagno la pena di morte ai delitti seguenti: 1. Per chi ricusava il Battesimo; 2. per chi si dicesse battezzato col fine d’evitare il Battesimo; 3. per chi ricadeva nell’idolatria; 4. per chi uccideva un sacerdote o un vescovo; 5. per chi sagrificasse vittime umane; 6. per chi mangiasse carne in quaresima; ma tutti i delitti si espiavano col Battesimo o con una penitenza (Gaillard t. II, p. 241-247); e i Cristiani sassoni diveniano gli eguali e gli amici dei Francesi. (Struv., Corpus Hist. germanicae, p. 133).
  121. Il famoso Rutlando, Rolando, Orlando fu ucciso in quel fatto cum compluribus aliis. La verità s’incontra in Eginardo (c. 9. Hist. de Charlemagne) p. 51-56.), e la favola in un supplimento ingegnoso del Signor Gaillard (t. III, p. 474). Van troppo superbi gli Spagnuoli d’una vittoria attribuita dai Monumenti storici ai Guasconi, e dai Romani ai Saracini.
  122. Schmidt, seguendo le migliori autorità, accenna i disordini interni e la tirannia del suo regno (Hist. des Allemands. t. II, p. 45-49).
  123. Omnis homo ex sua proprietate legitimam decimam ad Ecclesiam conferat. Experimento enim didicimus, in anno, quo valida illa fames irrepsit, ebullire vacuas annonas a daemonibus devoratas, in voces exprobationis auditas. Tal’è il decreto e l’asserzione del gran Concilio di Francoforte. (Canon. XXV. t. IX, p. 105) Selden (Hist. of Tythes; Works, vol. III, part. 2. p. 1146) e Montesquieu (Esprit des Lois, l. XXXI, c. 12) risguardano Carlomagno come il primo autore legale della decima. Da vero i proprietarii gliene hanno grandi obbligazioni!...
  124. Eginardo (c. 25, p. 119) asserisce a chiare note: tentabat et scribere.... sed parum prospere successit labor praeposterus et sero inchoatus. I moderni hanno pervertito e corretto il senso naturale di queste parole, e dal titolo solo della dissertazione del Signor Gaillard (t. III, p. 247-260) trapela la sua parzialità.
  125. V. Gaillard, t. III, p. 138-176, e Schmidt, t. II, p. 121-129.
  126. Il Signor Gaillard (t. III, p. 572) determina la statura di Carlomagno (V. la Dissertazione di Marquard Freher, ad calcem Eginhard. p. 220 etc.) a cinque piedi, nove pollici di Francia, cioè a circa sei piedi, un pollice e un quarto, misura d’Inghilterra. I Romanzieri gli danno otto piedi, e a questo gigante attribuiscono un vigore e un appetito straordinario: con un sol colpo la sua buona spada, la Giojosa, divideva per mezzo un cavaliere col cavallo; mangiava in un sol pasto un’oca, due polli, un quarto d’agnello etc.
  127. V. un’opera concisa ma esatta ed originale del Signor d’Anville (Etats formés en Europe après la chute de l’Empire rom. en Occident, Paris, 1771, in-4.), con una carta che contiene tutto l’Impero di Carlomagno. Le varie parti sono illustrate, per la Francia dal Valois (Notitia Galliarum), per l’Italia dal Beretti (Dissertatio chorographica), e per la Spagna dal Marca (Marca Hispanica). Confesso di avere pochi materiali per la geografia del medio evo della Germania.
  128. Eginardo, dopo avere rapidamente narrato le guerre e i conquisti di Carlomagno (Vit. Carol. c. 5-14) ricapitola in poche parole (c. 15) le varie contrade sottomesse al suo Imperio. Struvio (Corpus Hist. german. p. 118-149), ha inserito nelle sue note i testi delle cronache antiche.
  129. Un diploma conceduto al monastero di Alaon (A. D. 845) da Carlo il Calvo ne dà questa genealogia. Non so se in quella catena tutti gli anelli del nono e decimo secolo sian tanto saldi quanto gli altri. Nulla di meno la genealogia è approvata e difesa tutta intera dal Signor Gaillard, (t. II. p. 60-81. 203-206), il quale afferma, che la famiglia di Montesquieu (non già quella del presidente di Montesquieu), discende, per donne, da Clotario e da Clodoveo. Pretensione innocente.
  130. I governatori o Conti della Marca spagnuola, verso l’anno novecento, alzarono lo stendardo della rivolta contro Carlo il Semplice; e i Re di Francia non ne han ricuperata che una picciola parte (il Rossiglione) nel 1642 (Longuerne Description de la France; t. I. p. 220-222). Il Rossiglione per altro contiene 188,900 abitanti, e paga 2,600,000 lire d’imposizione (Necker, Administration des Finances, t. I. p. 278, 279); vale a dire che forse contiene più abitanti, e sicuramente paga più che tutta la Marca di Carlomagno.
  131. Schmidt. Hist. des Allemands, t. II. pag. 200 etc.
  132. Vedi Giannone, t. I. p. 374, 375, e gli Annali del Muratori.
  133. Quot praelia in eo gesta! quantum sanguinis effusum sit! testatur vacua omni habitatione Pannonia, et locus in quo regia Cagani fuit ita desertus, ut ne vestigium quidem humanae habitationis appareat. Tota in hoc bello Hunnorum nobilitas periit, tota gloria decidit, omnis pecunia et congesti ex longo tempore thesauri direpti sunt.
  134. Non intraprese la congiunzione del Reno e del Danubio che per agevolare le operazioni della guerra di Pannonia (Gaillard, Vie de Charlemagne, t. II, p. 312-315). Pioggie esorbitanti, fatiche militari e terrori superstiziosi interruppero questo canale, che sarebbe stato lungo soltanto due leghe; se ne vedono ancora alcune vestigia nella Svevia (Schaepflin, Hist. de l’Accad. des inscript. t. XVIII. p. 256. Molimina fluviorum, etc. jungendorum, p. 59-62).
  135. Vedi Eginardo (c. 16), e il Signor Gaillard (t. II, p. 361-385), che riportano, senza spiegarsi troppo sull’autorità a cui s’appoggiano, il carteggio di Carlomagno e di Egiberto, il dono della sua spada fatto dall’Imperatore al principe Sassone, e la modesta risposta di questo. Se tale anneddoto è vero, sarebbe stato un ornamento di più per le nostre storie d’Inghilterra.
  136. Solamente gli Annali francesi parlano di questa corrispondenza di Carlomagno con Harun al Raschid; e gli Orientali hanno ignorato l’amicizia del Califfo per un cane di Cristiano; gentile espressione usata da Harun parlando dell’Imperatore dei Greci.
  137. Gaillard, t. II, p. 331-365, 471-476, 492. Io ho preso da lui le sue giudiziose osservazioni sul disegno di conquiste di Carlomagno, e la distinzione non men giudiziosa ch’egli fa de’ suoi nemici del primo e del secondo circondario (t. II. p. 184-509 ec.).
  138. Thegan, il biografo di Luigi, ci narra quest’incoronazione; e Baronio da buon uomo la trascrisse (A. D. 1813, num. 13, ec. Vedi Gaillard, t. II. p. 506, 507, 508) sebbene sia tanto contrario alle pretensioni dei Papi. Vedi sulla successione dei principi Carlovingi, gl’istorici di Francia, d’Italia e d’Alemagna, Pfeffel, Schmidt, Velly, Muratori, ed anche Voltaire, il quale dipinge sovente con esattezza e sempre con eloquenza le cose che narra.
  139. Era figlio d’Ottone, figlio di Lodolfo, a favore del quale era stato istituito il Ducato di Sassonia. A. D. 858. Ruotgero il biografo di S. Brunone, (Bibl. Bunavianae Catalog., t. III. vol. II. p. 679) dipinge nella più bella sembianza la famiglia di questo principe. Atavorum atavi usque ad hominum memoriam omnes nobilissimi; nullus in eorum stirpe ignotus, nullus degener facile reperitur. (Apud Struvium, Corp. Hist. german. p. 216). Per altro Gundling (in Henrico Aucupe) non crede che discendesse da Vitichindo.
  140. Vedi il trattato di Conringio (De finibus imperii germanici, Francfort, 1680, in 4.). Confuta le idee stravaganti che alcuni han voluto darci dell’estensione dell’Impero di Roma e dei Carlovingi; discute con moderazione i diritti della Germania, quelli de’ suoi vassalli e dei vicini.
  141. La forza dell’uso mi costringe a porre Corrado I ed Enrico I l’Uccellatore nel novero degl’Imperatori, titoli che quei Re della Germania non presero mai. Gl’Italiani, per esempio Muratori, sono più scrupolosi e più esatti, e non contano che i principi coronati a Roma.
  142. Invidiam tamen suscepti nominis C. P. imperatoribus super hoc indignantibus magna tulit patientia, vicitque eorum contumaciam.... Mittendo ad eos crebras legationes, et in epistolis fratres eos appellando. (Eginardo c. 28. p. 128). E forse per cagion loro affettò egli qualche ripugnanza coll’esempio d’Augusto a ricevere l’Impero.
  143. Teofane parla dell’incoronazione e dell’unzione di Carlo Καρουλλος (Chronograph. p. 399), e del suo trattato di matrimonio con Irene (p. 102) ignoto ai Latini. Il Signor Gaillard riporta i negoziati di questo principe coll’Impero greco (t. II, p. 446-468).
  144. Osserva benissimo il Signor Gaillard, che quest’apparato non era che una specie di farsa da fanciulli, ma che per altro era fatta al cospetto e in grazia di fanciulli grandi.
  145. Si raffronti nei testi originali raccolti dal Pagi (t. III. A. D. 812. num. 7. A. D. 824, num. 10 ec.) la figura che fa Carlomagno e quella del figlio. Quando gli ambasciatori di Michele, i quali per altro furono riprovati, si volsero al primo, more suo, id est lingua graeca laudes dixerunt, imperatorem eum et βασιλεα appellantes, e all’ultimo applicarono quest’espressione: vocato Imperatori Francorum, etc.
  146. Vedi questa lettera nei Paralipomena dell’anonimo autore Salernitano (Script. Ital. t. II par. II. p. 243 254 c. 93-107) che fu scambiato da Baronio (A. D. 871. num. 51-71) per Erchemperto, quando lo copiò negli Annali.
  147. Ipse enim vos, non imperatorem id est βασιλεα sua lingua, sed ob indignationem Ρηγα, id est regem nostra vocabat. (Luitprando, in Legat. in script. Ital., t. II. part. I p. 479). Il Papa esortò Niceforo, Imperator dei Greci, a pacificarsi con Ottone, Augusto Imperator de’ Romani. Quae inscriptio secundum Graecos peccatoria et temeraria.... Imperatorem inquiunt, universalem, Romanorum, Augustum, magnum, solum, Nicephorum, (p. 486).
  148. Si trova l’origine e i progressi del titolo di Cardinale nel Tomassino (Discipline de l’Eglise, t. I. p. 1261-1298), nel Muratori (Antiquitat. Italiae medii aevi, t. VI, Dissert. 61, p. 159-182) e nel Mosheim (Instit. Hist. eccles., p. 345-347), il quale indica esattamente le forme della elezione e i cangiamenti successivi. I Cardinali vescovi, tanto rispettati da Pier Damiano, sono caduti a livello degli altri Membri del Sagro Collegio.
  149. Firmiter jurantes, numquam se papam electuros aut ordinaturos, praeter consensum et electionem Othonis et filii sui. (Luitprando, l. VI, c. 6. p. 472). Questa rilevante concessione può valere per supplimento o per conferma al decreto del clero e del popolo romano con tanta alterezza rigettato dal Baronio, dal Pagi e dal Muratori (A. D. 964), e sì bene propugnato e spiegato dal Saint Marc (Abrégé, t. II. p. 808-816, t. IV, p. 1167-1185). Convien consultare questo storico critico e gli Annali del Muratori sulla elezione o conferma d’ogni Papa.
  150. La storia e la legazion di Luitprando (Vedi p. 440, 450, 471-476, 479, ec.) dipingono con forza l’oppressione ed i vizi del clero di Roma nel decimo secolo; è cosa assai strana vedere il Muratori inteso a mitigare le invettive del Baronio contro i Papi; ma giova osservare che quei Papi non erano stati eletti da Cardinali, ma da Laici.
  151. L’epoca a cui si riporta la papessa Giovanna (papissa Johanna) è un po’ anteriore a quella di Teodora e di Marozia; e i due anni del suo papato immaginario sono notati fra Leon IV e Benedetto III; ma Anastasio loro contemporaneo pone come indubitata cosa che l’elezion di Benedetto succedesse immediatamente alla morte di Leone (illico, mox., p. 247). Dall’esatta cronologia del Pagi, del Muratori e del Leibnitz son collocati questi due avvenimenti nell’anno 857.
  152. Gli autori che sostengono esservi stata una papessa Giovanna citano centocinquanta testimoni, o piuttosto centocinquanta eco del quattordicesimo, del quindicesimo e del sedicesimo secolo. Moltiplicando così le testimonianze somministrano una prova contro di sè e contro la Leggenda; imperocchè ci dimostrano quanto sarebbe stato impossibile che una storia sì stravagante non fosse ripetuta dagli scrittori d’ogni fatta, dai quali doveva essere pienamente conosciuta. Un caso tanto recente avrebbe fatto doppia impressione sull’animo di quelli del nono e decimo secolo. Avrebbe mai Fozio trascurata una tale accusa? e Luitprando avrebbe mai dimenticato uno scandolo simile? È inutile discutere le varie lezioni di Martin Polonus, di Sigisberto di Gemblours ed anche di Mariano Scotto; ma il passo della papessa Giovanna inserito per sorpresa in qualche manoscritto od edizione del romano Anastasio è d’una falsità palpabile.
  153. Questa storia debbe aversi per falsa, ma non però incredibile. Supponiamo che il famoso cavalier Francese (La D’Eon), che ai nostri giorni fece tanto rumore, fosse nata in Italia e fosse stata allevata per la professione ecclesiastica; avrebbe potuto il merito e la fortuna portarla sul trono di S. Pietro, ed ella avrebbe potuto darsi all’amore, e sarebbe stata una disgrazia, ma non una cosa impossibile, che avesse partorito in mezzo alla strada.
  154. Sino alla riforma fu ripetuta e creduta questa novella senza che facesse ribrezzo a veruno; e la statua della papessa Giovanna stette lungo tempo fra quelle dei Papi nella cattedrale di Siena (Pagi, Critica t. III. p. 624-626). Bensì questo romanzo è stato distrutto da due dottissimi protestanti Blondel e Bayle (Dictionnaire critique Art. Papesse, Polonus, Blondel); ma la lor Setta rimase scandalezzata di questa giusta e ragionevole critica. Spanheim e Lenfant si studiano di mantenere questo miserabile soggetto di controversia, e lo stesso Mosheim vuol pure conservarne qualche dubbio (p. 289).
  155. Si poteva omettere questo sarcasmo intorno per altro a’ fatti veri, e riferire in vece semplicemente le parole dell’ingenuo storico Cardinal Baronio, che senza negare i fatti, il che non poteva farsi, toglie e leva ogni macchia, che per essi apparentemente sembra venire alla Santa Sede romana. Quam foedissima ecclesiae romanae facies, cum Romae dominarentur potentissimae aeque ac sordidissime meretrices, cujus arbitrio mutarentur sedes, darentur Episcopi, e intruderentur in sedem Petri earum, amatores Pseudo-Pontifices, qui non sunt nisi ad conservanda tantum tempora in Cathalogo Romanorum Pontificum scripti. Baronio Annali anno 962. (Nota di N. N.)
  156. Lateranense palatium.... prostibulum meretricum.... Testis omnium gentium, præter quam Romanorum, absentia mulierum, quæ sanctorum apostolorum limina orandi gratia timent visere, cum nonnullas ante dies paucos, hunc audierint conjugatas viduas, virgines vi oppressisse.. (Luitprando, Hist., l. VI. c. 6. p. 47l. Vedi pure per ciò che riguarda al libertinaggio di Giovanni XII. p. 471-476.)
  157. Bisognava dire questo monaco zelante. È necessario per altro convenire, in mezzo al conflitto di tanti scrittori partigiani, o avversarii, del troppo famoso Papa Gregorio VII, che il primo de’ suoi due progetti, rettamente definito dall’autore dottissimo, è giustificabile pienamente se si riguardi in ispeciale modo a tumulti, a mali, a guerre che dall’influenza, e potere dagli Imperatori Germanici, e dai partiti de’ preti, e del popolo venivano quasi ad ogni elezione all’eccelsa Sede papale; e che il secondo, il quale pur troppo le molte volte ebbe luogo ne’ tempi posteriori a Gregorio, secondo l’ardimento, l’indole dei Papi, le circostanze, la timidità, le prevenzioni di principi, e l’ignoranza in genere, e sempre recando terribili turbolenze sanguinose, e disastri, e lunghe guerre in tutta Europa, a danno dei diritti dei re, delle nazioni, e delle leggi degli Stati, è da condannarsi grandemente, siccome hanno pensato e pensano oggidì tutti i saggi illuminati monarchi, ed i prudenti governi, principiando da S. Luigi IX re di Francia, che ricusò l’Impero d’Alemagna offertogli dal Papa Gregorio IX che ne aveva spogliato Federico II. (Nota di N. N.)
  158. Si può citare per un nuovo esempio de’ mali originati dall’equivoco, il beneficium (Ducange, t. 1, p. 617, etc.) che il Papa concedette all’Imperatore Federico I, poichè il vocabolo latino potea significare tanto un feudo legale quanto un favore o beneficio. V. Schmidt, Hist. des Allemands t. III, p. 393-408; Pfeffel, Abrégé chronologique, t. I, p. 229, 296, 317, 324, 420, 430, 500, 506, 509, etc.
  159. Vedi su la Storia degl’Imperatori, in ciò che concerne Roma e l’Italia, il Sigonio (de Regno Italiae Opp. t. II, colle note del Saxius) e gli Annali del Muratori, il quale per altro poteva con più precisione citare gli Autori nella sua gran Raccolta.
  160. Vedi la dissertazione del Le Blanc in fine del suo trattato delle Monete di Francia, ove dà contezza di alcune monete romane d’Imperatori francesi.
  161. Romanorum aliquando servi, scilicet Burgundiones, Romanis imperent?..... Romanæ urbis dignitas ad tantam est stultitiam ducta, ut meretricum etiam imperio pareat? (Luitprand. l. III, c. 12, p. 450.) Sigonio (l. VI, p. 400) afferma positivamente che fu rimesso il consolato; ma dai vecchi autori, Alberico è chiamato più spesso princeps Romanorum.
  162. Vedi Ditmar, pag. 354; apud Schmidt, t. III, p. 439.
  163. Questo sanguinario banchetto è descritto in versi leonini nel Panteon di Goffredo da Viterbo (Scriptor. Ital., t. VII, p. 436, 437) che visse su la fine del secolo dodicesimo (Fabricio, Bibl. lat. Med. et infimi aevi, t. III. p. 69, edit. Mausi); ma il Muratori (Annali, t. VIII, p. 177) diffida a ragione di tal testimonianza, che illuse il Sigonio.
  164. Si trovano alcune particolarità dell’incoronazione dell’Imperatore, e di qualche cerimonia del decimo secolo nel Panegirico di Berenger (Script. Ital. t. II, part. 1, p. 405-414), illustrato dalle note d’Adriano di Valois e di Leibnitz. Sigonio narrò in buon latino, ma con alcuni sbagli di data e di fatto, (l. VII, p. 441-446) tutto ciò che risguarda i viaggi di quegli Imperatori a Roma.
  165. In occasione d’una controversia sorta quando fu incoronato Corrado II, Muratori prende la libertà di notare che: Dovevano ben essere allora indisciplinati Barbari, e bestiali i Tedeschi. (Annal., t. VIII, p. 368.)
  166. Dopo averli fatti bollire. I vasi destinati a tal effetto erano compresi nel numero degli utensili indispensabili al viaggio; e un Germano che facea bollire le ossa di suo fratello in uno di questi vasi, lo promettea al suo amico, dopo che se ne fosse servito (Schmidt, t. III, p. 423, 424). Il medesimo autore osserva che tutto il lignaggio sassone s’estinse in Italia (t. II, p. 440).
  167. Ottone, vescovo di Freysingen, ci lasciò un passo rilevante sopra le città d’Italia (l. 1, c. 13, in Script. Ital., t. VI, p. 707-710), e Muratori (Antiquit. Ital. medii aevi, t. IV, Dissert. 45-52, p. 1-675; Annal., t. VIII, IX, X) spiega perfettamente la nascita, il progresso e il governo di queste repubbliche.
  168. Vedi sopra questi titoli, Selden (Titles of Honour, vol. III, part. I, p. 488), Ducange (Glossar. latin., t. II, p. 140; t. VI, p. 776) e Saint-Marc (Abrégé chronologique, t. II, p. 179).
  169. I Lombardi inventarono il carocium, stendardo sopra un carro tirato da buoi. (Ducange, t. II, p. 194, 195; Muratori, Antiquit., t. II, Dissertat. 26, p. 489-493.)
  170. Guntero Ligurino, l. VIII, p. 584 e segu; apud Schmidt, t. III, p. 399.
  171. Solus imperator faciem suam firmavit ut petram. (Burcard., De excidio Mediolani, Script. Ital., t. VI, p. 917). Questo tomo di Muratori contiene i monumenti originali dell’istoria di Federico I, da confrontarsi fra loro, senza dimenticare la condizione e i pregiudizii di quegli scrittori, sieno essi Germani o Lombardi.
  172. Vedi, sull’istoria di Federico II e sulla Casa di Svevia a Napoli, Giannone, Istoria civile, t. II, l. XIV-XIX.
  173. Nell’immenso labirinto del Diritto pubblico d’Alemagna, debbo citare un autor solo, o citarne mille; ed io amo piuttosto attenermi a una sola scorta fedele, che trascrivere sulla parola una farragine di nomi e di passi. Questa guida è il Signor Pfeffel, autore del nouvel Abrégé chronologique de l’Histoire et du Droit public d’Allemagne, Paris, 1776, 2 vol. in 4. Questa, a parer mio, è la migliore istoria legale e costituzionale, che in alcun luogo siasi mai pubblicata. Egli ha afferrate le cose più importanti con molta esattezza e sapere; semplice e conciso, egli le ristringe in piccolo spazio; coll’ordine cronologico che ha seguìto, ciascun fatto è posto sotto la sua vera data, e un indice accurato li raccoglie sotto aspetti generali. Quest’opera, sebbene forse meno perfetta quando venne alla luce la prima volta, giovò molto al Dottore Robertson per formar quell’abbozzo di man maestra, ove segna anche i cangiamenti che nei tempi moderni accaddero nel Corpo germanico. Ho pur consultato il Corpus Historiae germanicae dello Struvio con tanto maggior profitto, poichè questa voluminosa compilazione riporta ad ogni pagina i testi originali. germanicae dello Struvio con tanto maggior profitto, poichè questa voluminosa compilazione riporta ad ogni pagina i testi originali.
  174. Qui poi l’Autore è in errore preciso quanto alla Casa de’ Conti d’Absbourg autori della regnante eccelsa Casa d’Austria; poichè Rodolfo I d’Absbourg Capo-stipite della Casa d’Absburgo-Austria, eletto Imperatore Romano Germanico, specialmente per la sua pietà l’anno 1273, si segnalò col terminar vittoriosamente la guerra da lui giustamente incontrata contro Ottocaro Re di Boemia; fu notato dagli storici per le azioni, per le sue gesta qual principe valoroso, prudente, politico, conoscitore delle cose governative, e premuroso che fosse resa giustizia. Non volle andare a Roma per farsi coronare Imperatore dicendo che nessuno de’ suoi predecessori vi era andato senza aver perduto de’ suoi diritti, e della sua autorità; prese tutte le città che attaccò, e guadagnò quattordici battaglie ordinate. Alberto I suo figlio simile a lui pel vigore e per la mente, per l’intrepidezza e pel coraggio fu eletto pure Imperatore, e seppe uscir vincitore da ogni contesa venutagli dagli inquieti abitanti di Vienna, di Salisburgo, dagli Ungari, e dai Boemi. Sarebbe assai lungo il noverare i meriti de’ sovrani dell’eccelsa Casa d’Absbourg-Austria. Sono piene le Storie dell’Imperatore Carlo V, e Ferdinando II, e di Ferdinando III, specialmente nella guerra de’ trent’anni: vegga il lettore il Plutarco Austriaco. (Nota di N. N.)
  175. Carlo IV per altro non dee, per la sua persona, essere considerato come un Barbaro. Dopo aver avuto l’educazione in Parigi, ripigliò l’uso della lingua boema, ch’era la sua naturale, e parlava e scriveva con pari facilità il francese, il latino, l’italiano e il tedesco (Struvio p. 615, 616). Petrarca ne parla sempre come d’un principe pulito e dotto.
  176. Oltre le particolarità che sulla spedizion di Carlo IV si trovano negli storici d’Alemagna e d’Italia, vien essa dipinta in una foggia vivace ed esatta nelle memorie sulla vita del Petrarca (t. V. p. 376-43)) dell’Abate de Sade, opera curiosa, la cui prolissità non sarà di leggieri biasimata da chi accoppii il gusto e l’amore dell’erudizione.
  177. Vedi la descrizione di questa cerimonia nello Struvio p. 629.
  178. La repubblica dell’Europa col Papa e coll’Imperatore per Capi non fu mai rappresentata con più dignità, quanto nel Concilio di Costanza. Vedi l’Istoria di quest’assemblea scritta dal Lenfant.
  179. Gravina, Origines Juris Civilis p. 108.
  180. Furon trovate seimila urne che servivano per gli schiavi e pei liberti d’Augusto e di Livia. Tanta era la moltiplicità degl’impieghi, che uno schiavo per esempio non aveva altra incumbenza che di pesare la lana filata dalle fantesche di Livia, un altro d’aver cura del cane ec. (Camere sepolcrali ec. del Bianchini. Vedi pure l’estratto della sua opera nella Biblioteca Italica, t. IV, p. 175, e l’elogio fattone da Fontanelle, t. VI. p. 356). Ma quei servi avean tutti lo stesso grado, e forse non erano più numerosi di quelli di Pollione o di Lentulo. Provano solamente quanta fosse in generale la ricchezza della città di Roma.