Notturno (D'Annunzio)/Terza offerta
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Sonnolenza di calen d’aprile. Pioggia meridiana che s’attenua sul fogliame e finisce.
Il mio sopore mi accorda col giardino che non vedo.
Sento che è l’alta marea e che la riva è immersa.
La melodia degli uccelli mi risuona in tutto il torace, come un canto dei miei spiriti consolati.
Tregua divina. È un sopore che somiglia all’estasi, trasparente e liscio come un ruscello del piano.
Non sono vegliato dalla Sirenetta, ma da suor Acqua, dalla creatura «humele, pretiosa et casta» del Cantico.
Con le sue lunghe mani argentee ella cerca nella mia magrezza le mie vene, le districa, le separa, le allunga, le conduce nel senso della terra e della pace.
Mi sembra di sentirne una discendere dall’òmero per il braccio con una limpidità virginale e fluire di là dalle dita, allungandosi di tra le dita come un arco di cristallo per sonare uno strumento fatto con le corde della pioggia primaverile.
Odo la pioggia che ricomincia, dopo la pausa.
Il mio udito galleggia su la sonnolenza, come quelle foglie natanti che hanno la forma d’un’orecchia intenta.
La melodia degli uccelli e degli spiriti va mancando.
Sento a un tratto la bocca riseccarsi. La làmina d’acciaio riveste la mia lingua e il mio palato.
Alzo la mano verso quella che mi veglia.
«Suor Acqua!» mormora il glicine molle. «Suor Acqua!» gridano i rosai ansietati di fiorire. Le viole del pensiero, chinando i loro visi lacrimosi, sospirano: «Suor Acqua!»
Sono come una di quelle colline coniche dipinte nei fondi dei quadri umbri, con una vetta di calvario adusta e i fianchi rigati di ruscelli.
Essere un bel pino italico
sopra un colle romano,
quando la luna è colma;
e sentire il vento della notte
muovere le tenere cime
che rinascono in mezzo ai vecchi aghi
in sommo dei vecchi rami
rosee come dita di pargoli.
Essere il più alto e il più fosco cipresso della villa d’Este,
dopo il crepuscolo,
quando la fontana
rimuove il velo del capelvenere
dalla sua orecchia stillante
per ispiare il romore remoto
della cascata tiburtina;
e palpare la grazia della sera
con il chiaro verde sensibile
che orla il fogliame funerario.
Essere nel Fòro
lo spirito di una cieca erba
e penare paziente
per iscoprire la fenditura della pietra veneranda
su cui scalpitarono i Trionfi;
e alfine trovarla,
e far forza con l’esile capo,
e spuntare, e inverdire, e gioire del sole
che mai vide alcuna cosa più grande di Roma.
Tregua breve. Di nuovo l’ansia mi sforza il cuore, l’ambascia mi vuota il petto.
Luigi Bresciani e Roberto Prunas vengono a visitarmi; e m’annunziano che domattina faranno la prova di lungo volo e che quella prova sarà finalmente ritenuta come la collaudazione del grande apparecchio marino in cui tutti noi combattenti adriatici abbiamo riposto le nostre speranze di predominio e di vittoria.
Il cuore mi batte così rapido che mi par di morire. Il rombo m’impedisce di udire le parole. Sento che Gino si piega su me e mi pone la sua mano sul petto. Perdo il senso del tempo e del luogo. Siamo come quando ci appoggiammo l’un contro l’altro per sostenerci, mentre i quattro marinai prendevano il lenzuolo funebre per i quattro lembi e portavano il cadavere del nostro Miraglia verso la cassa aperta che stava sul pavimento parallela al lettuccio.
L’orrore improvviso m’imprigiona il corpo come in un masso di ghiaccio; e mi sembra che nel masso medesimo resti imprigionato il mio compagno.
Quanto tempo passa?
Il cuore s’è rallentato, ma muoio di tristezza.
Gino e Roberto se ne sono andati verso la notte. Saranno domattina l’uno a fianco dell’altro nel grande scafo alato, com’eravamo io e il mio pilota che un giorno rincontrerò a faccia a faccia.
Ho rotto il divieto. Mi sono levato sui gomiti per gettare dietro di loro l’ultimo saluto e l’ultimo augurio.
Non ho mai avuto una smania di levarmi più violenta.
«Prendetemi con voi! Salvatemi! E io vi salverò. Chi mi porta, porta la mia fortuna.»
Non mi odono più. Se ne vanno per la calle, se ne vanno per il campo, se ne vanno giù per il ponte.
Certo hanno compassione di me imprigionato. Ma non possono non essere ebri, come noi eravamo alla vigilia di ogni prova.
Ed è la seconda notte d’aprile. È l’interlunio. Vedo, attraverso il tetto, il cielo stellato. Le stelle di primavera sembrano nuove come i fiorì del mandorlo. Profumano l’azzurro il vento e l’ansia della giovinezza.
Voglio respirare le stelle d’aprile.
Perché vi siete partiti da me così presto? Perché, Gino, te ne sei andato così presto?
Dianzi mi parevi saldato a me come in quella sera di decembre, in quella sera del 23 decembre, quando mi rialzai dall’aver sfiorato con le labbra il cadavere di tre giorni e ti vidi senza colore, ti vidi con quella tua bocca convulsa di bambino, e piegai la faccia su la tua spalla e singhiozzai con te.
Se tu fossi rimasto ancóra, se tu avessi lasciato andar via Roberto Prunas e fossi rimasto ancóra un poco, solo con me, certo avremmo veduto riapparire colui che amammo a gara; ed egli sarebbe stato in piedi fra il mio capezzale e la tua sedia.
Perché avevi tanta fretta?
Ti aspettava la tua piccola amica che io non ho mai conosciuta, in quella tua casa del sottoportico Barbarigo dove io non son mai venuto?
Ti aspettavano i tuoi cani, che una sera di decembre ti annunziarono a me e a Beppino mentre eravamo tutt’e due soffermati dinanzi al bassorilievo di Zara in Santa Maria del Giglio?
Ti aspettava la tua musica, che sembra ti aiuti a liberare dalla legge del peso le tue costruzioni esatte?
Non so perché stasera tu m’abbia lasciato tanto rammarico. Mi sembra d’aver sul petto affannoso l’impronta della tua mano.
Tu hai qualche volta il viso d’un bambino; e parlavi a me come a un bambino, nel promettermi che avresti aspettato me per condurre la prima volta il tuo apparecchio sopra il nemico.
Avevi l’aria di volermi illudere.
Ma io mi leverò. Fra pochi giorni io mi leverò. E ricomincerò. E ti dico che nessuna impresa temeraria potrà esser fatta senza la mia fortuna.
Io mi sono vergognato di voler guarire. Ma ora so che mi son lasciato martirizzare inutilmente. Il mio occhio è perduto. La farfalla prigioniera non c’è più, e non c’è più la felce. Un orribile ragno nero ha collocato nel centro il suo addome d’un sol pezzo. E non lo caccerà nessuno.
I miei dottori pareva avessero paura del miracolo. Ora non hanno più paura. Si compie il fato sinistro. Sappilo.
Avrai un ciclope attentissimo per compagno.
Dove sei? Sei nella tua casa, con la tua donna e col tuo cane? O sei tornato all’Arsenale, al ricovero della tua Aquila marina, dove forse i tuoi meccanici lavorano di notte all’ultimo finimento?
Questo che io scrivo nel buio, su queste liste di carta poco dissimili a quelle di bordo con cui nel rombo assordante del motore comunicavo l’osservazione e l’ordine, questo che scrivo io vorrei mandartelo stanotte. Vorrei che tu sapessi stanotte, nella tua vigilia, come io pensi a te e quanto in te io confidi.
Ma forse tu non riusciresti a leggere questi segni.
Anche stanotte il letto oscilla e vibra come l’ala doppia tesa tra mare e cielo.
Non dormirò. Non posso dormire di notte.
E tu dormirai?
Tu devi dormire. Devi avere domattina la mano infallibile, l’occhio acuto, la mente pronta.
Sei per dare una nuova arma alla Patria.
Con te distruggeremo Pola. Non risparmieremo se non il Colosseo e le reliquie romane e le vestigia d’Italia.
Con te domineremo tutta la costa di Dalmazia. Minacceremo Cattaro e Durazzo.
Ho tanta smania di rivederti, di riparlarti.
Non senti che ti chiamo?
Se non dormi, perché non torni?
Il cuore ricomincia a battermi in gola. Che terribile motore ho nel petto!
E non so se muoio dall’attesa o se muoio dalla tristezza o se muoio dalla sete.´
Lo sai? I miei carnefici non mi lasciano bere.
Mi sono severi come tu fosti severo a Luigi Bologna quando cadeste in mare con l’apparecchio e rimaneste nel mare nemico, e dopo ore ed ore di tentativi egli non poteva più tollerare il tormento della sete e voleva dissetarsi con l’acqua del tuo radiatore, e tu gli puntasti la pistola alla tempia e gli dicesti: «Se mi togli una goccia, ti sparo.»
Quanto mi piacque di te questo atto eroico verso un compagno eroico, per la salvezza dell’arma e di due combattenti! Di te che hai un sorriso così timido, di te che porti inclinata verso la spalla sinistra quella tua testa imberbe e bionda di guardia marina.
Ma stanotte, compagno, lasciami bere un sorso d’acqua del tuo radiatore.
Non dormo. Non posso dormire. Di notte meno che di giorno.
Ora che il mio occhio sinistro può vedere un poco di luce, un’angoscia inquieta mi assale quando su i vetri della finestra socchiusa s’illividisce il crepuscolo.
È l’ora dell’oscurazione per tutta la città, e io supplico di non chiudere la finestra. Bevo l’ultima luce con l’ansia d’un moribondo.
Quando gli scuri sono sbarrati, la stanza diventa una bara. Le quattro pareti serrano il corpo come quattro assi. I chiarori erranti nel fondo dell’occhio bendato formano la figura spettrale dell’insonnio.
Dorme Gino Bresciani?
Riodo il Largo del Trio degli spiriti. La piccola stanza attigua, sonora come una cassa armonica, l’ha ritenuto come un cofano ritiene un aroma.
Stanotte il dialogo del violino e del violoncello non è se non un’implorazione che sale dalle profondità della morte.
Mi ritorna la sera di decembre quando misi la bocca nella pienezza della morte, nell’abete pieno della carne disfatta, come il giumento stracco alla mangiatoia.
Non mi sono assopito se non a giorno chiaro, quando ho veduto la luce trasparire per gli interstizii degli scuri e ho udito il canale risvegliarsi con le voci note e con i noti suoni.
Sentivo di continuo nel sopore oscillare il letto e dentro di me battere il motore malato.
È tardi. Il sopore non mi lascia alcun sollievo. Mi sento stanco e rotto. La bocca è così arida che non riesco a formare le parole. Il cuore disordinato sobbalza e si accelera, con violenze folli. L’infermiera mi cambia la compressa e le fasce. Le sue mani tremano.
«Chi approda alla riva?» le domando.
Un motoscafo strepita nella manovra dell’accostare. È uno strepito assordante. I vetri tintinnano e le mura vacillano.
«Vado a vedere» ella risponde.
Esce. Ritorna.
«Due ufficiali di marina sono discesi dal motoscafo e vanno verso San Maurizio.»
Il rombo continua. Ne soffro in ogni fibra. Sono pieno di gridi che non varcano i miei denti.
Ascolto. Distinguo un rumore di passi nella calle.
«E ora?»
La donna esce. Si affaccia alla finestra della camera attigua. Rientra.
«I due ufficiali accompagnano una signora velata. La fanno salire a bordo. Ripartono.»
Sono passate due ore.
Un motoscafo s’arresta di nuovo alla riva, e scuote la casa col suo rombo.
Interrogo l’infermiera.
Ella esce e rientra.
«I due ufficiali riaccompagnano la signora velata. Sembra sfinita. La sostengono.»
Mi sembra che non ho più stanza, che non ho più letto.
Sono steso nella calle, presso la piccola riva che odora di putredine nella bassa marea.
Sono là come un mendicante invalido.
Ho il capo fasciato da non so quanto tempo. Ho una piaga che nessuno scopre più e nessuno cura.
Non v’è nulla al mondo che sia più triste di questa piccola riva ove la povera compagna del morto è venuta a imbarcarsi per andare a vedere il cadavere, dove è venuta a sbarcare dopo averlo veduto per l’ultima volta.
Ha dovuto abbandonare le stanze dove viveva con lui e coi suoi cani. È diventata un’intrusa, è ricoverata in non so quale casa del Campo di San Maurizio, qui presso. È sola, povera, senza più nulla.
Che fa in quest’ora? Non può vegliare il suo amico. Il cadavere è a Sant’Anna, nella stessa camera mortuaria dove io vegliai per tre notti Giuseppe Miraglia.
I marinai fanno la guardia come allora.
La grande bandiera navale copre la parete.
Chi mi ha detto che il viso non è scoperto perché tutto bruciato dallo scoppio dei serbatoi?
Come Giuseppe Miraglia, come me, ha l’occhio destro ferito.
Tutto il lato destro è contuso, rotto.
I ceri oscillano e si struggono nel mio cervello, come allora.
Vedo la povera creatura vedova scivolare di continuo per la calle della rivetta, lungo il muro corroso del giardino.
Non finisce mai di andarsene.
È uno straccio che palpita sul mattone cupo come il sangue aggrumato.
Ho sempre veduto qualcosa di sinistro in questa piccola riva verdastra, dalla sera in cui una vecchia gondola sbatté lungamente contro i gradini scoperti dalla bassa marea, putridi come l’orlo della fogna. Il gradino era diventato così alto che il piede non ci arrivava per discendere.
Un mattino della fine di gennaio, grigio e umido, uscendo dalla casa udii voci di donne chine sul canale. Chiesi che facessero.
Annegavano cinque gattini nati nella notte. Li portavano nel grembiule, li gettavano a uno a uno nell’acqua. La calle stretta, il campiello deserto col suo pozzo murato, sapevano di assassinio.
L’ombra della sciagurata non abbandonerà mai più il muro. La pietra è bagnata dal pianto, da un riflusso di pianto.
Dov’è Roberto Prunas nell’alta notte? Fin dove la corrente voltola il suo cadavere?
Ecco che la corrente notturna viene verso di me e me lo porta fra due acque.
Vedo il suo viso olivastro invecchiato da due profondi solchi che gli contornano la bocca sottile.
Aveva la faccia d’un pastore sardo scavata dal tedio e dalla riflessione. Usava l’ironia, talvolta l’arguzia, ma la sua maschera era come quei paesi solcati da torrenti aridi in attesa di piene subitanee. I solchi delle lacrime erano scolpiti nelle gote fin giù al mento. E pareva che da un attimo all’altro dovessero riempirsi.
Stanotte è solo nel mare, sperduto nell’immensità sorda.
Forse una torpediniera a fuochi spenti gli passa sopra.
È gonfio. Il sale gli macera le bruciature.
Vedo quella misera larva lungo il muro e quel corpo freddo voltolato dalla corrente.
Luigi Bresciani riposa nel letto funebre, sotto la coltre.
Il mio fascio di fiori gli sta sopra i piedi congiunti.
Lo sciacquio contro il pontile, che ascoltavamo vegliando il nostro povero compagno, egli non l’ode più.
Mi sono svegliato all’urto del cuore scoppiante e ho sentito contro il mio gomito destro un’asse dura.
Chi ha portato qui la bara del mio compagno? Muovo l’altro gomito, e sento lo stesso ingombro, e non può essere se non la bara dell’altro mio compagno, che è sempre dalla parte del cuore.
Sono tra l’una e l’altra, scoperchiato. E, quando il rombo del cuore si placa, odo il canto del gallo. Un brivido mi cerchia il petto.
Ascolto. Non è il canto modulato di quattro note. È un lamento d’una nota sola, ora lungo, ora breve. L’orecchio stenta a riconoscerlo.
Il gallo del rio è più triste del gallo della Landa, che ascoltava Desiderio Moriar su le sabbie dell’Estremo Occidente.
Odo un urto sordo che non è più quello del mio cuore.
È un corpo che batte contro il gradino della riva, quasi a paro delle pietre che lastricano la calle.
Alta marea.
Iersera l’uomo che portava all’ospedale di Sant’Anna la corona funebre, vide tornare all’Arsenale la barca del palombaro che non aveva ritrovato il cadavere.
Ecco che il corpo di Roberto Prunas viene a battere contro la riva.
Sono tutto di gelo.
Egli vuole essere con noi tre. Egli vuole che io l’ami come questi altri due.
La finestra è aperta. V’è qualcosa di sordo nell’aria.
Attraverso le bende vedo un albore fioco su cui passano ombre scure come donne ammantate che vadano carpone.
Sono piccole imagini, e hanno non so che grandezza.
Penso alle Supplici nell’atrio di una reggia eroica.
Ho nel profondo un dolore che segue il ritmo di questa processione incurvata da destra a sinistra.
Mi sembra che a poco a poco il mio petto s’incavi penoso e non ho la forza di sollevarlo col respiro.
Metto una mano sul cuore e non lo sento battere. Il polso è lento, quasi smarrito.
Una campana suona in mezzo al cielo, avvolta in una nuvola violetta.
Il suono colora la mia visione che sembra discendere come se s’abbassasse al livello del pianto.
Un passo leggero esita su la soglia come se il mio silenzio fosse sopore.
Chiedo: «È bassa marea?»
La Sirenetta s’accosta alla finestra e forse guarda i gradini di pietra che salgono al giardino di Corè. Certo gli ultimi cinque sono verdi.
«Sì» ella risponde.
E un odore verdastro di tomba umida passa sul suo capo prima di giungere al mio cuore senza battito.
Quanti giorni al giovedì santo?
Quando s’ammutoliranno queste campane senza pietà?
Non suonano per me se non gli addii, se non i commiati, se non le separazioni, se non le rinunzie, se non le condanne.
Mi portano via tutto quel che di dolce può ancor nascere in me, tutto quel che in me può ancóra somigliare a un bene segreto.
M’indugio in un sogno, e il suono delle campane me lo rapisce e disperde.
M’indugio in una speranza, e il suono delle campane me la toglie e distrugge.
«Io farò questo.»
«Tu non lo farai.»
«Io riescirò a questo.»
«Tu non riescirai.»
«Riavrò la forza la volontà il coraggio.»
«T’illudi, t’inganni. La tua favola è compiuta.»
«Allora voglio morire.»
«Morrai vivendo.»
Ed ecco che il suono eguale, senza fine, calca e stende la mia tristezza come della pasta fa lo spianatoio, come del mattone fa il mòdano.
Ora sono spianato, in questo letto, anima e corpo. Non ho più profondità. Non ho più rilievo. Sono senza ieri e senza domani. Muoio vivendo.
Ho sognato che ripiegavo la mia carne come un mantello senza colore.
Poi ho sognato che la spiegavo e l’appendevo a un chiodo sporgente da una parete senza colore.
In punto di assopirmi stamani ho sentito scorrere fra le mie dita i fili d’oro che tesse Tiziano nella pelle dell’Amor sacro e nella veste dell’Amor profano.
Avevo all’estremità delle falangi non so che bagliore di veggenza.
Renata e Venier si stendono sul tappeto, ai lati del mio letto, supini.
Ciascuno pone il braccio sotto il capo, imitando la mia attitudine consueta nel dormire.
Restano in silenzio; ma io li ascolto.
Odo un sospiro represso della Sirenetta.
La finestra è socchiusa. La pausa è in tutto lo spazio e in tutte le creature.
La mia vita trabocca. Si versa in entrambi, da una banda e dall’altra, come l’acqua delle fontane che cade e ricade dall’una all’altra statua.
Veggo le circonvoluzioni del mio cervello, nette come in una tavola fisiologica per gli studiosi.
Distinguo tutte le ramificazioni dell’albero vascolare.
Il mio corpo è diafano. Lo scheletro mi si mostra esatto come in un disegno macabro di Alberto Duro. Conto le costole e le vertebre. La rete esigua dei nervi è color di ruggine.
Il sangue sempre più s’ispessisce. Mi vien voglia di sbatterlo, come il latte nella zangola, col menatoio; o con gli ossi consunti delle mie mani stesse.
Ritornano le apparizioni violette.
Ho nell’occhio una selva di ametista. Da ogni parte vengono uccelli a stormi, e si posano su i rami rigidi.
I primi sono gialli come i canàrii. Poi le specie e le tinte si moltiplicano senza fine.
Mi ricordo d’un episodio grazioso che mi raccontò, alla vigilia della battaglia su la Marna, la moglie del capoposto Thévenin, mentre inchiodavo le bandiere ai pali del mio canile.
Nel porto di Marsiglia erano giunti alcuni piroscafi che portavano uccelli delle Isole in grandissimo numero, destinati ai mercati d’Europa.
Gli importatori, disperando di poterli conservare, aprirono tutte le gabbie. E per alcuni giorni la città fu abbarbagliata da quella moltitudine diversissima di gemme volanti, e vide di sbarco in sbarco le truppe coloniali traversare le vie volgendo in alto le facce fosche rifatte infantili dalla maraviglia nuova.
Dall’Alpe e dal Carso i fanti mi mandano i fioretti colti nella trincea o nella dolina, le foglie di lauro colte al passaggio nei giardini devastati.
Dalla mia terra d’Abruzzi le donne superstiziose mi mandano sacchetti di erbe salutari e vaselli d’unguento.
I veterani della Marna e di Verdun mi mandano, nel gergo di guerra, quelle parole di fraternità rudi che confortano più d’ogni balsamo falso.
Talismani di tutte le materie e di tutte le forme s’accumulano sopra la sponda del mio letto; e ciascuno contiene il miracolo occulto che non può essere rivelato se non dalla fede.
All’alba ho sognato che mia madre si chinava su me con un viso ringiovanito, e mi toglieva la benda, e mi scopriva la pàlpebra, a me l’addolciva prima con l’alito e poi me la premeva con le labbra.
Ero guarito. Avevo riacquistato la vista intiera. L’occhio m’era ridivenuto fresco e limpido come in un risveglio dell’adolescenza.
Tanto vivace era l’illusione che mi son levato sul gomito palpitando. Ho sollevato la fascia lenta, la compressa risecca. Ho chiuso l’occhio sinistro. Ho riveduto il ragno nero e immoto.
Mia madre non sa, non comprende. Anch’ella è nel suo buio.
Ma da qualche giorno mi visita con un volto meno contraffatto, col volto che le vidi prima dell’esilio.
Mi porta lembi della vita lontana così vividi che posso palparli. Mi conduce talora alcuno dei nostri familiari.
M’ha condotto Rafaele, il fattore che sapeva imitare i versi degli uccelli di passo e con l’osso con la canna con la pelle costruire ogni sorta di richiami.
Rafaele mi porta una quaglia viva, e il ricordo della compassione che mi facevano le quaglie imprigionate in certe gabbie basse di stecchi contro cui si spellavano il capo e a forza di urti se lo consumavano fino all’osso.
Riodo quell’agitazione incessante. Rivedo quei piccoli cranii nudi, quei becchi sanguinanti. Le quattro pareti e le quattro assi si riempiono di quella medesima tristezza che allora per me riempiva tutta la nostra casa vecchia e mi dava certe improvvise voglie di fuggire o di uccidermi.
Di uccidermi avevo voglia quando tutta la casa risonava degli urli che mettevano nella corte i maiali grassi scannati riempiendo di sangue i bacini sottoposti. L’orrore mi cacciava di stanza in stanza. La vita mi faceva paura come se mi incalzasse con l’accoratoio nel pugno. Mi rifugiavo in un angolo, con la faccia contro il muro, con la mano nella bocca convulsa. Il singulto mi scoteva tutta la notte. La mattina dopo ero smorto come se mi avessero aperta una vena del collo.
Perché mi torna da tanto lontano questa tentazione di balzare a un tratto fuor d’ogni crudeltà e d’ogni orrore?
Munito del suo disco forato e del suo specchietto riflettore, l’oculista dianzi mi leggeva nell’occhio spento o nel cervello acceso?
Aveva un duro cipiglio.
È una giornata di vento.
Odo le gondole sbattere contro il traghetto e cigolare. Odo il lungo ululato del canale. Odo le voci rotte e rapite in lembi.
Il soffio penetra anche nella stanza chiusa. L’uscio geme di continuo.
«Vengo. Chi mi chiama?»
Nella piccola stanza dove ieri il mio quintetto di guerra sonava le vecchie e nuove musiche, oggi disputa un quintetto di medici.
Sono cinque, come le dita della mano che brancola.
Odo le loro voci attraverso l’uscio ove il mio destino origlia ansando.
Non ho mai sofferto della voce umana come in questa ora. La disputa confusa è come uno strumento di tortura che operi a distanza. Il mio corpo vivo è contorto e trafitto in vario modo, con lentezza o con violenza, secondo gli accenti.
Ma v’è una voce, la più acuta e la più spietata, che mi sega le costole a una a una e mi scarpella lo sterno.
Un’altra, quando s’introduce nell’orribile concerto, sembra uno strumento affilato che ogni volta intraprenda la «enucleazione» dell’occhio e poi la tralasci.
Quando questo supplizio avrà fine?
Ecco che odo il quintetto funebre ridere d’un riso chioccio, quasi all’unisono.
Il mio occhio triste è là, sopra il tavolino, accanto a un posacenere, come uno di quei pezzi anatomici arteficiati e dipinti che da anni il bidello spolvera e il professore maneggia facendo la lezione agli studenti svogliati.
Un raggio furtivo di sole traversa la fiala gialla dell’atropina, rischiara il cotone avvolto come un enorme bozzolo, i rotoli delle fasce, un bicchiere dove la Sirenetta ha posto la più bella rosa di stamani.
Il merlo chioccola così forte che sembra posato sul davanzale.
Quel merlo sciocco, quanto m’infastidisce!
Canta tutto il giorno senza mai variare il suo sgraziato verso.
Sembra uno degli innumerevoli miei giudici.
E chi mai al mondo fu più giudicato e più condannato di me?
Vedo un concilio di giudici vermi sopra la mia salma non composta.
Un mio amaro compagno di guerra mi disse un giorno dello scorso ottobre, su la passerella dell’Isonzo a Gradisca: «La sorte mi conceda di morire in modo che gli uomini non possano più giudicarmi.»
L’altra notte sognai che lo scoppio di una granata mi aveva portato via le gambe e le braccia e l’altro occhio. Ero un tronco sanguinoso che abbeverava di sé qualche sasso del Carso. «Giudicatemi.»
Quando l’anima è bella non ha gioia se non nel donarsi grandemente.
Ma quando l’amore non mi farà più male?
Vidi, in non so qual giorno della mia puerizia, laggiù nella mia terra di Pescara, lungo la proda di non so qual campo, un pezzo di pane posato sopra un termine di pietra.
Nessuno passando lo prendeva.
Né pur io lo presi.
Sono di nuovo immobile, con qualche cosa di molliccio in me e intorno a me, come supino nella belletta in fondo a un padule limaccioso.
L’umidità della compressa, che ho su l’occhio, si infiltra a poco a poco in tutte le fasce che mi avvolgono il capo.
Dev’esser tempo di levante. Odo la pioggia eguale sul lucernario del bagno, e di tratto in tratto la goccia cadente misurare la monotonia.
Mi sembra di scorgere le bolle della pioggia a fiore dell’acqua stagnante ove giaccio.
Tutto è grigio, freddo, tardo.
Il tedio è nel guanciale, nei lenzuoli, nelle mie ossa, nei rumori che odo, nei chiarori che intravedo.
I pensieri, la tristezza, la pazienza, il disgusto, lo scoramento, l’attesa, tutto ha la qualità di questa fasciatura umidiccia che s’intepidisce del mio tepore.
La vita terribile dell’occhio è spenta. Il demone del fuoco non abita più la coppa retinica. Il mio cervello non vede se non la bolla azzurrigna prodotta dall’ago, quale me la mostrò anche ieri il dottore nel suo specchietto rotondo.
La bolla è rigonfia intorno all’iride scolorita ove si dilata la pupilla insensibile. Un filo di sangue e di lacrime cola dalla commessura delle palpebre affloscite.
L’anima vorrebbe soffiare sul male come si soffia sopra un tizzo per riaccenderlo.
Rimpiango la cecità fiammeggiante e sfavillante.
Rivolgo la mia attenzione al mio corpo giacente. Lo percorro dalla nuca ai piedi, per cercarvi qualche succo di vita che vi sia rimasto, qualche nodo ancor vegeto da cui possa uscire un germoglio.
I piedi sono laggiù, lontani, estranei, come quelli d’un mutilato per congelazione, simili a quelli che vedemmo appaiati negli ospedaletti alpini quando il ferro del chirurgo lavorava senza riposo.
Ora mi sembra che la mia volontà non possa trasmettere il movimento ai tendini dei pollici congiunti.
L’infermiera dice che tutti i rosai del giardino hanno fogliato e messo le bocce.
La pioggia lava la verzura tenera.
I giacinti s’inchinano a terra, qualche gambo si rompe, e l’umore fila.
Mi pare d’averlo fra dito e dito, appiccicaticcio come un filo di vischio fresco.
Dopo il supplizio di quella sera, l’imagine di quel fiore si svolge stranamente nella mia sensibilità.
La pioggia porta via il terriccio intorno alla pianta e il bulbo si scopre, perlato come la sclera.
Odo un passo salire per la scala. Odo la voce della Sirenetta.
La sento avvicinarsi come l’acqua sente il volo d’un uccello bruno, che in lei si riflette, verso sera.
Mi conduce un giovine aviatore di Sant’Andrea, un gentile compagno, quello medesimo che solevo chiamare il mio scudiere perché mi aiutava a indossare le pellicce, i calzari, i guanti, il cuffiotto, prima del volo.
Si avvicina al mio letto con infinita cautela.
Forse i suoi occhi non mi scorgono, venendo dalla luce.
È vicino al capezzale. Sento che trema. S’inginocchia.
Volgo un poco verso di lui l’occhio non bendato.
Il suo viso è quasi all’altezza del mio.
Distinguo su la sua spalla la corona e le stelle d’oro.
Distinguo i suoi capelli tagliati su la fronte chiara.
È commosso. Deve aver veduto prima d’ogni altra cosa le mie bende bianche.
Mi prende la mano e mormora qualche parola.
Fiuto su lui il mare, il vento dell’altezza, l’odore che si respira contro il cofano quando l’elica gira a prua.
Torna da un volo? Le sue mani lunghe hanno da poco lasciato le leve?
Mi racconta che ieri tentò di andare su Pola. A circa trenta miglia dalla costa, un guasto a un cilindro lo costrinse a calarsi in mare. Non essendogli riuscito di ripararlo in modo da riprendere il volo, cercò di avvicinarsi alla costa correndo su l’acqua.
Il mare era appena increspato. Da ogni parte l’orizzonte appariva deserto.
A un tratto nella scìa dei galleggianti balzò qualcosa di nero e di lucido. Qua e là in prossimità delle ali altri guizzi brillarono. Un dorso arcuato tagliò la rotta a prua. Una danza marina accompagnò il velivolo strisciante.
Era una torma di delfini. I loro guizzi e i loro salti non soltanto seguivano la scìa ma radevano a quando a quando i timoni e le ali, minacciavano d’infrangere la fragile struttura.
Il giovine china il capo verso di me per vedere il mio sorriso, avvicina il suo fresco sorriso al mio che fende il metallo arido della mia bocca.
Si crea un nuovo mito. I delfini amici dell’uomo non danzano intorno alla nave d’Arione, non intorno al cadavere d’Icaro sostenuto dalle armature delle ali spennate. Icaro sfiora l’acqua con un volo radente come quello del gabbiano che insegua la preda natante.
— «Per difenderci dovemmo ricorrere alla mitragliatrice» — soggiunge l’aviatore ridendo. — «A un tratto l’elica si spezzò. Un fiotto d’acqua calda mi colpì la faccia. Un delfino con un balzo aveva urtato una delle pale. Non potevamo più avanzare ma la costa era in vista. Un delfino con un altro salto ruppe l’estremità dell’ala sinistra. Una torpediniera venne al soccorso. Ci rimorchiò pel passo di Malamocco.»
Nel mio sogno il letto ha le oscillazioni del velivolo su l’onda lunga.
Mi ritorna nella memoria il ribrezzo improvviso ch’ebbi un giorno della mia adolescenza, mentre nuotavo nell’Adriatico, vedendo emergere dall’onda il dorso scuro d’un delfino a poche braccia del mio petto nudo.
Gli occhi mi bruciano come quando la schiuma della maretta batte contro il viso.
Ho un sapore di sale in bocca, più forte del sapore d’acciaio.
Sono rimasto solo.
La compressa s’è disseccata e la fasciatura non tiene. L’occhio lacrima, la palpebra ferita mi cuoce.
Un calore senza fiamma mi prende tutto il capo. Un’ira sorda contro il mio corpo dal tallone alla gola.
La mia mano si leva per strappare le bende, per gettare da parte il lenzuolo.
La pazienza si torce come una bestia castigata.
Il sopracciglio è fatto di spine. Lacrime senz’anima scendono alle mie labbra secche.
Sento la mia volontà non in me ma sopra di me, quasi lama affilata, lunga esattamente come il mio corpo sottomesso.
Con non so che malessere, penso al pozzo roseo di marmo veronese che è in mezzo al mio campiello, V’era in fondo un’acqua malsana e il coperchio di tavola era marcio, cadeva in pezzi. L’autorità pubblica gli ha turato la bocca con la calce. Ora il campiello non respira più. Il suo silenzio non ha le labbra socchiuse ma suggellate. Di qui lo sento soffrire.
La Sirenetta mi riconduce un’imagine dell’Estremo Oriente, cara ai miei morti.
Una donna esce dalla casa mattutina per attingere acqua, e vede che un vilucchio prestamente nella notte s’è attorcigliato alla corda umida della secchia ed è fiorito. Rientra nella casa e dice: «Il vilucchio ha preso la corda. Chi mi dà acqua?»
Io sono là, in un canto, seduto sopra una stola, quando ella rientra.
Odo il rumore che fa l’orciuolo vuoto posato sul pavimento.
Poi la voce delicata della fante, ancóra china nell’atto, mi rinfresca la gola come acqua attinta nell’ombra più misteriosa.
Ero anche là, presso la soglia, nella sera serena, quando la donna escì dalla casa per gettare l’acqua del secchio dove aveva lavato panni. Se bene il secchio le pesasse, ella camminava leggera a piedi nudi sul prato, e la sua gonna non faceva fruscìo ondeggiando.
In mezzo all’erba ella s’arrestò. La melodia roca degli insetti saliva dalla terra. Tutta l’erba era viva di suoni e di luccicori.
Scorsi il tallone d’uno dei piedi nudi rischiarato da un focherello notturno.
La donna restava immobile in ascolto, col suo secchio sul capo.
Si volse, e tornò verso la soglia, con un passo ancor più cauto e più lieve.
Rientrò nella casa. Depose il secchio non vuotato, silenziosamente.
Per settimane e settimane hanno condannato il mio corpo al sudore angoscioso, l’hanno disseccato, l’hanno assetato, vena per vena, fibra per fibra.
Soffrivo la siccità come certe plaghe della campagna romana quando il suolo si fende ed esala la febbre.
La mia bocca sempre aperta era come uno di quei crepacci, dura e secca come una terra vulcanica. Inasprita dal sapore metallico dell’iodio, senza più qualità umana, vera fauce della desolazione, che pareva screpolarsi dolorosamente a ogni sforzo della gola contratta per inumidirla.
Il sangue ispessito, carico di tossici, ingombrava il cuore che s’affannava a respingerlo con uno sgomento mortale.
Percepivo lo splendore bianco delle mie ossa come quello di uno scheletro abbandonato su la sabbia del deserto.
Pensavo a quelle piccole piante del deserto d’Arabia che avevano bevuta la rugiada della notte e fiorivano nell’alba brevemente, prima che le ferisse il sole uccisore, quando toglievo le pastoie al mio cavallo El-Nar che ne cimava qualcuna con le sue labbra delicate.
Ora, ecco, ho la voluttà breve di quelle piante, il gaudio antelucano.
Ho bevuto. M’è concesso di bere.
L’acqua mi penetra per tutte le fibre, m’invade tutto il corpo come la nuova linfa invade l’albero intristito.
Sono irrigato.
La freschezza discende alle radici.
Ogni cosa di me rivive nel profondo.
Sollevo la testa come se il collo fosse uno stelo ravvivato.
Ma una mano dolce e tirannica me la riabbassa.
El-Nar, ardore pieghevole del deserto, compagno della mia libertà senza vie!
Sporge verso il mio guanciale le sue froge sensibili e mi fiuta.
Mi cerca la palma della mano con quelle sue labbra tanto sottili che potrebbero bere in una coppa da mensa.
Mi chiede, come soleva, il suo pugno d’orzomondo.
Vedo rilucere nell’ombra il bianco dei suoi grandi occhi di principessa fatimita allungati dal kohol.
Pieghevole, e maravigliosamente accordato con la mia pieghevolezza. In tutte le andature, eravamo un animale compiuto. Quando per gioco, al passo o da fermo, io gli frugacchiavo appena appena con lo sprone il fianco, piegava la bella incollatura volgendo il suo gran ciuffo verso la staffa e alzava all’altezza della staffa il piè di dietro cercando di togliersi il fastidio, con la movenza del levriere che si gratta. E aveva tanta grazia infantile in quella difesa che io non sapevo tenermi dal ripetere il gioco.
Potessi riudire il suo nitrito e sentirmi a miracolo rifluire quel vigore flessibile in questo misero corpo stremato!
Quando lo impastoiavo con le belle pastoie intrecciate di rosso di blu e d’argento, alla porta d’un qualche fondaco di tappeti, metteva un nitrito in un certo tono minore per dirmi che si annoiava e ch’era tempo di rimontare in sella. Ma come dirò il clangore argentino del suo nitrito quando tornavamo verso il Cairo dal deserto con l’ultimo galoppo e scorgevamo di lontano nella sera di perla le luminarie del beiram?
Era sauro affocato, di quel grado che i nostri vecchi chiamavano metallino.
Quando lo chiazzava il sudore, passando dall’ombra al sole sembrava fuso d’un caldo bronzo abbondante di rame. Ma l’inquietudine della sua vita nervosa e la pulsazione delle sue vene palesi non s’accordavano con la similitudine del metallo.
O El-Nar, folgore docile della mia fantasia, portatore della mia felicità solitaria, non sei più altro che polvere? polvere ardente e tenue come quella che tùrbina nel soffio del Khamsîn?
Nell’ora della partenza ebbi cuore di abbandonarti perché, avendoti amato perfetto nel deserto senza vie, non volevo che tu finissi azzoppato dalla durezza dell’Occidente e rinserrato in una stalla squallida.
Ti baciai su la fronte stellata e tra le due froge calde dei tuoi spiriti.
Inclinasti il bel collo; e la tua criniera non toccò il suolo come la chioma del corsiere di Achille.
Ma, se anche a te la deità avesse dato la voce dell’uomo, forse m’avresti rivelato il tuo dolore e m’avresti presagito la mia sorte.
O roseti della terra d’Azîyeh, rifioritemi!
Sono giovine ancóra; e non temo il deserto.
Mi strappo le bende, mi slego i ginocchi, mi svìncolo i piedi.
L’alba mi ama. Bevo la rugiada per purificarmi il sangue da ogni tossico.
L’aurora mi ama. Mastico l’erba del grano che si leva, per restituire al mio cuore il ritmo della forza intégra.
Ho pettinato io medesimo il ciuffo la criniera e la coda del mio cavallo. Gli ho dato io medesimo l’orzo intriso con la crusca, e l’ho abbeverato.
Balzo in sella. El-Nar nitrisce verso il sole.
Me lo invidierebbe quell’Alessandro che, sùbito dopo l’approdo, andai a cercare laggiù nella lingua di terra giacente tra il Lago Mareòtide e il Mediterraneo.
Ecco che io e il mio fedele siamo una creatura sola. E il cuore mi grida che andiamo verso una straordinaria allegrezza.
Passo il ponte di Qasr-en-Nil, traverso l’isola di Gezireh, varco il secondo braccio del fiume, volto a sinistra, seguo la riva, rasento i giardini di Gizeh. Giunto in capo del ponte di Roda, volto a destra, prendo la via delle Piramidi sul grande argine arborato. Incomincio a respirare il vento del deserto.
Chi va verso il deserto va verso la tentazione.
Passato Azîyeh, dall’alto della scarpata vedo a sinistra un campo di rose. Vedo, quasi in sogno, un vasto roseto dagli alti steli carnale e fiammeggiante come doveva esser quello della mortificazione dopo che San Francesco ebbe finito di voltolarsi nelle spine.
Sorrido in me all’imagine del Serafico improvvisamente rinvenuta in una via d’Egitto con un corteo roseo d’ibi evangelizzate.
Mi chino su la criniera e dico:
«El-Nar, che facciamo?»
Giardinieri dalla lunga tunica azzurra tagliano le rose e le coricano in cesti di sparto.
Il cuore mi palpita nella più fresca poesia; e non sa né vuol sapere se sia per obbedire allo spirito di tentazione o allo spirito di mortificazione.
«El-Nar, dolce compagno, se non son io ad abbandonarti la briglia, credo che non avrai mai più la ventura di galoppare attraverso un bel roseto al margine del deserto.»
Detto, fatto. Spingo il cavallo giù per la scarpata. Salto il rigagno. Entro nel folto. Odo l’urlo degli uomini furibondi. Li vedo lasciare il taglio, raccogliere le lunghe mazze e precipitarsi urlando ad inseguirmi.
Certo cóntano sui primi impacci di El-Nar che già sanguina contro le spine robuste ed esita per qualche attimo, prima di fendere col petto i cespi che non può sorvolare.
Ma basta la mia voce incitante che gli entra giù per la criniera. Non sente più le punture, non più considera gli intrichi. Una follia di fanciullo eroico omai lo possiede e lo rapisce. Ritrova il suo galoppo alato delle sere di beiram. Distende il suo galoppo come sul piano di sabbia. Lascia dietro di sé, nel suo solco stupendo, una divina devastazione.
Ma c’è là il canale; ma ci sono là gli stagni creati dall’alluvione. I furibondi non restano. Mi volto di su la sella e li vedo brandire le lunghe mazze minacciose. Se non scampo, m’ammazzano; o mi lasciano stroncato a terra.
«El-Nar! El-Nar! Ecco l’acqua. Vola! Hai il mio cuore nel tuo cuore!»
Non misuriamo il canale se non a misura di coraggio.
Come in sogno, sollevati dalla forza del sogno, siamo di là; siamo al margine del deserto, siamo nella regione degli iddii e dei re.
«El-Nar! El-Nar! Voglio adorarti. Non hai il mio cuore nel tuo ma il cuore di Rakush immortale.»
Vedo la grande piramide di Cheope. Non mi volto più indietro. Gli stagni mi abbagliano come frammenti d’un cielo che crolli. Il vento è il palpito dello splendore. La poesia è la mia sostanza aerata. Il mio respiro è un canto immune dalla sillaba angusta.
Vedo sorgere dalle sabbie solari la faccia camusa della Sfinge che s’accoscia.
Arresto il galoppo davanti alla figura inaccessibile dell’Orizzonte. La parola dell’enimma è nella mia felicità che sembra in punto di spiccarsi dalla terra quando il cavallo su l’arresto s’impenna.
Balzo di sella. Sento affondare nella sabbia calda i miei due piedi umani mentre la felicità s’invola nello splendore senza limite.
«El-Nar, El-Nar, come ti hanno spronato le rose crudeli!»
Mi getto al collo del mio fratello sanguinante e schiumante. La sua criniera bipartita m’inonda. Sento tutte le sue vene e tutti i suoi muscoli tremare sotto le lacerature del suo bel manto lionato.
«Fratello mio dolce, mi vien voglia di piangere.»
Lo conduco all’ombra. Mi bagno le dita nel suo sangue e nel suo sudore. Dal petto, dalla groppa gli tolgo le spine che vi son rimaste confitte Per togliergli le spine dalle zampe, mi curvo, m’inginocchio, nell’atto dell’adorazione.
Egli piega la testa verso di me, e segue tutti i movimenti delle mie mani fraterne con i suoi grandi occhi ove l’anima arde e si dona.
L’allucinazione prende un rilievo di realtà così forte che, nel confronto, le persone presenti e parlanti sono fantasmi vani. Né posso interromperla.
Dianzi, mentre ero allungato nel bagno quasi scottante, con il capo sorretto da una zona tesa, i cavalli venivano come all’abbeveratoio. Udivo il sibilo dell’acqua tra le loro labbra molli. Quando i musi s’alzavano, vedevo l’acqua colare dalla commessura.
Nella piccola camera di marmo liscio gli sbuffi suscitavano una risonanza quasi di cìmbali.
Il maremmano irsuto, che aveva strappato l’orecchio a quel caporale butteroso di Girgenti quando io ero cavalleggiere, torna a guardarmi bieco.
E troppo m’attrista lo sguardo di Malatesta, del mio bel saltatore d’Irlanda storno codimozzo, che su un ponte d’Arno morì sventrato dalla stanga tronca del baroccio a cui avevano condannata la sua vecchiezza i miei persecutori.
Cavalli, cavalli senza numero, come a Versaglia nel primo ferragosto della guerra di Francia.
Stanno legati a una corda tra fusto e fusto, sotto gli alberi che tuttora mostrano l’arte delle cesoie; e il fieno la paglia il fimo sconciano la politezza dei nobili viali.
Ma quel ferito ha su la spalla fracassata un gran mazzo di rose; e quell’altro, che mostrava le gambe in sfacelo nere di sangue e di mosche, è ricoperto da una mantiglia di pizzo di Fiandra.
La città regale è trasformata in città equina.
Veggo i cavalli intorno ai bacini in abbandono verdastri di putridume galleggiante. Il palazzo è una cosa morta, indicibilmente morta. La prospettiva del gran canale sfonda, come uno Stige costretto a non si torcere, nella malinconia di un Ade infinito.
Veggo altri cavalli intorno a uno stagno ancor più triste. Nitriscono verso l’acqua cupa e torva che mi ricorda la faccia del mio lago di Nemi sotto il nuvolo. I loro abbeveratoi posticci stanno all’ombra degli olmi, in forma di battelli neri. Un odore accorante di stabbio occupa le delizie del Re.
Ora sono morti, sono tutti uccisi, macellati a masse.
La battaglia della Marna li lascia dietro di sé coricati nell’erba cosparsa di bottiglie vuote e di proiettili non esplosi. Hanno tutti la stessa attitudine, fanno tutti il medesimo gesto lùgubre fino all’orizzonte, col ventre gonfio, con la zampa di dietro rigida in aria.
Per le dolci praterie d’erba medica, ventri enfiati, zampe levate, gengive giallastre, occhi bianchicci, stormi di corvi, turbini di mosche.
E nei villaggi e nei campi, e nelle strade e da per tutto, cavalli uccisi; e l’orrore di quel gesto sempre eguale; e il luccichìo dei ferri in quella selva stecchita, sotto uno sprazzo di sole straziante.
In un campo di barbabietole, dietro uno sfasciume di affusti e di cassoni, scopro un cavallo superstite.
È solo. Non può camminare. Ha un nodello schiantato, e una profonda ferita nella natica, e un’altra al garrese.
Ma è quieto. Ha l’occhio tranquillo. È cessato il fragore. È finito l’inferno. Tutto è silenzio. Gli uccelli non cantano. Qualche uomo passa laggiù, nel sentiero, sotto la piovigginaia, con in sul capo una tela ripiegata di sacco. Presso una casa in rovina una trebbiatrice sta riversa con le gambe in aria come le carogne. Il poggio erboso ha un’inflessione tanto soave che sembra esprimere non so qual tenerezza della terra. Il gallo del campanile regna il silenzio che la pioggia fine lenisce. Di rado il vento manda una folata umida. L’odore della morte gli mozza il soffio.
Il superstite cerca di pascolare intorno, allungando il collo. È solo. Fra poco annotta. Una rondine spersa gli sfiora la groppa, senza strido.
O malinconia malinconia,
di tanto lontano mi riporti
quel che già tanto ti pesò?
Ecco che mi riconduci anche quello che fu il prediletto della mia infanzia nell’agio della mia casa, quando mia madre era il fiore pensoso della più sana giovinezza nella mia terra di Pescara.
Viene a me traversando il folto delle mie memorie come quando divideva col petto gli alti fieni non ancor falciati.
Solca la mia vita, che si piega dall’una parte e dall’altra toccando con le sue cime riverse il buon terreno.
Era un piccolo cavallo sardo. Era baio focato, balzan da uno, bevente in bianco. Aveva lunghe e fornite la criniera e la coda. Si chiamava Aquilino.
Nella stalla, tra la sua posta e quella della pariglia, ce n’era una vuota, dove io avrei voluto mettere il mio lettuccio di ferro. Quando potevo sfuggire alla vigilanza, scendevo col cuore palpitante ed entravo dalla parte del cortile. Aquilino, riconoscendo il mio piccolo passo, nitriva leggero come per evitare che altri udisse e s’accorgesse. Ogni volta il mio piacere era tanto che lasciavo andare le cocche del grembiule.
Allora il nitrito tremolava d’impazienza; e, mentre raccoglievo il pane le mele lo zucchero e tutto quello ch’era la mia merenda e tutto quello che avevo potuto arraffare alla dispensa pel mio compagnino goloso, mi saziavo del mio sorriso che era di non so che specie nutriente non assaporata più mai.
Una porta della stalla dava nella rimessa. La rimessa restava quasi sempre nell’ombra, rischiarata dalla luce di cappella che scendeva dai vetri colorati della rosta. C’era la gran carrozza degli sponsali coperta, foderata di panno blu, con le tendine di seta ai vetri, con le maniglie d’argento agli sportelli. C’era un calesse col mantice e una cesta a due ruote. E c’erano i finimenti da tiro appesi, che non mi stancavo mai di rimirare: collari, pettorali, groppiere, cinghie, tirelle, redini, fibbie ciappe anelli sempre lustri, e le lunghe fruste della mia bramosia.
Quel bambino chinato sul pavimento a raccogliere nell’ombra quel pane e quei frutti che s’è tolti di bocca pel suo amore, quel bambino già avido di vita singolare e di comunioni misteriose, ammaliato da quel nitrito come da una voce d’incanto, illuminato dal suo medesimo sorriso come da una lampada di sotterra, lasciatemelo qui sotto la mano. Lasciatemi riconoscere in quel suo atto e in quel suo piacere un’imagine di felicità fugace che m’è propria e che di tratto in tratto mi rilampeggia anche su questo letto di pena.
M’abitava già il dèmone lirico che tutto m’esalta e trasfigura?
Si svegliava già in me il senso magico della vita?
Come Aquilino m’annitriva sommesso, così io gli parlavo sottovoce. Come egli m’intendeva, così io l’intendevo, contento di tenere i miei due piedi nella paglia a paro co’ suoi quattro zoccoli.
Mi prendeva dalla palma della mano i pezzi di pane, gli spicchi di mela, i tocchetti di zucchero con una leggerezza accorta che era come il solletico e mi faceva ridere talvolta risa convulse e soffocate o sguittire senza ritegno. Ma avevo soggezione dei due grossi cavalli da tiro che facevano sonare di continuo le palle di legno attaccate alle corde della capezza; e mi studiavo di non lasciarmi scorgere.
E quel timore e quella cautela e quell’intendimento a poco a poco creavano nella stalla chiusa non so che fantastica lontananza. E quello sguardo nero che Aquilino teneva sempre fisso su me masticando, e quella sua figura sfacciata dalla macchia bianca e rosea del labbro mobile come il muso del lepratto, e quel suo dimandare con un fremito delle froge bramoso quando aveva finito, e quel suo mordicchiarmi dispettoso all’òmero quando io per aizzarlo nascondevo il resto dietro il dosso, e tutti quei suoi modi di duplice grazia a poco a poco confondevano in me la mia specie con la sua e mi fatavano.
«Ti do anche questo, se mi ti lasci prendere un crino, se mi ti lasci prendere due crini, se me ne lasci prendere tre.»
Mi ricordo che dovetti vincere un poco di vergogna e un poco di rimorso nel punto di strapparglieli. Sentiva male? Sapeva che mi servivano a fare il cappio per le rondini della gronda?
A strapparglieli m’aveva istigato mia sorella Ernesta. Ed ecco che il cuore mi doleva, forse per aver dato a patto e a scambio, forse per aver pensato a mettere in lutto il nido di fango.
Nel tirare, me n’eran restati in pugno assai più di tre.
Entrò il garzone di stalla, ch’era il complice delle mie scorrerie nascoste. E m’alzò e mi mise a cavallo sul «sardignòlo».
Mi piaceva di cavalcare da fermo in sogno. Ma non mi piaceva d’esser guardato.
Dicevo al garzone: «Vattene e poi torna.»
Chiudevo gli occhi. Ero fatato. La porta s’apriva al margine della foresta. Annottava. Non si vedeva mai la fine del sentiero.
Ma quella volta la mangiatoia restò contro il muro, e il muro non si sfondò; e il cavallo non camminò, se bene io gli parlassi sottovoce.
Avevo tuttavia quei crini nel pugno e il tormento indistinto nel cuore.
Uno strido improvviso, un lampo bianco.
Dal vetro rotto dallo spiraglio era entrata una rondine?
C’era un nido nella volta della stalla?
Da quanto tempo?
Palpitavo attonito.
Una piuma leggera discese per l’aria fatata ondeggiando: quella da mettere nel cappio a inganno.
Non aspettai che il garzone venisse a togliermi di groppa. Scavalcai una gamba e mi lasciai scivolare sopra la paglia.
«Torno, Aquilino. Prima di sera torno.»
E andai diritto verso il focolare, con una fronte dove già cominciava a segnarsi il solco verticale della volontà.
E gettai quel pugno di crini nel fuoco fatato.
O malinconia, malinconia, |
Io, mio fratello, le mie tre sorelle, eravamo discesi nella rimessa, eravamo saliti nella vecchia carrozza degli sponsali, dove il panno blu sapeva di pioggia rasciugata e un cuscino era tiepido del gatto che ci aveva dormito.
La porta della stalla era aperta. Aquilino agonizzava su la paglia. Mio padre era inginocchiato accanto al moribondo, tra il cocchiere e il garzone che teneva la tazza della medicina e il cucchiaio di bosso piagnucolando.
Dallo sportello, stretti nello sbigottimento, noi guardavamo senza piangere, con un cuore serrato che non lasciava passare né una goccia di sangue né una lacrima di dolore. Guardavamo per la prima volta la morte, noi che non ci avevamo mai pensato se non nella notte dopo Ognissanti per aspettare che ci portasse i suoi doni.
Scorgevo i moti convulsi delle zampe, e quella balzana mi faceva più male; e il tremito del povero muso bianco mi faceva ancor più male.
Ma non piangevo; e solo dominavo la pena di tutt’e cinque.
Il garzone ruppe in singhiozzi. Ricacciai in gola i miei con non so che sdegno. Vidi che le povere zampe s’erano stecchite.
Ci stringemmo ancor più e ci agghiacciammo insieme, sotto quel cielo di carrozza cupo, in quella luce fioca della rosta. E per la prima volta con dieci occhi fissi guardavamo la morte. Ma io ne serbavo per tutti l’impronta.
Allora mio padre s’alzò, ripassò la soglia, si soffermò volgendosi verso noi sbigottiti; e, sul silenzio gelido che avevo dentro il mio petto, egli disse, con un accento che ora ho vivo ed esatto nell’orecchio e nell’anima: «Gabriele.»
O malinconia, malinconia, |
O cessate di piagarmi...
Chi mi ha mandato questa interprete dei responsi che la mia sibilla bendata tralascia di scrivere nelle foglie errabonde?
Ella canta; e il canto prende la mia doglia e le dà la fluidezza, e la illimpidisce, e ne fa una corrente piena e soave che mi trasporta là donde vorrei non più ritornare.
La sua voce tocca le note basse del contralto quando canta il secondo lamento:
O lasciatemi morir.
La corrente è come un vortice tardo che non segue più la linea dell’orizzonte ma declina verso la profondità colorata dalla porpora violetta.
Si fa salsa.
Mi depone nella tenebra marina del mio sepolcro icàrio.
Non so più cosa son cosa faccio...
Ella sembra un giovinetto, ma non è vestita come Cherubino. È vestita all’italiana, all’uso degli antichi abiti italiani di due colori. Porta un gran berretto di velluto che mi fa pensare a Pisanello; e non le manca se non una bella daga dietro le reni falcate, e l’arte di ferire.
È verso sera. La luce si fa mite. Quella pietà senza peso, che porta il nome di Aelis, ha aperto la finestra più lontana e mi ha concesso un bicchiere d’acqua con l’orlo d’oro.
Ho nell’occhio una bolla di forma ovale, come un altro occhio di fuoco labile. Ma vedo laggiù riflesso nello specchio il gran muro di glìcini; e dal fondo del mio cervello il mio glìcine tristo ricomincia a fiorire.
Entra l’aria. Indovino che conosce la prima falce della luna, come il fieno sotto il taglio più odora. Per tutto il corpo consunto ella mi tocca come le dita che imbalsamano.
Ogni mia delizia è straziante.
Ora ho più sete che prima d’aver bevuto.
Sento per tutti i muscoli il battito delle fibrille, come se fossi tutto pieno di crisalidi in punto di rompere.
Soffro. L’odore delle rose monta. Indovino che monta la marea.
Soffro. Datemi un rimedio che mi stordisca, che mi stupisca, che mi annienti.
Fate tacere quel canto.
Ecco un’altra mina che scoppia in deriva, verso Chioggia. Mi scuote il male nell’orbita.
Può l’atrocità di questa mia primavera gorgheggiare nella gola di Cherubino?
Con una delle mie fasce in tre doppii strangolatelo.
La luna crescente è a sommo del cielo. I canti hanno lasciato non so che languore nella stanza silenziosa. Il sospiro di Cherubino è rimasto tra le pieghe delle cortine scolorite.
Ho fatto aprire gli scuri. Sono disteso presso la vetrata. Il chiarore piove su le mie mani e le fa anche più esangui.
Alzo la benda e intravedo la faccia della luna a traverso le zampe villose del ragno che sta in agguato al centro dell’occhio destro.
Il vento della sera è caduto. Il giardino è immobile, ma la luce è tanta che si distingue la verzura più recente da quella che già s’è incupita.
Contro il ferro del davanzale vedo luccicare le fogliette che sembrano spalmate di cera.
La balaustrata, i vasi, i putti di pietra biancheggiano come la neve.
Di là dal canale i palazzi delle donne belle e famose tacciono abbandonati. Tutte le finestre del palazzo Da Mula sono chiuse, la casa mozza di Corè ha più che mai un’apparenza di rovina incantata. I cipressi sopravanzano le grandi bugne su cui pendono i tappeti della vite vergine.
Da quella scala che ora è un’ombra di velluto, in un plenilunio d’estate che sembra remotissimo, esciva la mascherata condotta dall’Arlecchino bianco che portava sopra l’òmero un pappagallo azzurro e a guinzaglio una di quelle piccole pantere che sul Citerone, nell’orgia notturna, popparono le mammelle delle Menadi gonfie d’un latte subitamente affluito.
O Fantasia, che dei tempi e delle distanze fai il tuo giuoco audace!
Mi par di vedere su la scala del palazzo tronco l’Arlecchino bianco, disegnato con l’arte del Longhi pervertita e acuita, sollevar l’orlo della maschera per mangiare i tre acini della melagrana di Persefone nell’Ade.
Un clamore confuso viene dal bacino di San Marco.
È la mascherata che ritorna coi suoi mantelli, coi suoi tricorni, con le sue bautte? I servi in parrucca stanno per apparire in capo della scala con le lanterne dorate?
Ascolto. Attendo.
Alzo la benda e l’occhio fisso alla luna mi sembra più malato.
Il cuore mi sobbalza. Il clamore s’avvicina. Riconosco una canzone di guerra.
Ora tutto il canale echeggia. Chiudo le palpebre. Il coro è rosso nella mia visione coperta.
Mi sollevo, mi chino verso la vetrata.
Vedo tre grandi peate rimorchiate da una barca a vapore. Sono cariche di reclute che gridano e cantano andando verso la trincea lontana.
È il carico della Patria, il carico di carne e di sangue, più bello che i frutti dei lidi e delle isole sbarcati al ponte di Rialto coi profondi canestri.
Il grido dei soldati nuovi fa tremare la casa come il rombo del mortaio.
Una forza subitanea contrae i miei nervi. Mi levo, m’appoggio contro le imposte, metto la fronte contro il vetro freddo. Un grave brivido mi traversa.
Alzo la benda e guardo coi miei due occhi, e più con l’occhio ferito, il carico di sangue che passa lasciando nell’acqua morta una scia di splendore.
L’infermiera mi ha sorpreso. Mi ha riadagiato su i cuscini.
La luna brilla nella visiera di cristallo che mi fanno le lacrime, forse fastidio delle palpebre irritate, o simili forse a quelle che conobbi dalla musica sublime.
Il clamore è dileguato. Il silenzio e l’albore sono un solo sentimento funebre.
L’odore dei giaggioli, che qualcuno ha colti per me negli orti della Giudecca, mi diventa a un tratto intollerabile.
Per sfuggire all’imagine orrenda, evoco i muri toscani lungo le strade bianche coronati de’ bei fiori violetti quando il barocciaio passa addormentato nel sonno d’aprile.
L’odore mi soffoca. Vedo le corone marcite sul tumulo del mio compagno perduto.
Vedo i suoi dolci capelli biondi rilucere là dove tutto è forse già informe.
Vedo, presso il tumulo, il cippo romano fitto sul teschio dell’altro mio diletto. L’oro dell’ala d’Icaro luccica nella cavità, sotto il braccio teso dalla volontà immortale.
Il cadavere di Roberto Prunas, gonfio e bianchiccio, s’è arrestato contro uno sbarramento di torpedini. Sta sospeso e oscilla, macerandosi nel suo gabbano come in un sacco slegato.
Nessuno scriverà su quella tomba marina il suo nome.
La marea sale, la marea scende. La luna cresce e poi si logora.
Ma il sonno anche stanotte è un dio inconciliabile come il suo fratello nero.
Se bene il rigore della disciplina orizzontale sia allentato, le cure fastidiose non cessano. Il dottore con l’indice e col medio congiunti esamina la tensione palpandomi le due pàlpebre chiuse. A volta a volta il suo cipiglio si spiana o s’incrudisce. C’è tuttora pericolo che, per salvare in tempo l’altro occhio minacciato, egli mi debba cavar questo coi ferri.
Continua intanto a immetterci col suo ago l’acqua salsa come se alimentasse un acquario. Ignora i portenti ch’egli promuove.
Oggi nel fondo la vita marina è meravigliosa. Mi si scava nella coppa retinica un abisso oceanico, non so che gorgo d’oceano siderale dove m’appariscono contorni della forma sconosciuti e modi del colore non anche rivelati da alcuno spettro.
Che son mai le sirene i tritoni le nereidi e tutte le invenzioni del mito nettunio al confronto di queste creature indicibili che popolano gli immensi miei orti di coralli, le chiostre dei miei giganteschi polipai petrosi?
Che son mai le reggie inflesse e i labirinti intorti della favola al paragone di queste rupi d’ambra e di berillo curvate in circo, dove fioriscono a miriadi le costellazioni viventi delle attìnie?
«Dal primo plasticatore Iddio, della terra vergine elementaria da sé creata, fu fatta la plastica del primo uomo.»
Fiuto la creta umida e grassa in queste parole che mi tornano alla memoria da non so più qual volume polveroso.
C’è in fondo al mio occhio un dio plasticatore, e c’è una massa plastica inesausta: la terra elementaria.
Col medesimo pollice invisibile l’onnipotente forma di rilievo e cancella, figura e trasfigura, crea dall’ignoto e nell’ignoto annìchila.
Gli artieri senza nome e senza numero dell’Egitto e dell’India, i collegi dei figuli ornatori di vasi e di mura còttili, le maestranze corali degli edifizii gotici non inventarono e non perpetuarono nei secoli tante imagini quante ne assomma in una notte la piccola sfera del mio occhio infermo.
La massa plastica è rischiarata a quando a quando dai lampeggiamenti della divinazione, è levigata a quando a quando da una sinuosa melodia fluviale.
Che scopre il dottore attraverso il suo disco forato quando mi fissa la pupilla dischiusa dalla virtù di una goccia?
Rivelazioni sublimi si celano nell’occhio umano, come le forme espressive dei cristalli sensibili nella miniera inesplorata.
L’occhio dell’Indo, dell’Egizio, del Caldeo, del Perso, dell’Etrusco, dell’Elleno, l’occhio stesso di Mosé credeva di leggere nei segni dell’universo le origini dell’universo.
Ma la nuova cosmogonia sarà letta dall’occhio nell’occhio che è lo spiracolo mistico del cervello creatore.
Et remotissima prope.
Che sono queste apparizioni titaniche in sfondi d’architetture fatte di rupi squadrate e sovrapposte?
Mi ritorna Eschilo con quella sua perduta tragedia del Prometeo di fuoco?
Voleva che fosse rappresentata sul primo annottarsi, in onore e in letizia degli adolescenti agitatori di fiaccole.
Le remote imaginazioni e meditazioni su le tragedie perdute di Eschilo mi tornano in vicende e in catastrofi raffigurate con una grandezza che mi strappa grida di meraviglia e di rapimento.
Ecco Glauco marino.
Ecco la trilogìa niobea.
Ecco la trilogìa tebana.
Ecco il Pastore di anime.
Ecco il fato d’Issione, il fato di Sìsifo.
Eschilo era ignoto a Dante. Se il magnificatore di Capaneo avesse conosciuto il tragedo delle feroci Erine, dove lo avrebbe egli collocato, nel suo Inferno?
Il ponte di travi di tavole e di ruote, dove Michelangelo saliva per dipingere la volta della Sistina, mi s’è ricomposto nel sogno.
Ho sfiorato il prodigio con le ciglia, ho toccato il prodigio con la mano.
«Questa è una bella materia» fece Francesco Francia palpando la statua di Papa Giulio. E il Buonarroti si sdegnò.
L’opera titanica è bella come un’ala di farfalla.
Veduta da vicino, in ogni parte e nel tutto ha la perfezione compatta d’un guscio d’ovo, una continuità simile alla politezza d’un dente d’elefante. È una tra le più belle materie del mondo, nata intiera da un cervello maschio come certe gemme virtuose che gli antichi lapidarli credevano generate nel capo di certi animali solinghi.
O chiome delle potenti sibille!
Sembra che la lentezza dei secoli non basti a formare il pregio d’un sol frammento di questo intonaco; e questo intonaco Michelangelo lo preparava da sé ed era costretto a dipingerlo in un paio d’ore, dopo aver macinato da sé i colori, dopo aver fatto ogni mestiere da sé.
Le spatolate sono visibili. Mi commuovono a dentro come se fossero le tracce lasciate da un combattimento vinto a furia di lampi mentali.
La volta era scarsamente rischiarata. In qual penosa attitudine il pittore dipingesse si sa dal suo crudo sonetto a Giovanni da Pistoia. Non aveva egli la guida dei cartoni. E con che s’aiutava egli dunque?
Ecco questa mano di Domineddio, gigantesca. E come faceva egli a proporzionare con questa il resto della grandezza, mentre il pennello gli gocciolava sopra il viso e il ventre gli s’appiccava sotto il mento?
Quando dipingeva questa testa di Adamo, i piedi della figura erano laggiù, lontani come i miei se nel travaglio dei tossici smarrisco il senso del corpo e mi difformo a dismisura.
Non credo che ci sia nel numero dei drammi mentali un fuoco di cervello da paragonare a questo.
L’istinto di divinazione accompagnava continuo l’opera. Se è vero che nella Sistina egli non fosse in buon luogo, è pur vero ch’egli non faceva il pittore, come confessò egli stesso in rima al suo Giovanni.
Aveva nel suo «petto d’arpìa» l’afflato dei suoi profeti e delle sue sibille, e nella fronte rugosa il balenìo continuo del Monte Tabor, questo manovale disperato, questo macinatore e intonacatore ansante. Non lavorava se non d’ispirazione e di miracolo. E il manico del suo pennello non era se non una verga divinatoria.
Ho rapito con le unghie un frammento della materia preziosa, un pezzetto del guscio; e ora lo voglio incastonare in un anello di ferro per farne un dono eroico al mio spirito che non dorme.
Dov’è la gemma tagliata che l’eguagli?
Non ebbi mai tanto rammarico nello svegliarmi.
Certo questo sogno me l’ha mandato l’arcangelo del mio nome.
L’estasi discende dall’alto nei beati o sale in loro dal profondo?
Quel che ho sentito non lo so assimigliare né significare, neppure se penso a un’aurora che d’improvviso nasca dal flutto dello spirito e irradii il sommo della carne.
Ero il giovinetto di Prato, ero l’amico del Bisenzio.
Era l’aprile, come ora; era il tempo di Pasqua.
Camminavo su per l’argine erboso dell’Affrico tenendo per mano la «compiuta donzella» che aveva i miei sedici anni eguale e portava come una ghirlandetta il suo bel nome toscano non svelato in quella strofe alcaica del Canto novo tutta argentina di vétrici.
Ogni passo era un aumento di gioia silenziosa.
Ma ella scorse di lontano la madre che veniva in cerca di noi camminando in contro a noi; e me lo disse.
Allora ci soffermammo, e tremammo tutt’e due come le vétrici; e ci parve che la fiamma subitanea del rossore ci montasse alla faccia dalle calcagna e di più giù che le calcagna: dalla verecondia della stessa primavera.
Ora come può il sogno ricondurre da tanto lontano il rossore e mutarlo in un così glorioso giubilo di sangue?
E perché mi sono svegliato?
Prego uno dei sonatori che mi lasci vedere il suo violoncello. Egli me lo porta delicatamente, con un sorriso modesto.
Questo Alberghini è un sagacissimo cacciatore di strumenti, per monti e per valli. Quando ha notizia di un violino o di una viola che si nasconda in qualche parte, come altri d’un cignale o d’una lepre, si parte e non lascia di cercare se non abbia trovato.
Questo suo violoncello è di Andrea Guarneri. Egli ebbe la ventura di trovarlo in Egitto, al Cairo. Sorrido pensando che ho sotto la mano un purosangue come El-Nar e che somiglia al mio sauro anche nel mantello.
La vernice è intatta e ricca, d’un bel colore rossobruno che lascia trasparire l’oro del fondo. Più trasparisce nel dosso l’oro, a strisce, a chiazze, e qua e là su le fasce che sentono dell’ambra. Di dietro, il manico è pallido, levigato dalla mano che scorre. Ma nel mezzo del dosso è il portento di grazia: una paradisea ha specchiato là il tesoro breve della sua gola e l’imagine v’è rimasta presa nella vernice perenne.
Il sonatore mi racconta che al Cairo fece il cambio con un suo compagno dalla mano corta, dandogli un Gagliano piccolo.
Costui l’aveva comperato nel Cremonese. Un violoncellista rustico lo sonava nella cantoria d’una chiesa di campagna. Durante una funzione solenne, la cantoria crollò con l’organo col violoncello con i sonatori e con i cantori. Il violoncellista si ruppe una gamba. Lo strumento fu danneggiato nel fondo ma non nell’anima. Dopo alcuni giorni, fu sottratto al restauro d’un riparatore inesperto.
«Con il suo ponticello e con le sue effe dalle gocciole grosse non sembra una bella faccia dalla bella voce? È vivo. Non c’è bisogno dell’arco. Suona da sé, canta da sé. Nella città del Messico le donne si avvicinavano affascinate dal timbro angelico e venivano a toccargli questa pelle più preziosa e più sensibile della loro.»
Così parla l’artigliere emiliano vestito di grigioverde.
«La pelle della donna mangia la vernice. Ho veduto a Nizza uno Stradivario spoglio in gran parte dal braccio nudo e dalla scollatura della violinista.
Invece a Ferrara ho veduto un altro Stradivario dentro una campana di cristallo. È uno dei primi, amatizzato. Quasi tutto il suo legno è in polvere, ma la sola forza della vernice lo tiene insieme. E mi ricordo che avevo paura di respirare, davanti alla reliquia.
Chi può dir qualcosa di sicuro in materia di vernici? La rossa? la gialla? Per essere tanto invitta, quella deve avere in sé polvere di diamante.»
Io ho la mano su la spalla del violoncello mentre l’artigliere lo regge per la tastatura seduto. E quel ch’egli dice sembra che, per giungermi all’orecchio, passi attraverso la sensibilità delle corde e del legno.
«C’è una comunanza misteriosa fra la struttura dell’uomo e quella dello strumento. C’è una relazione certa fra la sanità del sonatore e la qualità del suono.
Prima si sonava senza il puntale, tenendo il violoncello su le caviglie congiunte. Il gioco delle gambe moderava quella vibrazione che fosse per giungere troppo forte al piano armonico.
L’osso è musicale. Sembra che l’osso d’un buon sonatore debba essere rempiuto d’aria piuttosto che di midolla. La tibia e il femore hanno un’influenza continua sul suono. Ogni nota può esser corretta dalla pressione sapiente. Per esempio, il mi bemolle nella quarta posizione trilla. Il sonatore accorto può con la gamba sopperire.
Molta importanza ha anche l’arco. Secondo la specie dell’arco il suono è più nutrito o men nutrito. Tra il legno dell’arco e quello dello strumento non ci può non essere una rispondenza vitale. La fibra del legno, non piegato a fuoco, trasmette immediatamente l’intenzione della mano. Ecco un «Tourte» nervoso, con la bacchetta ottagonale, col tallone d’ebano, con l’occhio di madreperla. Eccone un altro con la bacchetta tonda fasciata di cuoio nero impresso a piccoli ferri, col tallone di tartaruga scura, con l’occhio d’oro.
Ecco un «Dodd», inglese, che ha un’altra grazia o forse non ne ha, con la sua fasciatura di balena, col suo tallone d’avorio, col suo pometto ottagono d’avorio e argento.
Ed eccone uno senza nome e disadorno, anzi poverello, un vero arco francescano da Cantico delle creature, che di buono non ha se non il colore rossobruno del suo legno intonato col mio Guarneri.
E solo questo, non si sa perché, conviene al mio violoncello; e solo questo, non sì sa perché, riesce a cavargli dall’anima tutta la voce.
S’intendono. A ben considerare i due legni, c’è da credere che quest’arco gli sia stato tratto fuori dalla fascia come Eva dalla costola di Adamo.»
L’artigliere si mette a ridere d’un buon riso infantile e pizzica il cantino.
Io gli dico: «Può essere. Gli strumenti sono di natura demoniaca. I maestri vecchi nell’alto del manico, invece del riccio, mettevano qualche volta la figura del bellissimo Nemico. Ho visto una viola bordona con un manico che finisce in testa cornuta. Nel mio paese d’Abruzzi ho visto una viola d’amore con nel manico una specie di strige dal lungo collo che si ripiega verso il sonatore a tentarlo e gli insinua nel cuore il suo fàscino perfido».
L’artigliere non celia più. «Non c’è dubbio» soggiunge. «Il grande liutaio è mago. Nella scelta dei legni non può illuminarlo se non la magìa. Perché un Testore ti sceglie l’alberaccio soffice che s’imbeve sùbito di suono, e il suono gli circola dentro continuo come una linfa arida? E perché invece un Guarneri del Gesù non dà grande importanza alla scelta, sentendosi capace di mutare qualunque legno con la sua influenza misteriosa? Ecco un vero poeta occulto. Non lavora se non per ispirazione. Ti taglia nella faccia del violino due effe imperiose, due effe prepotenti; e la faccia vive, esprime, favella, è impaziente di cantare.
Quale è dunque l’influenza delle effe sul piano armonico? Le effe del Gesù non somigliano né a quelle dell’Amati, né a quelle dello Stradivario, né ad altre. Come fece a trovarle?
E non è mago quel Gennaro Gagliano il Trasparente, che scaglia alla gola della Musica le sue piccole tigri striate?»
Mi piace la passione di questo squisito violoncellista addetto all’artiglieria pesante, che sente ed esprime con questa intensità quasi lirica la vita delle cose viventi.
Dice: «Non c'era un violoncello sordino, da studio. M’è venuto in mente di costruirne uno, con una strettissima cassa armonica adatta all’estensione della cordiera. Per caso n’è nato uno strumento nuovo, che ha un suono delizioso di corno inglese, ottimo per le arie di danza».
Gli dico: «Chiamiamolo l’alberghina».
Egli va a prendere la sua alberghina. Torna. E mi suona una giga, una corrente, una gagliarda.
A mezzo della gagliarda udiamo l’ululo lùgubre della sirena seguìto dal colpo di cannone.
La Sirenetta mi porta uno strano libro di musica e non mi vuol dire dove l’ha trovato.
È scritto a mano, è scritto da una mano leggera e volante, rilegato in una cartapecora giallastra che sembra pastiglia impressa. Ma non debbo leggere.
Sul rovescio della legatura è scritta a mano questa sentenza: «Ignavia est iacere ubi possis surgere.»
È una rampogna al giacente, che prende suono da una bocca pietosa?
Palpo le pagine. La carta è fine e molle, simile a una foglia che cominci a consumarsi per i margini.
La Sirenetta mi dice che è una intavolatura di liuto, una raccolta di arie per liuto; e mi legge i titoli: Passomezo di Vincenzio Galilei, Intrada anglicana, Volta ursina, Pavana lacrimata. Gagliarda passionata, Gagliarda di Diomede...
Mi riapparisce Arnold Dolmetsch, e quella sua piccola compagna, olandese di origine spagnuola, giacinto di Harlem bruno come il rosario di Filippo II dipinto da Juan Pantoja, chiamata Melodia.
A Zurigo, andavamo in un’abetina solitaria rischiarata dalla luce delle navate gotiche. Arnoldo portava seco un suo liuto costrutto in Venezia da Magno Steger, simile alla carena della galèa, fasciata di doghe alterne, chiare e scure, straordinariamente leggero. Col liuto accompagnava il canto della sua compagna graziosa, dopo aver detto: «Non sa cantare. È il suo più gran merito.»
Egli teneva davanti a sé la custodia dello strumento in guisa di leggìo, con l’intavolatura sopra. Appoggiata al tronco di un abete vestito di muschi, Melodia cantava dondolandosi un poco, disegnando nell’aria qualche vago gesto di sogno, talvolta interrompendosi per cercare le parole dimenticate della vecchia canzone.
Cantava le vecchie canzoni dei trovadori, come quella di Tibaldo di Sciampagna re di Navarra che dice: «Amors me fait commencier», come quell’altra che incomincia «L’autrier par la matinée», e come quella che s’intona «J’aloie l’autrier errant sans compagnon».
Cantava le vecchie canzoni inglesi del tempo dei Tragici, come quella di Desdemona «O willo, o willo, shall be my garland», e come quella bellissima su parole di Ben Jonson «Have you seen but a whyte Lillie».
I piccoli gesti ingenui filavano fra tronco e tronco, entro quel chiarore d’alabastro, i ragnateli degli amori morti.
Il sopore m’ha preso mentre continuavo a lasciar passare fra le dita le pagine molli del libro di musica.
Ho fatto un sogno delizioso come quello del rossore. Ho bevuto la più bella canzone del mondo.
Ero nella sala d’un grande castello di Scozia. O di quale contea senza nome e senza clima?
La sala era una indicibile meraviglia di colore, addobbata dall’arte umana così come l’uccello di paradiso fu abbigliato dall’arte divina. Nei damaschi nei broccati nei velluti il verde di smeraldo, il giallo di paglia, il rosso di porpora, il nero di corvo, il neroverde misto d’oro componevano accordi inauditi, con la medesima sapienza vivente che è nelle piume della paradisèa. E le carnagioni delle donne e dei ragazzi vi risplendevano assai più che nelle più belle tele di Sir Joshua e di Gainsborough. E certe donne e certi ragazzi accarezzavano sopra i sofà il morbido pelame degli «spaniels» dalle ampie orecchie pezzati di grigio e di castagno, di bianco e di arancione.
E una voce cantava come se l’uccello di paradiso avesse rapito l’arte notturna all’usignuolo di giugno e avesse potuto renderla solare o sublimarla e colorarla dei colori delle sue piume.
E tutta quella gioia degli occhi era modulata da quel canto, ora sommersa, ora emersa, ora rifluita, ora confluita...
Ah, che son mai queste note ch’io tento di ritrovare, o canzone visibile della paradisèa non vista?
Ogni volta che mi sveglio perdo una terra promessa.
La sensualità mi turba nella veglia e m’insidia nel torpore. Accessus morbi. Ripatisco gli assalti ed i travagli di quel male ereditario che faceva tanto soffrire Giorgio Aurispa umiliato e degradato.
La madre del re Lemuel dice dolente: «Che, figliuol mio?»
Un’altra voce s’insinua e dice indulgente: «Che ti vale sfuggire la giovine donna disarmata, e i roseti che sono in lei più profondi del giardino d’Azîyeh già posseduto, e i grandi occhi patetici come quelli del tuo arabo martirizzato dalle spine, e la sovrannaturale vicenda dei volti tragici che le màscherano il teschio quando ella delira? Che ti giova sottrarti a queste cose, o asceta troppo vigile, se soltanto queste cose possono aiutarti ad approfondire il mistero che non mai rischiararono le tue virtù né le tue rinunzie?
Come può esserne lesa la tua volontà di dedizione e di perfezione? E, se il tuo dispregio è doloroso, come può menomarti? E, se la tua malinconia prese di continuo forza e ala dal discordo continuo fra la tua sensualità e la tua intelligenza, come puoi tu pensare di sopprimere in te il più attivo levame lirico della tua vita interna?»
Chi ha parlato così?
Mi tolgo la benda, mi levo sul letto; e crudelmente guardo quella striscia di sole che s’allunga laggiù a poco a poco su le miniature della parete, su i cuscini sbiaditi del sofà, sul delicato arpicordo.
Torna Melodia, in gonna larga di taffettà, alla tastiera d’ebano per ricantarmi la vecchia canzone di William Lawes? «O my Clarissa!»
Così scendeva il sole giusto e forte nella dolina contornata di pini grami sottomessi alla bora di Trieste.
C’era una baracca coperta di stuoie, per gli ufficiali della batteria.
In un tiro di sbarramento la batteria aveva fatto strage dei nostri.
Il mucchio sanguinoso era lontano ma pareva approssimarsi con uno strisciare di viscere. Io lo sentivo, come in ascolto si sente l’avanzare di una compagnia carponi tra sassaie e cespugli.
Gli uomini erano là, davanti al capo accigliato.
La voce del capo scrosciò. Il sole in quel momento scendeva a dorare il pallore degli uomini.
Si disputava di carne cristiana, di carne paesana, di povera carne nostra.
Il sole toccò le tavole, che avevano un aspetto quasi animale, diverse l’una dall’altra, con le loro macchie, con le loro fenditure, con i loro nodi, con i loro chiodi, con i loro contrassegni.
Il capitano smorto non riesciva a dominare il tremito miserevole della sua bocca. Gli luccicavano nelle dita troppi anelli.
Il sole toccò le camicie e le calze dei soldati appese alla corda.
Si dichiarava la persistenza dell’errore, il numero dei cadaveri, il basso tentativo della discolpa.
Il sole toccò una fila di gavette lustre.
Passavano sopra la dolina le pentole stanche, imitando il cigolìo delle vecchie vetture nelle rotaie malferme.
Il sole toccò una pala, una mazzaferrata, un pistolotto, un barile, una cassa di calce.
La voce del capo non cessava di condannare, implacabile. Un sottotenente imberbe scoppiò in singhiozzi. Insieme con una pentola stridula passò nell’aria un uccello sperso gittando un baleno dal ventre bianco.
Il sole toccò la riserva delle granate dall’ogiva tinta di rosso chiuse nelle loro gabbie di legno greggio.
Il capitano all’improvviso stramazzò e rotolò nel fondo della dolina, preso da una convulsione di femmina.
Arrivava il carnaio in marcia?
Vidi la dolina carsica, simile a un occhio delle pàlpebre rovesce, arrossarsi di carne maciullata, per tutto l’orlo.
Sono disteso davanti alla finestra. La luna è colma. Non v’è bava di vento.
La casa di Corè è abitata dai pavoni bianchi. Non vedo se non la vasta base di pietra e gli alberi del giardino nascosto e una striscia d’acqua luminosa.
Una grandezza solitaria e mistica come in una città morta della Persia o dell’India.
Il canale è come un fiume santo ove al tramonto sieno state sparse le ceneri dei roghi.
Non s’ode voce, né tonfo di remo, né remore alcuno. La vita sembra esalata da secoli.
La luna insensibile contempla una bellezza esanime come quella di Angkor e di Anuradhapura.
A un tratto l’ululo della sirena d’allarme lacera il silenzio.
Un colpo di cannone rimbomba dal Lido fino a San Giorgio, da San Giorgio fino alle Fondamente nuove. S’annunzia all’improvviso l’incursione notturna dei distruttori alati.
Ed ecco, sotto la minaccia, la città tutta quanta rivive meravigliosamente nella mia carne, nelle mie ossa, in ognuna delle mie vene.
Le cupole i campanili i portici, le logge le statue sono le mie membra, sono il mio dolore.
E mi contraggo sui miei guanciali, col viso rivolto al cielo di luce, non sapendo da qual parte sarò per essere mutilato.
La mia vita umana si sperde. Ho in me la vita dei marmi e la potenza della storia scolpita, in attesa dello sfregio senza nome.
Bellezza della notte, quante volte t’ho perduta!
Di vedere, di guardare, di conoscere ero avido sempre, insaziabile ero sempre. Eppure, o mie pupille erranti, non avete veduto abbastanza, non avete guardato abbastanza, non avete potuto accogliere in voi tutte le facce della deità manifesta.
E una di voi è già spenta, e l’altra s’intorbida e si affatica e forse è destinata a oscurarsi.
«Guarda! Guarda!»
Nel plenilunio risuona quella voce che sapeva accordarsi con ogni tono della sventura e con ogni tono della felicità: la voce di Ghìsola.
«Guarda! Guarda!»
Ella mi riscoteva dal sonno. Ero annegato nel sonno come in un fiume nero. Mi pareva ch’ella mi prendesse di sotto alle ascelle e si sforzasse di trarmi su dal gorgo torpido.
«Guarda! Guarda!»
Così mi trascinò alla finestra. E io sollevai le pàlpebre gravate; e intravidi i grandi picchi di zaffiro, i vertici soprannaturali di un pianeta senza uomini.
«Guarda!»
Era la trasfigurazione dell’alpe apuana in una notte lunare venuta dal fondo della memoria millenaria di chi sa qual dio estatico.
Richiusi le pàlpebre, premuto dal sonno inerte.
«Guarda!»
Le riapersi e le richiusi. Lo spettacolo divino fu cancellato dall’onda del fiume immemore.
E perché, ad Atene, quel giorno, non fui abbastanza veloce nella mia corsa per giungere all’Acropoli prima che la subitanea concitazione orgiastica del tramonto d’agosto declinasse?
E perché, quel giorno, in vicinanza di Tebe dalle cento porte, sotto i grandi alberi di gaggìa, non mi scalzai per camminare a piedi nudi sul tappeto giallo dei fiori caduti ma me ne volli tornare a bordo del battello pigro?
«Guarda! Guarda!»
Chi sa com’è bella la notte laggiù nel Vallone del sangue, fra baracca e baracca, fra tenda e tenda!
E chi sa come biancheggia l’incantesimo delle pietre a Campolongo mentre la nebbia sale dalla Val d’Astico! Chi sa come grandeggiano stanotte le muraglie ciclopiche e i torrioni di roccia a Bosco Agro, in quella batteria dove sul far della sera vidi tra due pezzi arroventati dal tiro affacciarsi un capriolo!
«Guarda! Guarda!»
Tutta la mia notte la passerò a noverare i miei rammarichi?
È il giovedì santo.
Una giornata torbida. Spio le vicissitudini della luce nello specchio di contro.
Una nuvola passa. Una nuvola si dirada in bioccoli come un vello tra le mani di uno scardassatore.
Il sole vien meno, e pare che tutto si freddi. Lo specchio si congela come una pozza quadrangolare.
Sotto le lane la mia pelle rabbrividisce.
Il silenzio ha la qualità del silenzio antelucano.
I campanili non hanno più voce. I bronzi, affaticati dalle vibrazioni, riposano con la bocca in giù piena d’ombra. Le corde penzolano lisciate e unte in due luoghi dalle pugna del campanaio.
Quanta tristezza sparsero su ogni ora dei miei giorni passati!
Tuttavia questo silenzio insolito non mi dà pace. La tristezza non mi viene più per l’aria, non più mi viene dall’alto. Oggi è accosciata ai miei piedi, senz’ali. Dorme, e nel sonno sussulta.
Nell’occhio bendato gli albori violetti si formano in nuclei, poi vaniscono, poi si riformano. Tenui macchie dello stesso colore appaiono e scompaiono nel campo dell’occhio sano. È il colore del giovedì santo.
I glicini fioriscono tutte le finestre, fioriscono a destra il muro, a manca il pergolato. La casa di Corè è tutta coronata di glicini, lungo la pietra mozza. Il cielo dev’essere come l’ametista dei vescovi.
Mi ritorna nello spirito il tema che domina il Largo del primo Trio, con l’imagine che gli è legata. I santi ginocchi sanguinano. La rotula scoperta biancheggia nel sangue.
Ho una gamba sovrapposta all’altra, e quest’attitudine mi riconduce nell’imaginazione una movenza ch’io so di Giuda.
Quando nella cena dell’ultima pasqua, Gesù disse, mentre ì discepoli seco mangiavano: «Io vi dico in verità, che l’un di voi, il qual mangia meco, è per tradirmi», Giuda Iscariot era seduto con una gamba accavallata su l’altra. All’udire la parola del Maestro, egli tolse la gamba di su l’altra, come per levarsi.
«Era Giuda seduto con le gambe a cavalcioni...»
L’importanza di quell’attimo, di quel movimento. Egli era tuttavia seduto ma in punto di levarsi. Egli era per dire: «Maestro, sono io desso?»
Era presso di lui, a mensa, Giacomo il figliuolo di Zebedeo, il pescatore galileo. Ed egli s’accorse che Giuda aveva tolto la gamba di su l’altra in quel punto. E si voltò a guardarlo.
Non v’è Avemaria stasera. La grazia s’è partita dalla Donna del Paradiso. La Madre piange, con una mano sopra la sua fronte, con l’altra sotto il suo mento, come nella cripta d’Aquileia dove oggi forse i soldati la guardano con una pena nel cuore.
Renata ritorna dalla visita dei sepolcri. Entra nella mia stanza con un sospiro di stanchezza. Si lascia cadere sopra una sedia. Inarcando le braccia si toglie il cappello che ha la forma tessalica, ornato di due piccole rose rotonde. È stanca. Ha camminato per calli fondamente campi e campielli, di chiesa in chiesa.
La stanza è piena di crepuscolo violaceo. Il suo viso nudo è bianchissimo, quasi fosforescente. Su la sua veste bruna, mi sembra di fiutare un odore di ceri, un odore di erbe scolorate e di violacciocche.
Qual è stata la settima chiesa? San Giovanni e Paolo presso l’Ospedale di marmo dove sono i miei dottori.
Che fa il Colleoni sul suo piedestallo? È coperto di sacchi. Ma le rondini gridano per lui su la piazza solitaria, ostinate come in un combattimento senza quartiere.
«Come sono stanca!» dice la Sìrenetta.
E la sua voce di bambina ebra d’aria salmastra e rotta dallo sforzo del nuoto, la sua voce di Bocca d’Arno, mi tocca il cuore d’allora.
Scivola sul cuscino che sta ai miei piedi. Posa il viso su le mie ginocchia.
Il viso è più stretto, il mento è più affilato. Le mie mani toccandola la vedono come se io fossi interamente cieco.
È piccola, stasera. È una povera piccola stanca, affaticata dalle tenebre e dal profumo funebre, bisognosa di riposarsi.
Le mie dita trovano il nodo dei suoi capelli e lo sciolgono, con infinita cautela, come se ella già si assopisse e io volessi rapirle un tesoro avviluppato.
Ella non si muove, ma io la sento sorridere fino alla cima dei suoi capelli sensitivi, che si spandono come se quel sorriso medesimo li avesse aperti, simile al soffio della primavera che improvviso apre un gran fiore sul far della notte.
Attimo misterioso come quello in cui il credente comunica col suo dio sotto una specie tangibile.
Un viso umano è di carne e d’ossa, forato dalla vigilanza dei sensi. Una capellatura è una massa viva che riempie la mano e pesa.
Ma questo viso non è se non un frutto aereo della mia anima, e questa chioma è simile a uno di quei sentimenti straordinarii in cui l’anima resta sospesa liberandosi dall’errore del tempo.
Queste ciocche odorano d’infanzia, come le ciocche del fiore di lilla odorano di annunziazione. Tante già ella ne aveva a cinque anni.
Allora, in una casa bianca sul mare, ella soleva apparire alla soglia della mia stanza per interrompere il mio troppo prolungato lavoro, quando il mio spirito era una lingua infaticabile di fuoco perpetuo, e la mia arte era per me l’essenza stessa dell’amore amato.
Appariva senza rumore, come uno di quegli uccelli che si posano sopra un ramo leggiero e aspettano che esso cessi di oscillare per intraprendere il loro canto.
La sua grazia mi toccava l’angolo dell’occhio chino su la carta.
Talvolta, per non lasciarmi sfuggire un’imagine repentina, non mi volgevo sùbito, ma la ritenevo tuttavia nella commessura delle palpebre come si ritiene una lacrima di dolcezza per prolungare la voluttà dell’istante in cui l’anima trabocca.
Ella sorrideva nella sua veste lunga come quella delle Infanti, e fin d’allora il suo sorriso traversava le onde de’ suoi capelli e ne divideva in due le cime, come il sorriso fende la bocca.
Quando il Soldano era fra le braccia della più bella fra le sue belle, se scoppiasse un incendio nella città di legno, una muta messaggera vestita di vermiglio appariva alla soglia della camera segreta.
Più cara che la più bella tra le belle m’era la mia arte. L’abbracciavo con un amore immemore d’ogni altro bene. Ma quella piccola messaggera senza parola m’annunziava un evento meraviglioso e lontano in cui io fossi per entrare come in una regione inesplorata di me. Memento vivere.
Le dita lasciavano la penna e palpavano la chioma infantile che pareva gonfiarsi di canto come la piuma dell’usignuolo.
Ecco, non ho più l’ansia del tempo.
Le mie mani non sono se non forme della mia spiritualità, come allora.
Il mio tocco è musicale e corrisponde con qualcosa di più profondo che la mia coscienza.
Il sorriso della creatura stanca e felice sembra immortale.
Come allora, conosco dove i suoi capelli qua e là si rischiarano; sento su gli òmeri le punte bifide, le cime bipartite.
Renata ha chiuso gli occhi. Le sue lunghe ciglia mi hanno sfiorato il cuore.
Io le dico: «Piccola, dormi?»
Ella si scuote e si solleva. Il suo viso nella capellatura profonda è come un Ave.
Ho ai miei piedi il più chiomato tra gli angeli di Melozzo, che mi porta la benedizione della sera.
Ella divide con me il pasto breve. Entrambi mangiamo con avidità gli aranci della fine già mondati, liberati della pelle e dei semi, tutta polpa sugosa. Ci dissetiamo.
Ora ella piega la testa, con quell’atto degli uccelli che stanno per nasconderla sotto l’ala.
«Hai sonno, piccola?»
«Tanto sonno.»
Il cuore mi trema. Fino a oggi ella ha preso cura di me. Ed ora, ecco, io prendo cura di lei.
«Stenditi sul mio letto, e dormi un poco.»
«Se m’addormento, non mi sveglio più.»
«Io ti sveglierò.»
Ella si alza a fatica, con tutto il corpo cedevole, e si appressa al letto abbandonatamente.
Si stende nel luogo che la mia sofferenza ha incavato, posa il capo sul guanciale delle mie notti insonni.
È un guanciale esiguo, men rilevato che il braccio dell’uomo quando fa sostegno al sonno su la terra nuda.
«Come puoi dormire così basso?» ella dice con la voce velata.
È il guanciale di pena, su cui per settimane e settimane ho tenuto il mio occhio nell’immobilità come su un mucchietto di cenere un tizzo vivo sotto il soffio continuo di un demone intento a levarne vampe e faville.
Io sono in piedi, ed ella è coricata. Sono presso al capezzale come ella era, ed ella è supina come ero io.
Ella dice: «Io non potrei dormire così.»
Non posso chinarmi su lei perché debbo sempre tenere la testa un poco rovesciata indietro quando resto in piedi.
«Vuoi un altro guanciale?»
Vado con passi cauti là dove dianzi ero adagiato presso la finestra. Prendo un cuscino, torno verso il letto.
Il cuore m’è gonfio d’una dolcezza così pura che mi sembra vi affluiscano insieme l’infanzia della mia creatura e la mia.
«Eccolo.»
Ella solleva la testa e io metto il secondo guanciale su l’altro. Mi sembra d’imitare il medesimo suo gesto pietoso.
«Va bene così?»
«Tanto bene. Grazie.»
La bontà è invertita. La sua bontà e la sua pietà riempiono il mio cuore. Ella ha ripetute le mie stesse parole, ha preso l’accento della mia gratitudine!
Di sùbito ella s’addorme, si rilascia. Non ode più. Respira appena.
È supina, ma il viso è volto a destra posato sui capelli, i piedi sono l’uno su l’altro, come quelli che un sol chiodo configge; e vedo la fibbia brillare.
Le braccia sono ripiegate verso l’alto come quelle delle vergini in attesa delle stimmate; ma le mani sono chiuse.
Ella dorme coi pugni chiusi, come quando era infante; dorme sul mio letto di pena come nella sua culla d’innocenza.
La veglio camminando piano da un canto della stanza all’altro.
Il mio passo è tacito. Ho i calzari di lana.
Ritrovo un poco della mia pieghevolezza dalla cintola in giù.
Tengo il torso rigido, il collo eretto, la testa riversa indietro.
Porto il mio occhio infermo sul mio viso incavato, come sul piatto della martire Lucia.
Se il piatto fosse pieno di sangue, o di lacrime, non ne cadrebbe una stilla, tanto è abile la mia cautela.
A ogni volta, passando davanti allo specchio, scorgo nell’ombra un estraneo dal capo bendato.
Quando m’accosto al letto, il mio piede si fa più lieve sul tappeto, come la zampa di un animale notturno che traversi una prateria.
I dottori m’hanno permesso di fare le volte fra le quattro mura, per conciliarmi il sonno che m’è nemico.
Mi arresto. La dormente sembra che non respiri.
È immobile nella sua veste bruna. Di qua e di là dalla faccia sono le sue pugna chiuse.
Un mazzo di rose rosse odora di serra in un vetro dorato: le rose di domani. Il silenzio è perfetto, eguale nella luce e nell’ombra.
Dove ho sofferto, dove ho sperato, dove ho disperato, dove ho lottato coi mostri, dove ho parlato con gli angeli, dove ho sanguinato, dove ho pianto, ecco, la mia creatura riposa.
Com’è piccola, stasera! Non pesa più della bambina moribonda che tenni su le mie braccia una notte intera.
È un ricordo che viene di lontano, come un’onda che il petto non basti a contenere.
La pietà, la disperazione, il terrore, il desiderio di dare il sangue e il soffio, l’attesa del miracolo, lo splendore fatale dell’Orsa, la Via Lattea prossima come un cammino che si biforchi dalla strada terrestre per salire a un altro dolore; e il movimento alterno delle forze sconosciute tra il monte e il mare, e il passaggio di un dio rapido che non ode la preghiera né guarda l’offerta, e il tremito invincibile della carne, e la volontà armata contro la morte.
Camminavo come ora, per una stanza più vasta, col medesimo passo cauto e pieghevole.
Da una porta aperta verso l’ombra, ove biancheggiavano un letto e una culla, andavo a una finestra spalancata verso le stelle.
Avevo su le braccia la creatura di pochi mesi, estenuata dal male, più pallida dei suoi lini, con intorno alle narici qualcosa di fosco che mi atterriva.
Incontravo la morte tra i due stipiti, incontravo la morte presso il davanzale. Fissavo contro di lei gli occhi duri e selvaggi di chi combatte.
Era una casa nella campagna di Resìna, solitaria.
Era una notte di giugno.
Il vulcano da più giorni ardeva; e per la finestra apparivano i fuochi del cratere, le larghe fenditure infiammate, le lunghe colature roventi, la soprastante nube rossa di riverberi.
Il medico era partito, riponendo l’ultima speranza nel sonno come in un farmaco divino. La piccola aveva cessato di piangere e s’era assopita quando io l’avevo presa su le mie braccia e avevo incominciato a camminare piano.
Non sentivo il mio corpo se non in forma di cadenza.
Non mormoravo, non cantavo, quasi non respiravo, ma il mio passo imitava la cantilena, ma la piegatura de’ miei gomiti imitava la culla ondeggiante, ma tutte le mie membra obbedivano a una musica persuasiva.
I ritornelli della mia nutrice mi risalivano dal profondo e mi guidavano.
La mia bocca si ricordava d’aver succhiato una testa di papavero involta in una pezzuola molle.
I miei pensieri ondeggiavano senza fine tra l’ombra e il sonno, tra la vita e la morte, tra il lume del cielo e il fuoco della terra.
Andando verso la finestra udivo il canto dei grilli, udivo la bassa melodia notturna. Andando verso la porta udivo un battito cupo che mi pareva ignoto come le voci dell’infinita vigilia.
E, per qualche tempo, nel rivolgermi, quel battito si faceva misura della melodia terrestre; cosicché le onde del mio sgomento si disperdevano.
Ma alfine, giunto tra i due stipiti ove stava alzata la morte, udii il battito crescere e divenire terribile.
Lo spavento mi accelerò il cuore. Mi soffermai, perduto.
Mi parve che quel palpito orrendo si comunicasse a me dal corpo gracile della creatura morente.
Imaginai una febbre estrema, l’atrocità d’un’agonia subitanea che serrasse la piccola gola e non lasciasse più uscire né grido né gemito.
Mi chinai a guardare il viso estenuato, misi il mio respiro su quella bocca socchiusa.
Il viso era in pace, la bocca era tranquilla, la dolcezza del sonno riempiva le sue pugna chiuse.
Il prodigio della natura si rivelò al mio cuore sospeso. A un tratto riconobbi il battito delle vene che gonfiavano le mie braccia stanche.
La più lieve insofferenza poteva interrompere il sonno miracoloso. Accettai il supplizio. Seguitai a camminare col mio passo tacito, portando la vita della mia vita.
La nutrivo della mia volontà, l'alimentavo del mio patimento.
Tutta la mia anima potente era tesa a sorreggere le mie braccia deboli, eppure sentivo la bellezza della notte come nel ratto di una ispirazione apollinea.
La cantilena paziente per tutto il mio corpo si mutava in ebrezza di canto. Il cratere affocato mi rappresentava il mito dell’Eterna Madre che tempra nel fuoco ruggente la carne mortale.
Il mio polso penoso misurava la poesia dell’universo.
E non ho mai più veduto con tanta ansia di felicità le stelle tremare e trascolorare al primo fiato dell’alba né ho mai riavuto in me la misura di quell’inespresso canto, fino a quest’ora che il mistero della bontà mi riconduce.
È il venerdì santo. È il natale di Roma.
21 aprile 1916Tutti quelli che sono morti nella battaglia, tutti hanno dato la vita come prezzo del mondo.
Tutti quelli che travagliano e ansano per alimentare la battaglia, tutti danno la loro pena come prezzo del mondo.
Tutti quelli che patiranno combatteranno e morranno nella giustissima guerra, tutti patiranno combatteranno e morranno per il prezzo del mondo.
Su qual calvario è oggi sacrificato il Figliuol d’uomo?
Il Figliuol d’uomo è oggi per noi suppliziato sul monte selvaggio che ha nome da San Michele portaspada, sul monte delle quattro cime e delle quattro ire, nel Carso senza ombra e senza acqua. E per noi la bocca arsa dal fiele risoffia lo spirito e la speranza.
I fanti vi s’eternano. Li rivedo assalire le creste, soli con il baleno dell’acciaio e con lo sguardo della Patria. Li rivedo insorti contro il cielo tonante. Sembrano da prima sterpi e trìboli squassati dalla bufera. Poi diventano uomini irti. Poi diventano denti della roccia irosa. Mordono l’eternità.
Io ho le mie quattro croci fraterne.
Giuseppe Miraglia è crocifìsso alla sua ala.
Luigi Bailo è crocifìsso alla sua ala.
Alfredo Barbieri è crocifìsso alla sua ala.
Luigi Bresciani è crocifisso alla sua ala.
Io non posseggo i lini del discepolo da Arimatea né i balsami di Nicodemo. Ma ho dato a essi un monumento nuovo «dove niuno era stato ancóra posto».
Il volto santo dell’amore e del dolore di mia madre è oggi velato dall’angelo col drappo violetto, per misericordia di me.
È il sabato santo.
D’improvviso il suono delle campane commuove in grandi onde il silenzio funerario, mentre io sono disteso sul letto, avvolto strettamente nel lino, fasciato come Lazaro, con un sudario sul capo.
Dopo aver tanto agitato la mia tristezza, ecco che le campane agitano la mia speranza.
Si compie oggi la nona settimana dal mio ritorno, dalla mia condanna, dall’inchiodamento del mio corpo nel buio. Un presagio della Sirenetta m’ha illuso. E nell’aria della Resurrezione e nell’aria dell’Ascensione non ci sembra tuttavia di sentir passare il soffio del prodigio?
Nessuna voce mi chiama perché io venga fuori, perché io sorga. Rimango immobile, dominando l’impeto di levarmi.
Il mio corpo si consuma stillante, straziato dalle trafitture degli aghi salutari.
Qua e là nei muscoli il battito intermesso delle fibrille mi dà non so che ribrezzo, quasi io sia abitato da una piccola bestia veloce che scorra perdutamente per le mie membra tentando con le zampe e col muso di aprirsi una via.
Il cuore sregolato mi pulsa nella gola, mi rimbomba nella nuca.
Pace, pace, pace. Ma il santo annunzio non placa i miei mali.
Non posso difendermi dalla tentazione di fare la prova. Libero a poco a poco il braccio dalle fasce, alzo l’orlo della benda che copre l’occhio leso, apro la palpebra.
L’ombra ostinata è là, senza mutamento. Il buon presagio è vano.
Per la prima volta m’è concesso di scendere nel giardino.
Un vigore fittizio mi solleva. Con un’allegrezza fanciullesca abbandono i vestimenti senili dell’invalido. Ridivento un Lanciere bianco.
Le mie brache di cavaliere, così bene aggiustate al ginocchio, ora fanno qualche piega. Con un palpito di speranza rivedo su le maniche della giubba le insegne del volatore, le ali d’oro arrossate dalla salsedine dell’Adriatico. Mi sembra di fiutare l’odore dell’altezza. Questi panni grigi conobbero l’azzurro di là dalle nuvole, rimasero sospesi a quattromila metri nel deserto dell’aria, contennero l’estasi di dedizione che parve fermar l’ala nel cielo di Trento ingombrato dalla tempesta e squarciato dai fulmini di due ire. I talismani erano nella tasca dalla parte del cuore: il vecchio anello di mia madre, che porta per gemma un piccolo teschio consunto fra due tibie, e la palla esplosiva che il 7 agosto si conficcò nel legno della carlinga in prossimità del mio gomito.
Sorrido udendo tintinnire gli speroni sfregati l’un contro l’altro da chi si curva ai miei piedi per affibbiarmeli. Non me li lascio mettere. Il cavallo non scalpita alla porta; né, ahimè, il velivolo marino romba alla riva sul punto d’involarsi. Sono un convalescente in pericolo.
Le ginocchia mi vacillano. Il cuore mi batte perdutamente. Sto per passare la soglia così a lungo vietata.
Discendo la scala con infinita cautela, portando l’occhio nel reliquiario del mio capo sollevato.
La Sirenetta è là pronta a sostenermi.
Ecco l’ultimo gradino.
Ecco la stanza terrena.
Ecco il bagliore verde dietro le vetrate coperte di merletti.
Ecco l’aria viva che, come una bevanda insolita, mi empie del suo sapore nuovo la bocca anelante.
Ecco il giardino, ecco le foglie, ecco i fiori.
La mia mano va alla benda. È una benda più severa del consueto. Non è bianca ma fosca. Non è di lino ma di seta. Il mio occhio è vestito a lutto, porta le gramaglie.
Con la sua grazia infantile la Sirenetta mi prende la mano folle, mi trae verso un rosaio educato su un alto stelo e mi dice: «Guarda questa piccola rosa.»
Mistero di un accento che può fare d’una fanciulla e d’un rosaio una medesima creatura!
Tenendo ella tra l’anulare e il medio lo stelo, la piccola rosa sembra nata nel cavo della sua mano, come nel principio di una metamorfosi primaverile.
Ella ha una veste rigata, bianca e verde, che sembra fatta a imagine d’uno di quei gattici argentini che da tutti i loro freschi ramoscelli tremano al vento dell’argine.
La piccola rosa è innestata in lei, è il fiore della sua tenerezza.
È così pura, così fragile, così delicatamente costrutta che non le si può paragonare una cosa corporea ma sol forse un pensiero casto e ineffabile.
Non v’è forma d’infanzia che l’agguagli.
Bisogna piegare i ginocchi e adorarla.
La sua perfezione è fugacissima.
Mi sembra di vedere i suoi petali schiudersi d’attimo in attimo.
In su la prima notte sarà già aperta e vana.
L’inerzia di tanti giorni m’aveva imprigionato nel senso della mia sola caducità tra cose inanimate. Ecco che riacquisto l’orecchio del poeta seduto in riva al fiume del tempo: riodo la melodia del perpetuo fluire.
La Sirenetta conosce minutamente la favola breve del giardino. Sa dov’è il bruco, dove la pecchia, dove il ragno, dove la cetonia, e quel che fanno.
Sa i rami malati, il numero dei bocciuoli; quale sia in ritardo, quale sia per aprirsi.
Si lamenta del giardiniere pigro. Prende un manticetto e soffia una polvere salutare sopra un rosaio brulicante d’insetti verdicci.
Mi conduce con pietà incerta presso una grande rosa bianca a cui una cetonia divora il cuore profondo.
«Perché non la scuoti, non la scacci?» le domando.
«Oramai la rosa è perduta» ella risponde. «E se la cetonia non si sazia di questa, va in cerca d’un’altra.»
Sento che la sua pietà si partisce tra l’insetto e il fiore, come quella del Serafico comprendeva l’uccello vorace e il verme beccato, il fuoco ardente e il vestimento arso, la carne inferma e l’erbe per guarirla premute.
Mi soffermo davanti a questo spettacolo di passione devastatrice.
L’insetto è confitto nella dolcezza del fiore con una fame che somiglia al perdimento e al rapimento.
È splendido come una lamina d’oro che trasparisca a traverso uno smeraldo levigato.
È una gemma stupenda e una forza selvaggia.
È immemore di tutto, oblioso d’ogni rischio, d’ogni sorpresa, d’ogni minaccia, profondato nel suo gaudio come in un delitto che non tema castigo.
Di nuovo sento, come nella prima giovinezza, quel che v’è di divino nella fame e nella sete.
Tutto il cuore della rosa è guasto e, tra una corona di petali ancora intatti, appare gialliccio come un resto di miele.
La piaga è nettarea, l’eccidio è soave.
L’amore insaziato ignora la colpa.
Chi si nutre di bellezza cresce in bellezza.
Vorrei indugiarmi per sorprendere l’attimo in cui la cetonia aprirà le ali fuori della sua armatura dorata e s’involerà lungo un raggio.
Il pomeriggio declina. Non v’è più bava di vento. Le foglie nuove respirano e sperano, le vecchie meditano e rammentano.
Una vasta fioritura di glicini, che copre tutto il muro sino al tetto partendosi da un ceppo simile a un groviglio di corde, mi dà imagine d’una rete ch’io vidi trarre al lido dell’Atlantico piena di vane meduse quasi violette.
Le rondini rissano e stridono con furore, e soffro delle antiche trafitture come se mi passassero fuor fuore a saetta.
Vedo in un angolo due annaffiatoi capovolti; e, non so perché, mi dànno il senso del silenzio, fanno una pausa negli stridi laceranti.
«Ecco il tuo lauro che parla» dice la Sirenetta.
È un alloro arrotondato sopra uno svelto stelo nudo, alto come un uomo.
Ha non so che aria allegorica; sembra trapiantato da un verziere del sogno di Polifilo.
Non gli manca se non lo svolazzo d’un cartiglio avvolto a mezzo fusto.
La sua fronda è cupa, dura, fitta, così che la Musa non potrebbe introdurvi la mano senza essere offesa dai margini taglienti.
E dalla fronda perenne sorgono a intervalli ritmici le fogliette nuove, così vivaci che sembrano lingueggiare simili a piccole lingue impazienti che abbiano «volontà di dire».
L’anima fresca della Sirenetta ha sùbito sentito il ritmo senza suono.
Il lauro parla. Dice: «Per non dormire»? o dice: «Per non morire»?
Non mai tanto mi fu alieno il sonno, né mai in tanta morte ebbi tanta ansia d’immortalità.
Ho tuttavia un profondo canto nel cuore temprato.
Il sole tramonta di là dalla curva del canale che ora è verde come l’alloro parlante.
Le campane tacciono, ma l’aria sembra fremere nell’attesa del loro suono angelico.
Il mio occhio coperto è pieno di glicini luminosi; ma l’altro, disabituato, trasogna.
Fuori del tempo un’armonia lenta si svolge.
La casa di Corè non è se non una vasta ghirlanda sostenuta dalle teste dei leoni chine su l’acqua.
Dal palazzo Dario alla Chiesa della Salute, il cotto e la pietra nel lume roseo si fanno quasi carnali.
Le facciate si appoggiano l’una all’altra, come donne reclinate l’una verso l’altra per non cadere, invase dal sùbito languore d’aprile.
Una grande barca nera, carica di solfo splendente, sospinta da lunghi remi, passa come un’apparizione di là dai millennii e dalla memoria.
Ha il timone antico dal largo assero, dalla lunga barra in pugno a un uomo che somiglia un timoniere fenicio.
Il solfo assume un tono indicibile entrando nell’ombra.
Quel giallo ha la potenza d’un tema inatteso che a un tratto sollevi fino al sublime una sinfonia decrescente.
Si fa in me uno strano silenzio.
Non odo più le rondini.
E il cuore mi batte nel timore che un rintocco interrompa questa tacita musica.
È la Pasqua di Resurrezione. È il Resurressi.
Un compagno di guerra m’ha mandato in dono una stampa del disegno sublime che Michelangelo fece per la Resurrezione con una penna strappata all’aquila di Giovanni il Prediletto. Resurgit et insurgit.
23 aprile 1916Il Cristo titanico, avendo sforzato il pesante coperchio del sepolcro, tiene tuttora un piede nel sasso cavo.
Ma con il capo levato, con levate le braccia, con l’impeto e con la rapina di tutta la sua passione, si scaglia verso il cielo.
Non era dunque abbastanza folle il mio cuore? Non era abbastanza precipitoso il mio battito?
Ci voleva questa imagine appassionata della potenza perché io sentissi più miseramente la mia meschinità?
A me nessun discepolo ha dato un monumento nuovo. Son qui nei medesimi lenzuoli, nelle medesime fasce, nel medesimo sudore e tremore.
Non sorgo.
Sconto l’indulgenza di ieri. Mi sento ancor più fiaccato, come dal colpo di grazia. Questa carne stracca non è tenuta insieme dalla carcassa ma dall’ira.
Vedo verde. Vedo nell’ombra le mie mani verdi. Tutta la stanza è verde come una pergola folta. E come se avessi la testa avviluppata nel lauro tondo che mi fosse divenuto tutto di vetro screpoloso.
È uscito dal sepolcro Oreste Salomone per venire oggi al mio capezzale?
È venuto all’improvviso, senza avvertirmi. Dalla soglia in calle fino a qui, su per le scale, di gradino in gradino, ha calpestato il mio cuore vuoto. E entrato come io entrai nella piccola stanza della Comina.
Che mi porta?
Mi getta su le ginocchia la testa forata di Alfredo Barbieri?
È più emaciato che allora sul lettuccio da campo. Gli occhi neri, ancor più larghi, gli mangiano la macie.
La mia visione lo inverdisce come se fosse morto da quattro giorni.
Perché è venuto a spaventarmi?
Che è questo fardello che mi pesa su i piedi freddi?
Pellicciotto e casco e braconi e guanti.
Me lo riporta qui quel fante che non ha potuto ancóra ingoiare quel boccone di pan méscolo?
Plàcati, cuore. Lascia che io distingua i vivi dai morti.
Lascia che io riconosca quella voce che in quel meriggio di febbraio non mi parlava dal fondo del letto ma dalla profondità del sacrifizio.
Parlava basso. Anche oggi parla basso.
Son passate nove settimane o nove secoli?
Questo eroe ignora le sue trasfigurazioni in me incendiato. Se io gli dessi a leggere quel mio primo cartiglio sibillino, non comprenderebbe.
«O sorella, perché due volte m’hai deluso?»
Viene dal riposo. Viene dalla convalescenza. Capua gli ha dato i suoi ozii e i suoi onori. Non è ancor guarito. L’angoscia di Gonàrs gli scava tuttavia lo stomaco. Nelle occhiaie cave gli occhi sono come oliati e mandano un lucore assiduo, quasi che si rifletta tuttavia in essi la rapidità della via celeste accesa dalle faville di sangue. E sono solitarii, fissi tra le ciglia senza battito. Sono solitarii come quelli che si allungano fra tempia e tempia dei martiri allineati nell’oro musivo della basilica di Ravenna. Tutto il rimanente è opaco e ritornato alla terra.
Ci sono azioni eroiche da cui l’eroe attonito è imprigionato per sempre.
Ecco un’aquila che porta ai piedi la catena e la palla di piombo.
Non so perché, sento che egli è per rimanere oppresso dalla necessità di superarsi.
E mi viene voglia di piangere con lui.
E lo vedo laggiù, esule nella sua terra, coi piedi confitti nella gleba non seminata, concentrare la disperazione dei suoi occhi di volatore nella vetta del Vùlture.
«Tornerò alla Comina fra due o tre giorni. Non son passato da Venezia se non per abbracciarti.»
«E potrai già ricominciare la guerra?»
«Non ancóra. Ma comanderò il campo, aspettando. E tu?»
Nelle mie imaginazioni egli guarda il suo Vùlture. E io sono alla foce del mio fiume, sono con mezzo corpo nel sabbione del mio fiume; e mia madre è là, accosciata, che pare vi prenda radice, che pare vi si abbarbichi per sostenere tutta la sventura della sua gente e della sua contrada.
O madre, da che oscurità debbo io rinascere?
I suoi occhi immobili sono senza risposta. La sua fronte china è remota come l’ultima neve della Maiella che sporge laggiù in forma di mamma.
Sono sfinito come se riavessi i due fóri nel capo e ripenzolassi nel vuoto, dal bordo della carlinga che vibra.
So che deliro, e dòmino il mio delirio.
Ho sete. Sono tutto sete e orgasmo. L’imagine del fiume mi supera, mi sommerge, mi corre sopra.
Dico all’eroe intristito che porta sul petto la zona di cielo gloriosa tra Lubiana e Gonàrs ridotta a una lista esigua di seta azzurra, gli dico: «Certe volte dispero di riprendere le forze, tanto mi sento esausto, come ora. L’occhio è perduto. Non importa. Basta uno. Il ciclope è prode in qualunque fucina. Ma se rimanessi invalido? se la devastazione del lungo supplizio fosse irreparabile? se fossi spezzato in due, come mi pareva d’essere iersera quando i miei cari aguzzini mi ricoricavano su questa graticola?
Dimmi tu se noi possiamo più vivere senza una ragione eroica di vivere. Dimmi tu se noi possiamo continuare ad essere uomini senza aver la certezza che l’ora di trasumanare ritornerà, Oreste.»
La parola mi si spezza contro il palato metallico. Rimastico l’acciaio. La sete mi urla dentro senza suono. L’imagine del fiume rifluisce, mi voltola, mi scroscia intorno. «Invecchiato, curvato, spezzato, orbo, con le ginocchia vacillanti, con le gomita cigolanti, ecco che attendo fermo su la ripa del mio fiume. E quale è il mio fiume?
Questo di cui ti parlo è il fiume eterno, Oreste.
L’ispirazione dell’eroismo soffia anche su gli invalidi, soffia anche su i tronconi umani, soffia anche su le carcasse impotenti.
Ti racconto una cosa grande, a te che dovevi ricondurre in patria il mio corpo sacrificato.
Siamo senz’ali. C’è una gloria dell’alto e c’è una gloria del profondo. C’è una morte bella e c’è una morte ancor più bella.
Questo che ti racconto è vero, ma lo voglio mettere fuori del tempo e fuori del limite.
Non possiamo più combattere? Io sono un contadino della Pescara, tu sei un contadino del Vùlture.
Un contadino senza nome vanga dolorosamente il suo terreno povero su la riva del fiume. Il suo paese è in guerra. Il suo paese è invaso. Egli seminerà per la fame dei combattenti.
Fin dal mattino egli vede i suoi passare il guado, cercare lo scampo dall’altra banda per radunarsi e riordinarsi e riarmarsi alla resistenza.
Sopraggiungono gli inseguitori. Sopraggiungono i cavalieri minacciosi, e domandano al contadino che indichi il guado.
Egli si china su la sua vanga. Non risponde.
Rinnovano essi il comando.
Taglia la gleba. Non fa motto.
Allora lo pigliano, e gli legano le braccia dietro la schiena, e lo spingono alla riva, e gli dicono: «Passerai tu primo l’acqua, davanti a noi.»
Il punto del guado è quello.
Egli entra nell’acqua. Incomincia a piegare i ginocchi per mostrare che cresce l’altezza. Poi cammina coi ginocchi sul fondo. Poi s’accoscia e scompare. Sommerso resta. Lascia che sul suo sacrifizio oscuro e silenzioso passi il fiume della Patria.»
Di dove a noi viene questo silenzio?
Scorre come quel fiume dove quell’uomo si prosterna.
A poco a poco il mio cuore si placa.
La mano del mio compagno è nella mia mano, posata su la proda.
«Che sono tutte queste liste di carta a fasci?» egli chiede vedendo sparse sul letto le foglie sibilline.
«Mi servono a scrivere nel buio i miei sogni, linea per linea.»
Egli si meraviglia: e nella meraviglia il suo sorriso trova una freschezza inattesa.
«E come scrivi?»
«Così.»
Prendo la tavoletta, e la poso in declivio su le ginocchia leggermente sollevate. Prendo un cartiglio bianco, lo distendo, e scrivo, ripalpitando come quando feci la prima prova.
Seguono la mia mano gli occhi che videro Luigi Bàilo morente distendersi nella passerella tra i due serbatoi di rame e dalla celata di Alfredo Barbieri prono sul bordo partirsi la spruzzaglia miracolosa nella rapina del vento.
«Prendi. Guarda se ti riesce di leggere quel che ho scritto.»
L’eroe prende il cartiglio, si alza, si accosta alla finestra socchiusa, fa l’atto di decifrare. Esita.
Da quali fosse, da quali tombe a noi viene questo silenzio?
Le sue mani tremano un poco, di sotto al suo profilo aquilino.
Legge, con la stessa voce velata che aveva su quel lettuccio da campo.
«Ma se ci fosse una morte anche più bella?»
O liberazione, liberazione,
t’invoco nella mia sera senza Espero,
t’invoco nella mia notte senza Orsa,
t’invoco nel mio mattino senza Diana;
e tu non mi sciogli ancóra!
O liberazione, liberazione,
a te consacro queste mie bende intrise di sangue impoverito e di lacrime fredde, a te consacro questa mia pupilla che più non vede né veder vuole se non la cupa che in me suscito aurora.
O liberazione, liberazione,
allontana da me la pietà di chi mi ama e l’amore di chi mi compiange, e questa musica, e questo vaneggiamento, e tutta questa mollezza che non vale il mio letto di paglia.
O liberazione, liberazione,
vieni e scioglimi; vieni e rinsaldami
le rotelle dei ginocchi e i ’gomiti e i polsi; vieni e rinfondimi sale e ferro nel sangue; vieni e rifammi solo col mio fegato arido; e riscagliami nella battaglia.