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La nutrivo della mia volontà, l'alimentavo del mio patimento.

Tutta la mia anima potente era tesa a sorreggere le mie braccia deboli, eppure sentivo la bellezza della notte come nel ratto di una ispirazione apollinea.

La cantilena paziente per tutto il mio corpo si mutava in ebrezza di canto. Il cratere affocato mi rappresentava il mito dell’Eterna Madre che tempra nel fuoco ruggente la carne mortale.

Il mio polso penoso misurava la poesia dell’universo.

E non ho mai più veduto con tanta ansia di felicità le stelle tremare e trascolorare al primo fiato dell’alba né ho mai riavuto in me la misura di quell’inespresso canto, fino a quest’ora che il mistero della bontà mi riconduce.