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Dico all’eroe intristito che porta sul petto la zona di cielo gloriosa tra Lubiana e Gonàrs ridotta a una lista esigua di seta azzurra, gli dico: «Certe volte dispero di riprendere le forze, tanto mi sento esausto, come ora. L’occhio è perduto. Non importa. Basta uno. Il ciclope è prode in qualunque fucina. Ma se rimanessi invalido? se la devastazione del lungo supplizio fosse irreparabile? se fossi spezzato in due, come mi pareva d’essere iersera quando i miei cari aguzzini mi ricoricavano su questa graticola?

Dimmi tu se noi possiamo più vivere senza una ragione eroica di vivere. Dimmi tu se noi possiamo continuare ad essere uomini senza aver la certezza che l’ora di trasumanare ritornerà, Oreste.»

La parola mi si spezza contro il palato metallico. Rimastico l’acciaio. La sete mi urla dentro senza suono. L’imagine del fiume rifluisce, mi voltola, mi scroscia intorno.