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notturno 401


A strapparglieli m’aveva istigato mia sorella Ernesta. Ed ecco che il cuore mi doleva, forse per aver dato a patto e a scambio, forse per aver pensato a mettere in lutto il nido di fango.

Nel tirare, me n’eran restati in pugno assai più di tre.

Entrò il garzone di stalla, ch’era il complice delle mie scorrerie nascoste. E m’alzò e mi mise a cavallo sul «sardignòlo».

Mi piaceva di cavalcare da fermo in sogno. Ma non mi piaceva d’esser guardato.

Dicevo al garzone: «Vattene e poi torna.»

Chiudevo gli occhi. Ero fatato. La porta s’apriva al margine della foresta. Annottava. Non si vedeva mai la fine del sentiero.

Ma quella volta la mangiatoia restò contro il muro, e il muro non si sfondò; e il cavallo non camminò, se bene io gli parlassi sottovoce.