Da Quarto al Faro/Noterelle d'uno dei mille
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Dedica |
Parma 3 maggio 1860. Notte.
I più generosi hanno indovinato. Garibaldi partirà, ed io sarò nel numero dei fortunati che lo seguiranno.
Poco fa, parlavo di quest’impresa coll’avvocato P.... Egli che l’anno scorso, nella caserma dei cavalleggeri d’Aosta, pregava con noi che nascesse la rivoluzione nel Pontificio o nel Napoletano, dacchè Villafranca aveva troncata la guerra di Lombardia; non potrà venire con noi e si affligge. Ha la madre ammalata. Ci lasciammo colla promessa di rivederci domani, e se ne andò lento e scorato, per via dei Genovesi. Mentre io stavo a guardarlo, mi venivano di lontano, per la notte, rumori d’ascie e di martelli. E gli odo ancora. Ma i cittadini non si lagneranno della molestia, perchè la fretta è molta. Si lavora anche di notte a piantare abetelle, a formare palchi, a curvar archi trionfali, per la venuta di Re Vittorio. Verrà dunque il Re desiderato fra questo popolo, che ora sei anni, vide cadere Carlo terzo duca, pugnalato in mezzo alla via. Io era allora scolare di quattordici anni, e ricordo il racconto che dell’orribile caso ci fece il Padre maestro Scolopio. Frate raro, biasimava l’uccisore ma non lodava l’ucciso.
Che Carlo terzo fosse quel duca, che prima del quarantotto fu in Piemonte ufficiale di cavalleria? Se fu vi lasciò tristo nome. Intesi narrare che una notte, in Torino, due ufficiali burloni, di gran casato, amici suoi, lo affrontassero per celia,mentre discendeva da visitare un' amica. Pare che ne restasse così atterrito, che i due dovettero palesarsi, tanto che non morisse dalla paura. E allora egli minacciò che guai a loro, se un dì fossero capitati a passare per i suoi Stati. — Se mai, rispose uno dei due, pianteremo gli sproni ne’ fianchi ai cavalli, e salteremo di là da’ tuoi Stati senza toccarli.
Povero Duca! Ora ne’ suoi Stati viene Vittorio. Gran fortunato questo Principe! Chi vuol fare qualcosa per la patria, sia pure non amico di Re, deve contentarsi di dar gloria a lui. Parma gli farà grandi accoglienze, e noi non saremo più qui.
Parma 4 Maggio. Alla stazione.
Gli ho contati. Partiamo in diciassette, i più studenti, qualcuno operaio, tre medici. Di questi uno, il S.... è vecchio della Repubblica Romana. Dicono che nel treno di Romagna troveremo altri amici, fiore di gente. Ne verranno da tutte le parti.
Si fanno grandi misteri su questa partenza. A sentire qualcuno neanco l’aria deve saperla. Ci hanno fatto delle serie raccomandazioni; ma intanto tutti sanno che Garibaldi è a Genova, e che anderà in Sicilia. Attraversando la città abbiamo dato e pigliato delle grandi strette di mano, e avuto dei caldi auguri.
4 Maggio. In ferrovia.
Non so per che guasti il treno s’è fermato. Siamo vicini a Montebello. Che gaie colline e che esultanza di ville sui dossi verdi! Ho cercato coll’occhio per tutta la campagna. È appena passato un anno, e non un segno di quel che avvenne qui. Il sole tramonta laggiù. In fondo ai solchi lunghi, un contadino parla ai suoi bovi. Essi aggiogati all’aratro tirano avanti con lui. Forse egli vide e sa dove fu il forte della battaglia. Ho negli occhi la visione di cavalli, di cavalieri, di lance, di sciabole cavate fuori da trecento guaine a uno squillo di tromba; tutto come narrava quel povero caporale dei cavalleggieri di Novara, tornato dal campo due giorni dopo il fatto. Affollato da tutta la caserma, colla sciabola sul braccio, col mantello arrotolato a tracolla, coi panni che gli erano sciupati addosso, lo veggo ancora piantato là in mezzo a noi, fiero ma niente spavaldo.
— Dunque, e Novara?
— Novara la bella non c’è più? Siamo rimasti mezzi per quei campi....
E narrò di Morelli di Popolo, Colonnello dei Cavalleggieri di Monferrato morto, di Scassi morto, di Govone morto e di tanti altri, lungo e mesto racconto.
— E i francesi?
— Coraggiosi! rispondeva egli: ma bisognava sentirli come i loro ufficiali parlavano di noi!
Io lo avrei baciato, tanto diceva con garbo.
Povero provinciale di quei di Crimea, richiamato per la guerra, aveva a casa moglie, figliuoli e miseria. Non amava i volontari: gli pareva che se fossero rimasti alle loro case in Lombardia, egli non si sarebbe trovato lì, con trent’anni sul dorso e padre, a dolersi della pelle messa in giuoco un’altra volta. Del resto non si vantava di capire molto le cose: ciò che piaceva ai superiori, piaceva a lui: tutto per Vittorio e pazienza. Avessimo due o tre centinaia d’uomini come lui, buoni a cavallo e a menar le mani, quando saremo laggiù.
Nella stazione di Novi.
Si conoscono all’aspetto. Non sono viaggiatori d’ogni giorno; hanno nella faccie un’aria d’allegrezza, ma si vede che l’animo è raccolto. Si sa. Tutti hanno lasciato qualche persona cara; molti si dorranno di essere partiti di nascosto.
La compagnia cresce e migliora.
Vi sono dei soldati di fanteria che aspettano non so che treno. Un sottotenente mi si avvicinò e mi disse:
— Vorrebbe telegrafarmi da Genova l’ora che partiranno?
Io, nè sì nè no, rimasi lì muto. Che dire? Non ci hanno raccomandato di tacere? L’ufficiale mi guardò negli occhi, capì e sorridendo soggiunse:
— Serbi pure il segreto, ma creda, non l’ho pregata con cattivo fine.
E si allontanò. Volevo chiamarlo, ma ero tanto mortificato dall’aria dolce di rimprovero con cui mi lasciò! È un bel giovane, uscito, mi pare da poco, da qualche collegio militare; alla parlata piemontese. Non so il suo nome e non nè chiederò. Innominato, mi resterà più caro e desiderato nella memoria.
Genova, 5 Maggio. Mattino.
Ho riveduto Genova, dopo cinque anni dalla prima volta che vi fui lasciato solo. Ricorderò sempre lo sgomento che allora mi colse all’avvicinarsi della notte. Quando vidi accendere i lampioni per le vie, mi si schiantò il cuore. Fermai un cittadino che passava frettoloso, per chiedergli se con un buon cavallo, galoppando tutta la notte, uno avrebbe potuto giungere prima dell’alba a C... al mio villaggio. Colui mi rispose stizzito, che manco per sogno. Quella notte fu lunga e dolorosa; e ora come posso dormire tranquillo benchè lontano da’ miei e a questo passo?
Ieri sera arrivammo ad ora tarda, e non ci riusciva di trovar posto negli alberghi, zeppi di gioventù venuta di fuori. Sorte che lungo i portici bui di Sottoripa ci si fece vicino un giovane, che indovinando, senza tanti discorsi ci condusse in questo albergo. La gran sala era tutta occupata. Si mangiava, si beveva, si chiaccherava in tutti i vernacoli d’Italia. Però si sentiva che quei giovani i più erano Lombardi. Fogge di vestire eleganti, geniali, strane; facce baldanzose; persone nate fatte per faticare in guerra, e corpi esili di giovanetti che si romperanno forse alle prime marcie. Ecco ciò che vidi in una guardata. Entravamo in famiglia. E seppi subito che quel giovane che ci mise dentro si chiama Cariolato, che nacque a Vicenza, che da dieci anni è esule, che ha combattuto a Roma nel quarantanove, e in Lombardia l’anno passato. Gli altri mi parvero, la maggior parte, gente provata.
Più sul tardi.
Stamane il primo passo lo feci da C... al quale farò conoscere i dottori di Parma, che a lui, studente di medicina, sarebbero cari, se potesse venire con noi.
— Tu vai in Sicilia! esclamò appena mi vide.
— Grazie! Tu non mi hai detto mai parole più degne.
— È una grande fortuna! Soggiunse pensoso, e dopo lunghi discorsi prese la lettera che gli diedi per casa mia. Egli la porterà soltanto quando si sappia che noi saremo sbarcati in Sicilia. Se si dovesse fallire, voglio che la mia famiglia ignori la mia fine. Mi aspetteranno ogni giorno, invecchiando colla speranza di rivedermi.
Mi abbattei nel signor X che mi conobbe giovinetto.
Egli mi ha detto che in Genova si è radunata una mano di faziosi, i quali oggi o domani vogliono partire, per andare a far guerra contro Sua Maestà il Re di Napoli. Non sa più in che mondo viva: e se il governo di qui non mette la mano sopra quegli sfaccendati perturbatori... Basta, spera ancora! Scaricava così la collera che gli bolliva; ma a un tratto si piantò, domandandomi se per avventura fossi anch’io della partita. Io non risposi. Allora certo d’aver colto nel segno, cominciò colle meraviglie, poi colle esortazioni. Come? Poteva essere che il mondo si fosse girato tanto, da trovarsi a simili fatti, un giovane, uscito dal fondo d’una valle ignota, allevato da buoni frati, figlio di gente quieta, adorato dalla madre...? Poi passò alle minaccie. Avrebbe scritto, si sarebbe fatto aiutare da quanti del mio paese sono qui; mi avrebbe affrontato all’imbarco, per trattenermi... Ed io nulla. Ultima prova, quasi piangendo e colle mani giunte proruppe: Ma che cosa vi ha fatto il re di Napoli a voi, che non lo conoscete e andate a fargli guerra? Briganti!
Eppure un suo figlio verrà con noi.
Desinammo in quattro, nè allegri nè mesti, e restammo a tavola pensando ognuno lontano, secondo il proprio cuore. Tacevamo. A un tratto il dottor Bandini, che m’era di faccia, si levò ritto, cogli occhi nella parete sopra di me. V’era un ritratto. Pisacane! Io lessi alto una strofa stampata a piè dell’immagine di quel precursore, una delle strofe della Spigolatrice di Sapri. Al ritornello, il dottor Bandini mi fu sopra colla sua voce potente e lesse lui:
Eran trecento, eran giovani e forti
E sono morti!
Tornò il silenzio di prima. Ed, io pensai alla notte che si fece sulle due Sicilie, dopo l’eccidio di Sapri. Oh! allora, come deve essere parsa fuori di ogni speranza una ripresa d’armi, a quella povera gente laggiù. Ai profughi si affacciò il sepolcro in terra straniera, e il regno fu tutto un carcere.
Quarto, presso la Villa Spinola. 5 maggio,
a un’ora di notte.
Ho bevuto l’ultimo sorso.
Strana coincidenza di date! Partiremo stasera. Chi fra quanti siamo qui non ripensa che oggi è l’anniversario della morte di Napoleone?
In mare. Dal piroscafo il Lombardo.
6 maggio mattino.
Navigheremo di conserva, ma intanto quelli che montarono sul Piemonte furono più fortunati. Hanno Garibaldi. I due legni si chiamano Piemonte e Lombardo; e con questi nomi di due provincie libere, navighiamo a portare la libertà alle provincie schiave.
Noi del Lombardo siamo un bel numero. Se ce ne sono tanti sul Piemonte, arriveremo al migliaio. Chi potesse vedere nel cuore di tutti, ciò che sa ognuno della nostra impresa e della Sicilia! A nominarla, sento un mondo nell’antichità. Quei Siracusani che, solo a sentirli cantare i cori greci, mandarono liberi i prigionieri di Nicia, mi parvero sempre una delle più grandi gentilezze che siano state sulla terra. Quel che oggi sia l’isola non lo so. La vedo laggiù in una profondità misteriosa e sola. E Trapani?
Mi vibrano bene nella mente, in questi momenti, le parole di quel volontario che fu in Crimea. «Appoggiammo a Trapani, raccolta laggiù su d’una punta squallida, città colma di mestizia fin sopra i tetti. Venivano, sulle barche, dei poveri straccioni a venderci frutta, girando stupefatti attorno alla nostra nave.
«Che cosa siete? ci chiedevano.»
«Piemontesi.»
«E dove andate?»
«In Crimea, alla guerra.»
«In Crimea, alla guerra!» ripetevano chinando il capo, e se ne andavano pieni di compassione.
Vedremo Palermo? Vedremo la piazza dove fu fatto l’auto da fè di fra Romualdo e di suor Gertrude? Il Padre Canata ce lo lesse nel Colletta in iscuola; e leggendo pareva che schiaffeggiasse la plebe e i grandi, che banchettarono cogli occhi sul rogo.
Ricordo più dolce, mio padre narrava che l’anno della fame, 1811, essendo egli fanciullo, la gente si nutriva di certe mandorle grosse come un pollice, portate di lontano... di lontano... dalla Sicilia. — E che cosa è la Sicilia? — domandavamo noi fanciulli. E lui: — Una terra che brucia in mezzo al mare.
Nell’anno 1857, l’anno d’Orsini, d’Agesilao, di Pisacane, su per le colonne di via Po in Torino, lessi scritto col carbone: «Sicilia è insorta, all’armi, fratelli». Chi sa da qual mano furono scritte quelle parole? E se le scrisse un esule come sarà felice se per avventura è con noi!
Genova nelle ore supreme fu ammirabile. Nessun chiasso: silenzio, raccoglimento e consenso. Alla Porta Pila, v’erano delle donne del popolo che, a vederci passare, piangevano. Di là a Quarto, di tanto in tanto, un po’ di folla muta. A piè della collina d’Albaro alzai gli occhi, per vedere ancora una volta la Villa, dove Byron stette gli ultimi giorni, prima di partire per la Grecia: e il grido di Aroldo a Roma mi risonò nelle viscere. Se vivesse, sarebbe là sul Piemonte, a fianco di Garibaldi inspiratore.
— Questo villaggio è Quarto? — Sì. — Dov’è la villa Spinola? — Più avanti.
Tirai avanti. Ecco la villa.
Biancheggiava una casina di là da un gran cancello, in un bosco oscuro, nella cui profondità, pei viali, si movevano uomini affaccendati. Dinanzi, sullo stradale che ha il mare lì sotto, v’era gran gente e un bisbiglio e un caldo che infocava il sangue. La folla oscillava: Eccolo! No, non ancora! Invece di Garibaldi usciva dal cancello qualcuno che scendeva al mare, o spariva per la via che mena a Genova. Verso le dieci la folla fece largo più agitata, tacquero tutti; era Lui!
Attraversò la strada e per un vano del muricciolo rimpetto al cancello della Villa, seguito da pochi, discese franco giù per gli scogli. Allora cominciarono i commiati. Ed io che non aveva lì nessuno, mi sentii negli occhi le lagrime. Avviandomi per discendere, mi abbattei in Dopino, mio condiscepolo di sei anni or sono. Aveva la carabina sulla spalla. Fui lì per abbracciarlo; ma gli vidi a fianco suo padre e un suo fratello, e mi cadde l’animo. Temei d’assistere ad una scena dolorosa, perchè mi pareva che quel padre, che io so tanto amoroso, fosse venuto per trattenere il figliuolo; e due passi più sotto v’erano le barche, e una turba silenziosa come di ombre sfilava giù in quel fondo. Invece ecco il padre e il fratello abbracciare l’amico mio, e... mi si fa un nodo alla gola.
Qui accanto dicono d’un altro che non conosco. Sono Veneti, giovani belli e di maniere signorili.
— Sapete che la madre di Luzzatto venne a cercarlo?
— Da Udine?
— O da Milano, non so. Corse di qua, di là, da Genova alla Foce, dalla Foce a Quarto, chiedendo, pregando e tanto fece che lo trovò.
— E lui?
— E lui la supplicò di non dirgli di tornare indietro; perchè sarebbe partito lo stesso, col rimorso d’averla disobbedita.
— E la mamma?
— Se n’andò sola.
Non si vede più terra.
La barca sulla quale ieri sera mi toccò montare, dondolava stracarica. I barcaiuoli per farci stare che non si capovolgesse, ci pregavano di guardare, verso Genova, certe luci verdi e rosse che splendevano nella notte. Come fossimo bambini. Verso le undici da una barca già in alto, udimmo una voce limpida e bella chiamare: «La Masa!». E un’altra voce rispose: «Generale!». Poi non s’udì più nulla.
Intanto le ore passavano; eravamo cullati dall’onda e mi addormentai. All’alba fui destato, e vidi due navi maestose, lì ferme dinanzi a noi. Tutte le barche furono spinte verso quelle. Mi volsi addietro. Genova e la riviera apparivano laggiù incerte, in un velo vaporoso: ma là oltre, i miei monti esultavano alti e puri, dominando la scena!
Una brezzolina increspava le acque; sulle navi si faceva un gran vociare; era una tempesta di chiamate, di apostrofi e anche di sagrati, che lasciavano il segno nell’aria come saette. Fu una mezz’ora di gran furia a chi facesse più presto a imbarcarsi; e anch’io potei finalmente agguantare una gomena e salire. Ho sempre negli occhi un giovane, che in quel momento vidi convulso dibattersi in fondo ad una delle barche, tenuto a stento da tre compagni. Che fosse pentito o il mal di mare l’avesse ridotto in quello stato?
Si odono tutti i dialetti dell’Alta Italia, però i Genovesi e i Lombardi devono essere i più. All’aspetto, ai modi e anche ai discorsi la maggior parte sono gente colta. Vi sono alcuni che indossano divise da soldato: in generale veggo faccie fresche, capelli biondi o neri, gioventù e vigore. Teste grigie ve ne sono parecchie; ne vidi anche cinque o sei affatto canute; ho notato sin da stamane qualche mutilato. Certo sono vecchi patriotti, stati a tutti i moti da trent’anni in qua.
— Anche tu sei qui? esclamava uno abbracciando un amico: non eri a Parigi?
— Arrivai ieri sera.
— A tempo per venir con noi?
— E avreste voluto fare senza di me?
Mi parve una vantazione che stesse male: ma l’aria del giovanotto elegante era tanto semplice e sicura! Non domando mai d’uno chi sia, poi me ne pento. Fino ad ora non conosco che Airenta, dei nuovi. Egli, mentre scrivo dorme lungo disteso, colla testa appoggiata alla sua sacca, vicino ai miei piedi. È un giovane d’oro. Ci conoscemmo ieri, ci trovammo qui, ci siamo promessi di star sempre insieme. I suoi maestri del seminario arcivescovile di Genova, quando sapranno il passo che ha fatto!
Che? Un uomo in mare?
Fu un quarto d’ora d’angoscia. Indietro alla macchina! urlava il capitano, e il legno si fermò sbuffando. Ma l’uomo caduto in mare era già lontano; appariva, spariva e lottava. Fu presto calata una lancia: la spingemmo cogli occhi, coi gesti, coll’anima, tutti. Il caduto fu raggiunto, agguantato, salvato. Dicono che sia un genovese.
Mi si era fitto in mente che questo capitano del Lombardo fosse un Francese. L’aria, gli atti, il tono suo di comandare, lo mostrano uomo che in sè ne ha per dieci. A capo scoperto, scamiciato, iracondo, sta sul castello come schiacciasse un nemico. L’occhio fulmina per tutto. Si vede che sa far di tutto da sè. Forse in mezzo all’oceano, abbandonato su questa nave, lui solo, basterebbe a cavarsela. Il suo profilo taglia come una sciabolata; se aggrotta le ciglia, ognuno cerca di farsi piccino; visto di fronte non si regge al suo sguardo. Eppure, a tratti, gli si esprime in faccia una grande bontà. Che capriccio fu quello di chiamarlo Nino? — Bixio! Ecco il nome che gli sta: almeno rende qualcosa come un guizzo di folgore.
Si fa notte: il Piemonte tira innanzi più veloce di noi. A quest’ora in casa mia si accende il lume, torna mio padre da fuori, la cena fuma sulla mensa; ma la famiglia tarda a sedersi... qualcuno manca.
In mare, 7 Maggio.
Fu fatto fare silenzio. Da poppa a prora tacemmo tutti, e la voce potente d’uno che leggeva un foglio suonò alta come una tromba. L’ordine del giorno ci ribattezza Cacciatori delle Alpi, con certe espressioni che vanno dritte al cuore. Non ambizioni, non cupidigie; la grande patria sovra ogni cosa, spirito di sagrificio e buona volontà.
Conosco un altro ordine del giorno, che fu letto non so bene se nella ritirata da Roma nel 1849, o l’anno scorso ai volontari, prima che passassero il Ticino. Si sente sempre lo stesso spirito. Anche in quello, il Generale diceva di offrire non gradi nè onori, ma fatiche, pericoli, battaglie e poi... per tenda il cielo, per letto la terra, per testimonio Iddio.
Talamone. 7 Maggio.
Vedevamo lontano un villaggio, una torre svelta, sottile, lanciata al cielo; una bandiera su quella agitata dal vento. Bandiera italiana, villaggio toscano. È Talamone sulle coste maremmane. Quando fummo vicini a terra, una barca venne a gran forza di remi verso di noi, portando il Comandante di questo castelluccio. Il valentuomo era mezzo sepolto sotto due spalline enormi, e aveva in capo una lanterna tutta galloni.
Che paese di povera gente! Carbonai e pescatori. La nostra discesa gli ha rallegrati.
— Come si chiama quel monte là in faccia?
— Monte Argentaro.
— E quelle case bianche, mezzo tuffate in mare?
— Porto San Stefano.
— Con una veduta come questa sempre dinanzi agli occhi, dovete fare una bella vita!
— Sì se si mangiasse cogli occhi. Ma... Basta... finchè si campa!
Così mi diceva un giovane carbonaio, mentre seguitava a discorrere, per farmi dire a sua volta chi siamo, e dove andiamo; io pendeva, proprio pendeva, dalle sue labbra, bevendo il dolce della sua lingua e pensando al mio dialetto aspro.
Lo rividi disceso a terra. Lento e sorridente se ne veniva su per la salita, vestito da generale dell’esercito piemontese. I lunghi capelli e la barba intera combinavano male con quei panni. Il capitano Montanari, che pare suo grande amico, gli veniva a fianco celiando, e gli diceva: «così vestito mi sembrate un leone in gabbia». Il Generale sorrideva.
Ho voluto entrare in chiesa. Una piccola chiesa disadorna e tranquilla, fatta proprio per pregarvi e null’altro. Mi sono seduto tra le panche, per respirare un po’ di quell’aria fresca che era là dentro, e invece mi si riempì l’animo di malinconia. Uscito, ho subito scritto a casa mia, confessando d’esser qui, e dicendo con chi e dove vado.
Mi sono tuffato in mare con una voluttà indicibile. Le acque erano tiepide, per tutta la riva una festa di nuotatori, sui poggi, a brigate, si vedevano i nostri godere il fresco dell’erba. Lungo la strada che mena ad Orbetello un gran viavai.
Ma che cosa facciamo qui? Che cosa si aspetta? Stanotte dormiremo a terra, e i nostri legni staranno all’ancora. Dicono che furono menati via dal porto di Genova per sorpresa. Che colpo, se venisse una nave da guerra a ripigliarceli! Il meglio sarebbe tirar via. Ma forse il Generale attende notizie, o altra gente, o armi. Appunto, sino ad ora non abbiamo armi. Soltanto alcuni se ne vanno attorno, con certe carabine che si tengono care come spose. Le hanno sempre in ispalla. Sono genovesi, tutti tiratori da lunga mano, preparati a questi tempi con fede ed amore. Quell’uomo dai capelli grigi, non vecchio ancora ma neanche più giovane, è un professore di lettere, amico di Mazzini, uscito di carcere l’anno scorso. V’era stato chiuso pei fatti di Genova del 1857. Si chiama Savi. Ho inteso dire che nel 1856, quando fu formata la Società Nazionale, e Garibaldi vi si iscrisse uno dei primi, il Savi l’abbia rimproverato d’aver accettato l’iniziativa monarchica, lui capo militare del partito repubblicano uscito da Roma. Ma ora per l’Italia è venuto anche lui. Se ne sta in disparte modesto e taciturno; ma si vede che è amato e cercato. Chi non sa chi sia, gli passa vicino rispettoso e lo saluta.
Ci siamo provati in quattro a mettere insieme un po’ di erudizione. Uno disse che i Galli Gesati, armati di spiedi, e incamminati alla volta di Roma, devono essere stati più qua e più là a campo, nella pianura verso Orbetello, quando furono colti e distrutti dai Romani, sbarcati qui tornando dalla Sardegna. E qui Mario approdò furtivo, reduce dall’esilio d’Africa, coll’anima traboccante degli odi, nati nella palude di Minturno e inaspriti dagli ossequi concessi a Silla. Qui, sul finire del secolo scorso, le schiere napoletane del conte di Damas videro per la prima volta le insegne dei repubblicani di Francia. E i posteri aggiungeranno che qui discese Garibaldi coi suoi, navigando verso Sicilia.
Talamone. 8 Maggio.
Le compagnie sono formate, otto in tutte. Io co’ miei amici siamo scritti alla sesta. La comanda Giacinto Carini, siciliano, che mi pare di trentacinque anni. Dicono che nel quarantotto fu colonnello di cavalleria; che stesse coll’armi alla mano sino all’ultima caduta della rivoluzione; e che da quei tempi visse in Francia, sperando e scrivendo. Siamo lieti d’aver per capo un siciliano, che ha fama di prode: eppoi è un così bel tipo di soldato! Affabile, gentile, parla e innamora. E siciliani sono anche gli altri ufficiali della compagnia, salvo un modenese, che deve saper bene il mestiere, ed essere anch’egli uomo ardito e di franco coraggio.
Bixio, La Masa, Anfossi, Cairoli, ed altri bei nomi della nostra storia, comandano ognuno una compagnia: tutti gli ufficiali hanno qualche bella pagina di valore: parecchi sono ancora di quei di America, ne ho visti tre che hanno un braccio solo. Primo aiutante del Generale è il colonnello Türr ungherese, e Sirtori è il capo dello Stato Maggiore. Abbiamo con noi il figlio di Daniele Manin, e ho inteso parlare d’un poeta gentile che canterà le nostre battaglie. Si chiama Ippolito Nievo.
Tutti i Genovesi che hanno carabina, forse quaranta, formano un corpo di Carabinieri. Il loro capitano chi lo volesse dipingere, è una bella testa di filosofo antico. Di modi e di fisionomia austero, pare uno che abbia fatto penitenza sino ad oggi, per affrettare la resurrezione d’Italia. È conosciuto per coraggiosissimo; e infatti come potrebbe non esserlo, se quei giovani lo tengono per primo?
Ho riveduto quei due signori che hanno viaggiato con me da Parma a Genova. Sono qui anche loro; soldati nella prima compagnia. Il più giovane è un fuoco. A Piacenza, per aver veduto alcuni soldati Francesi andare a zonzo vicino alla stazione, si tirò dentro gridando se quelli stranieri non se ne andranno mai più. E il più vecchio, che deve essere un uomo di conto, a vedere com’è rispettato qui, disse con molto senno, che avremo grazia se ci riuscirà di vederli andarsene colle buone. L’altro fremeva. Ora avranno agio di continuare la loro disputa sull’efficacia dei modi spicci che il giovane vorrebbe adoperati, a farla finita coi nemici d’Italia. Nella sua fisonomia vi è del Saint-Iust. Guai a quel povero prete o frate che gli venisse a cascare fra le mani.
Il povero Sartori era seduto sul ciglio di quello scoglio, col mare là sotto a picco. Si querelava tra sè, ma udì il mio passo e si tacque. Gli chiesi che cosa avesse. Mi rispose che era stato lì lì per buttarsi da quell’altezza, offeso nel vivo da un capitano che gli impose di levarsi di capo il berretto da uffiziale, portato dall’esercito dell’Emilia. Deve essere stato un battibecco fiero. Sartori obbedì, ma ha giurato di far parlare di sè.
Allegro che scoppiava nei panni, montato a bisdosso su d’un asinello, uno dei nostri cavalcava su per l’erta, tra le risa de’ suoi amici. La povera bestia cadde, e il giovane andò giù ruzzoloni, rimanendo malconcio. Fu messo a letto nell’osteria, e vi rimarrà chi sa quanto. Poveretto, quando noi ripartiremo!
Una mano dei nostri si staccheranno tra poco da noi. Passeranno il confine romano condotti da Zambianchi. Mi duole pei tre medici di Parma destinati a seguirlo. Diverse venture, comunque la meta sia una. Noi non ci siamo detti addio.
E mi hanno detto che sono partiti, o stanno per partire, non so quanti, che non vogliono più seguire il Generale, perchè al grido di guerra ha mescolato il nome di Vittorio Emanuele. Se ne parla, se ne giudica, ma non se ne sente dir male.
9 maggio. Dal Lombardo
in faccia a San Stefano.
Ieri sera c’imbarcammo che il mare pareva volersi mettere in burrasca. Gli abitanti di Talamone ci salutarono dalla riva, accompagnandoci con auguri pietosi.
Sono venuti a bordo del Lombardo tre bersaglieri fuggiti da Orbetello. Uno ve n’era già sin da Genova, Pilade Tagliapietre, Trevisano. Se al Lamarmora, che creò questa sorta di soldati, e li condusse da Goito in Crimea, invincibili sempre, avessero predetto che un giorno quattro giovani vestiti de’ suoi panni, guarderebbero dalla tolda di un bastimento alla Sicilia in rivolta, chi sa che rigonfiamento di cuore n’avrebbe avuto, e che sorta di esclamazioni avrebbe tartagliato. Oh la vecchia Sicilia di Vittorio Amedeo!
Ci deve essere gran fretta di partire, perchè Bixio grida ai barcaiuoli che vanno e vengono portando acqua: «venti franchi ogni barile, se me li portate prima delle undici!». I barcaiuoli fanno forza di braccia e le barche volano.
Intanto che si aspetta l’acqua, fanno la distribuzione delle armi. Ne ho avuta una anch’io, uno schioppo rugginoso che, Dio mio! E m’hanno dato un cinturino che pare d’un birro, una giberna, una baionetta e venti cartucce. Ma non si diceva a Genova che avremmo avuto delle carabine nuovissime? C’è di peggio. Il colonnello Türr fu ieri ad Orbetello, e tornò con tre cannoni e una colubrina lunga come la fame; roba che deve essere dei tempi quando quel lembo di terra là si chiamava lo Stato dei Presidii. Come faremo, tanto male armati laggiù?
L’acqua è arrivata, si salpa l’àncora. Santo Stefano, addio. Girato quel promontorio, saremo di nuovo nel grande mare, e che Dio ci aiuti.
9 Maggio. Sera
Non una vela sull’orizzonte. Oltrepassata l’isoletta del Giglio, cominciò una delizia di venticello che ristorava le vene. Il cielo è purissimo. Neppur più uno di quei tanti smerghi che ci seguivano, librandosi alti, precipitando fulminei a tuffarsi, quasi per farci festa. Vedemmo molti delfini balzare allegri sull’acqua e tenerci dietro un pezzo.
Fra poco sarà notte. Una voce armoniosa e robusta canta da poppa una canzone, che udiranno i nostri compagni del Piemonte. È il volo dell’anima alla donna del cuore. Adesso la canzone si muta in un coro di voci poderose... «Si vola d’un salto nel mondo di là!». Oh se fossimo presi in mare!
10 Maggio.
Dall’alba fino ad ora fu un vero splendore. Si navigò che pareva di andare al trionfo tranquilli, colla pace del mare e col cielo che pareva nostro. Ma venne il momento dell’angoscia. Uno dei nostri si è gettato in mare. Si dice che sia lo stesso dell’altra volta. Dunque allora non è caduto per disgrazia? Quando il legno si fermò, vedevamo lontana la testa del naufrago, e misuravamo spasimando la corsa della barca che volava a salvarlo. E vi riuscirono. Riportato a bordo, Bixio lo rimproverò aspramente, poi si commosse e lo fece mettere in una cabina, dove è custodito. Gli hanno levato di dosso i panni fracidi, l’hanno vestito d’una tunica da ufficiale, e ora giace là dentro, fulminando cogli occhi attorno come un pazzo furioso.
Il Piemonte ci precede di molte miglia. Quella nave corre superba, come avesse coscienza della fortuna e dell’uomo che porta. Si vede come un punto nero laggiù; anzi non è più che il suo fumo, lasciato addietro come la coda d’una cometa. Se si abbattesse nella crociera napoletana! Ormai siamo nelle acque del nemico. Gli ordini sono più severi. Alcuni hanno indossato camicie rosse. Bixio grida, li chiama mussulmani, vuole che stiano rannicchiati. Nessuna vela sull’orizzonte. Sempre noi soli, fin dove la vista può giungere.
Il caporale P... si lasciò sfuggire non so che brutte parole, e Bixio giù! gli scaraventò un piatto in faccia. Ne venne un po’ di subbuglio. Come un razzo Bixio fu sul castello gridando: «Tutti a poppa, tutti a poppa!». E tutti ad affollarsi a poppa rivolti a lui, ritto lassù che pareva lì per annientarci. E parlò:
«Io sono giovane, ho trentasette anni ed ho fatto il giro del mondo. Sono stato naufrago e prigioniero, ma sono qui, e qui comando io! Qui io sono tutto, lo Czar, il Sultano, il Papa, sono Nino Bixio! Dovete obbedirmi tutti; guai chi osasse una alzata di spalla, e, guai chi pensasse di ammutinarsi! Uscirei con il mio uniforme, colla mia sciabola, con le mie decorazioni e vi ucciderei tutti! Il Generale mi ha lasciato, comandandomi di sbarcarvi in Sicilia. Vi sbarcherò. Là mi impiccherete al primo albero che troveremo; ma — e misurò collo sguardo lento la calca, — ma in Sicilia, ve lo giuro, vi sbarcheremo!».
Viva Nino Bixio! viva, viva, viva! E mille braccia si alzarono a lui, che stette lassù fiero un poco; ma poi impallidì, gli balenarono gli occhi e ci volse le spalle. Dall’alto dell’alberatura i marinai applaudivano. Allora di mezzo a noi si udì la voce quasi fioca d’uno, che ritto su d’una botte, coi capelli e la barba di un biondo scialbo, con una faccia fine e soave, non più giovane nè gagliardo, arringava, annaspando nell’aria colle braccia, parlando di Garibaldi e di Bixio con grandi lodi. Stiamo a vedere, pensai, che Bixio gli scarica addosso una pistolettata. Mi volsi, proprio temendo, ma Bixio non era più sul castello. L’oratore tirò innanzi un altro poco, poi dovè discendere senza concluder nulla. Niuno badava a lui, perchè le parole di Bixio avevano fatto sugli animi come il vento sulle acque. Tutti erano agitatissimi, ognuno avrebbe data per Bixio la vita. Ho chiesto il nome di quell’oratore che ha viso dolce di Galileo, e mi hanno detto che è La Masa.
Di sul Lombardo. 11 Maggio. Mattino.
Ieri, dopo il tramonto, i marinai delle antenne vedevano ancora come un’ombra del Piemonte. A prora, un giovane che pare nato alle grandi avventure, accendeva fiocchi di stoppa incatramata, e sempre per un verso li buttava in mare. Che fossero segnali? Il bagliore di quelle fiamme rossicce, dava a tratti uno strano risalto alla faccia d’adolescente di quel giovane, e la sua fronte pareva fuggisse sotto i ricci biondi. Io guardava le sue mani ben fatte, il suo petto ampio, il suo collo robusto e bello, cinto di un fazzoletto di seta ricadente giù per le spalle; e pensava ai mari d’oriente e al Corsaro di Byron.
Mi rannicchiai in un angolo, con un visibilio nel capo, e mi addormentai come un morto.
— Su! su! — mi disse Airenta, scuotendomi forte, non so a che ora.
Balzai. Tutti quelli che erano sul ponte stavano ginocchioni, curvi, sporgendo le faccie a sinistra. Non si udiva che, un sussurro; le baionette luccicavano inastate.
— Ma che c’è?
E Airenta a me: — Una nave viene a furia verso di noi.
— Borbonica?
— Ha già suonato la campana, e Bixio ha comandato di non rispondere.
La nave veniva dritta sul nostro fianco, e il rumore delle sue ruote era concitato e rabbioso. Mi pare che il suo camino gettasse fiamme. Bixio piantato sul castello la investiva cogli occhi. Certo si preparava a qualche tragedia; magari a far saltare in aria sè, noi e la nave che ci era ormai quasi addosso. Non ho potuto capir bene quel che seguì, per un po’ di confusione che mi nacque vicino: solo intesi Bixio gridare: «Generale!». E poi fu una grande allegria.
Quella nave era il Piemonte. Il Generale che ci aveva preceduti, scoperta la crociera borbonica, tornò indietro in cerca di noi; ci trovò, si parlarono con Bixio, e ci riponemmo in via, mutando rotta.
Credo che ora siamo più vicini all’Affrica che alla Sicilia,
Si torna a navigare verso Sicilia.
A poppa, i Lombardi cantavano le canzoni dei loro laghi. Non sono meste come quelle dei miei monti, non rendono le pene delle generazioni nate a patire all’ombra dei castelli, che ora, rovine senza gloria, coronano i poggi sopra i villaggi delle mie vallate; ma qualcosa di patetico vi è anche in esse, e toccano il cuore profondamente.
Ho quì vicino un Ungherese, che veggo da ieri girare in mezzo a noi. Non sa dire una parola. Mi guarda con quei suoi occhi piccini, aggrottati, verdi. Ha i capelli a lucignoli sulla fronte stretta, e il naso da Unno. Cuoce meditabondo e cupo, sdraiato a questo sole; e forse sta pensando alla sua patria, mentre viene a morir per la mia.
Gran bella veduta d’isolette! Sembrano emerse ora dal mare. C’è del verde di tutti i toni; c’è della roccia splendente, c’è un’aria azzurra che avvolge tutto; e le isole hanno una zona d’argento al piedi.
Sento che in quelle isole vi sono prigioni orribili. Il Re di Napoli vi tiene chiusi i prigionieri di stato, e le famiglie che ve ne hanno qualcuno, dicono: «meglio i morti!».
La Sicilia! La Sicilia! Pareva qualcosa di vaporoso laggiù nell’azzurro tra mare e cielo, ma era l’isola santa! Abbiamo a sinistra le Egadi, lontano in faccia il monte Erice che ha il culmine nelle nubi. Un siciliano che era meco sulla tolda, mi narrava le avventure di Erice figlio di Venere, ucciso da Ercole su quelle vette. Erano ameni gli antichi, ma quant’è pure ameno l’amico mio, che trova ora tempo di parlare di mitologia! Ei mi disse che su quel monte c’è un villaggio che si chiama San Giuliano, dove nascono le più belle donne della Sicilia.
Come si conoscono gli esuli siciliani! Eccoli là a prora tutti affollati. In questo momento non vivono che cogli occhi. Saranno una ventina, di tutte le età. Miracolo se il colonnello Carini sbarcherà vivo, se non gli si romperà il cuore dall’allegrezza.
Il dottor Marchetti che ride sempre quando mi vede scrivere, non sa che ora scrivo del suo figliuolo. Compagno d’esilio, l’ha voluto seco sin qui. Il giovinetto può avere dodici anni; eppure è di piglio sì ardito! Fortunato lui, che ha un mattino così splendido nella sua vita! Se la morte non lo coglierà, sarà un uomo levatosi per tempo nella sua giornata. Che c’è? Tutti guardano da poppa...
Due navi corrono a vista dietro di noi!
Si è messo un po’ di vento in poppa. Tutte le vele sono spiegate, i marinai lavorano che sembrano uccelli. Bixio comanda, ubbedito a puntino. Ha gridato che chi gli sbaglia una manovra, lo farà impiccare all’albero di maestra! Voliamo.
Un piccolo legno veniva da terra. Bandiera inglese. Bixio prese un foglio vi scrisse sopra qualcosa, fece fendere un pane e nel fesso mise il foglio. Poi quando il legno passò quasi rasente a noi, gettò il pane che cadde in mare. «Allora — gridò facendo tromba colle mani, — dite a Genova che il generale Garibaldi è sbarcato a Marsala, oggi a un’ora pomeridiana!».
Sul piccolo legno fu un levar di mani, un battere di applausi, uno sventolare di fazzoletti, evviva, viva, viva!
Eccola lì Marsala, le sue mura, le sue case bianche, il verde de’ suoi giardini, il bel declivio che ha innanzi. Nel porto poco naviglio; una nave da guerra sta alla bocca e si è tutta pavesata.
«Pronti figliuoli,» grida Bixio, tutto per noi; e se avesse la forza ci lancerebbe in un colpo alla riva. Ma siamo certi di sbarcare, sebbene le due navi ci inseguano sempre. Hanno guadagnato un bel tratto. Vengono sbuffando.
Marsala 11 Maggio.
Siedo sopra un sasso, dinanzi al fascio di armi della mia compagnia, in questa piazzetta squallida, solitaria, paurosa. Capitano Ciaccio da Palermo, piange come un bambino dall’allegrezza: io faccio le viste di non vederlo. La compagnia chi qua, chi là, mezzi a cercar da mangiare. Ma al primo squillo, non ne mancherà uno. Dal porto, tirano cannonate a furia contro la città. Su molte case sventolano bandiere d’altre nazioni. Le più sono inglesi. Che vuol dir questo?
Il Lombardo è quasi sommerso. Il Piemonte galleggia maestoso sull’acqua. Le fregate che ci inseguivano arrivarono a tiro che noi eravamo quasi tutti sul molo. La terra ci mareggiava sotto i piedi; stentavamo a tenerci ritti. La città non aveva ancora capito nulla; ma la ragazzaglia era già lì, venuta giù a turba. Alcuni frati bianchi ci salutavano coi loro grandi cappelli: ci spalancavano le enormi tabacchiere: e stringendoci le mani, ci domandavano: «Siete reduci, emigrati, svizzeri?».
Alle porte della città, comparvero degli ufficiali di marina, in calzoni bianchi; e venivano giù al porto, verso la nave inglese, discutendo agitati. Noi intanto ci stavamo ordinando. A un tratto s’ode un colpo di cannone. Che è? Un saluto! dice sorridendo il Colonnello Carini, vestito d’una tunica rossa, con un gran cappello a falda, piumato, in capo. Un secondo colpo, una grossa palla passa, rombando balzelloni, tra noi e la settima compagnia, e caccia in aria l’arena. I monelli si gettano a terra; i frati fuggono come possono con quei gran corpi, camminando dentro i fossati. Una terza palla sfascia il tetto d’una casetta di guardie, lì presso; una granata cade in mezzo alla mia compagnia, e fuma per iscoppiare. Beffagna da Padova vi corre addosso e ne cava la miccia. Bravo! Ma egli non sente o non bada.
E poi giù i colpi che non si contarono più. Quale furore! Ora la città è nostra. Dal porto alle mura corremmo bersagliati di fianco. Nessun male. Il popolo applaudiva per le vie; frati d’ogni colore si squarciavano la gola gridando: donne e fanciulle dai balconi ammiravano. «Beddi! Beddi!» si sentiva dire da tutte le parti. Io ho bevuto all’anfora d’una giovinetta popolana che tornava dalla fonte. Rebecca!
E quell’arco della porta per la quale entrammo in città, come l’ho innanzi agli occhi! Mi parve l’ingresso d’una città araba; e un po’ mi parve anche di essere alle porte del mio villaggio, che hanno un arco come questo. Mi fermai a dare un’occhiata verso il porto. Venivano su correndo gli ultimi manipoli dei nostri: le due navi borboniche balenavano avvolte nel fumo; e quel nostro Lombardo, adagiato su d’un fianco, mi fece pietà. Dicono che Bixio l’abbia voluto sommergere. Costui dove passa lascia il segno.
Di guardia sull’antico porto di Marsala. Sera.
Noi qui non vediamo che cosa avvenga dall’altra parte, dove siamo sbarcati; ma senza dubbio quel fuoco da cacciatori è fatto dai carabinieri genovesi. Forse le navi hanno gente da sbarco a bordo e tentano di metterla a terra. Purchè non vi riescano nella notte, e non colgano i nostri rimasti in città, alla sprovveduta o peggio! Vi è un certo vino traditore, e si è stati tanti giorni a digiuno! Ma i capi vi hanno pensato, e quasi tutte le compagnie son fuori. La mia è qui tutta intera. Vediamo una gran curva di lidi, e laggiù all’orizzonte un promontorio nero. Forse è Trapani. Quelle barchette che si staccano colà e pigliano il largo, sono cariche di gente che fugge. Intanto il fuoco dalle navi continua.
Marsala 12 Maggio. 3 ore ant.
Ieri sera alle dieci, il caporale Plona mi piantò laggiù a piè di uno scoglio, sentinella ultima della nostra fila, e mi ci lasciò cinque ore. Feci dei versi alle stelle. Fu la mia veglia d’arme.
Mercoledì. Durante il gran alt.
Alla punta del giorno venne uno a cavallo, parlò col capitano, pigliammo gli schioppi, e rientrammo in città. Per una via sonnacchiosa, passammo innanzi a certe casuccie, dove la miseria si ridestava nelle stanze terrene semiaperte e schifose, riuscimmo alla campagna dal lato opposto. Là erano tutti i nostri già ordinati e pronti; là un’allegrezza intera e sana che alzava il cuore. In alto mare, le due navi napoletane di ieri filavano di lunga, menandosi a rimorchio il Piemonte. Bella consolazione! Il Lombardo era sempre al suo posto; e quando spuntò il sole, la parte della sua carena che era fuori dell’acqua, parve incendiarsi dallo splendore, per salutarci e augurarci fortuna.
Nell’aria era un profumo delizioso: ma quel campo lì fuori le mura di Marsala, coi suoi grandi massi nerastri sparsi qua e là, con quei fiori gialli che lo coprivano a tratti, cominciava a darmi non so che senso di cose morte. Passò Bixio a cavallo. Fiero come già sul cassero del Lombardo, diede una occhiata burbera laggiù a quel povero legno, accennò brusco come a dire: «siamo intesi!» e tirò innanzi trottando. Dopo di lui vennero alcune Guide, gente che ha navigato sul Piemonte, bei cavalli, bei cavalieri, coll’uniforme leggiadra che avevano l’anno passato in Lombardia. Nullo caracollava bizzarro e sciolto; torso da Perseo, faccia aquilina, il più bell’uomo della spedizione. Pare uno dei tredici che han combattuto a Barletta. Missori da Milano, vestito d’una tunichetta rossa che gli cresce l’aspetto di gran signore, ha in capo un grazioso berretto rosso, gallonato d’oro, e comanda le Guide. Dolce ma tutt’animo; lui e Nullo, Eurialo e Niso. Quell’altro, semplice Guida, colla faccia imbroncita e piena di bontà, è il più vecchio del drappello. Avrà quarat’anni? È Nuvolari da Mantova, un ricco campagnuolo che ha cospirato e combattuto umile e costante; tipo di puritano dei tempi di Cromwell. Gli altri tutti fior di giovani; carissimo un Manci da Trento, che mi fa pensare alla Fiorina del Grossi, tanto ha l’aria di fanciulla innocente.
Sempre sorridente e colla buona novella in fronte, arrivò ultimo Garibaldi collo Stato Maggiore. Cavalcava un baio da Gran Visir, su di una sella bellissima, colle staffe a trafori.
Indossava camicia rossa e calzoni grigi, aveva in capo un cappello di foggia ungherese e al collo un fazzoletto di seta, che, quando il sole fu alto, si tirò su a far ombra al viso. Scoppiò un gran saluto affettuoso; ed Egli, guardandoci con aria paterna, si spinse fin in capo alla colonna. Poi le trombe suonarono e ci ponemmo in marcia.
Fatto un bel tratto della via consolare, si pigliò la campagna, per una straduccia incerta e difficile tra i vigneti. I nostri cannoni venivano dietro a stento, su certi carri dipinti d’immagini sacre, tirati da stalloni focosi, che spandevano nell’aria la grande allegria delle loro sonagliere. Ci siamo fermati a questa fattoria; una casa bianca e un pozzo, in mezzo a un oliveto. Che gioia un poco d’ombra, e che sapore il po’ di pane che ci han dato! E il Generale seduto a piè di un olivo, mangia anche lui pane e cacio, affettandone con un suo coltello, e discorrendo alla buona con quelli che ha intorno. Io lo guardo e ho il senso della grandezza antica.
Dal Feudo di Rampagallo. Sera.
Ripresa la via, dopo una buona ora di sosta, ci rimettemmo per l’immensa campagna. Non più vigneti ne olivi, ma di tratto in tratto ancora qualche campicello di fave, poi più nessuna coltura. Il sole ci pioveva addosso liquefatto, per la interminabile landa ondulata, dove l’erba nasce e muore come nei cimiteri, E mai una vena d’acqua, mai un rigagnolo, mai all’orizzonte un profilo di villaggio: «Ma che siamo nelle Pampas?» esclamava Pagani, il quale da giovane fu in America.
Quelle solitudini dove l’occhio non trovava confine, a larghe distanze, erano appena animate da qualche capanna di pastori, o da branchi di cavalli sciolti, nella loro selvaggia libertà. A vederci, galoppavano lontano, cacciati dallo spavento, e talvolta si arrestavano corvettando dall’allegrezza. Dopo mezzodì, sul margine del nostro sentiero, trovammo un vecchio pastore. Vestiva pelli di capra, e la sua testa, fiera e quasi da selvaggio, era coperta da un enorme berretto di lana. Teneva le mani appoggiate sulle spalle di un giovinetto, che poteva avere quindici anni, ed osservava muto il nostro passaggio. Quando arrivò a lui la mia compagnia, egli si rivolse al Capitano gridando con voce sicura: «Principe Carini, reboldate la cabedale!» E spinse il giovinetto in mezzo a noi. Poi si asciugò gli occhi, e volte le spalle, si allontanò per quel deserto. Lontano, lontano all’orizzonte, vedevamo una capanna, forse la sua.
«Che è principe il nostro Capitano?» chiesi al tenente palermitano anche lui.
«No... Un principe Carini esiste, ma borbonico che ci avvelenerebbe l’aria.»
Questo gran casone bieco e un antico feudo. Arrivammo che il sole andava sotto, e ci ponemmo qui sul pendio, sdraioni sull’erba soffice e lussureggiante. Fui mandato ad attinger acqua. Su d’un rialzo vicino al casone, stavano in crocchio alcuni dei nostri capi. Mentre passavamo uno di essi diceva: «Avete badato a quel deserto, tutt’oggi? Si direbbe che siamo venuti per aiutare i Siciliani a liberare la loro terra dall’ozio!»
Del nemico non si sente dir nulla.
13 Maggio. Salemi. Da un balcone di
convento, in faccia alla gloria del Sole.
Stamane suonava la diana, e Bixio già in sella veniva da chi sa dove. Se invece di quella uniforme di fanteria, vestisse un costume del cinquecento, ecco Giovanni dalle Bande Nere.
Nella notte sono arrivati a squadre molti insorti, armati di doppiette da caccia e di picche bizzarre. Parecchi vestono pelli di pecora sopra gli altri abiti, tutti paiono gente risoluta, e si sono messi con noi.
Quando movemmo dal campo di Rampagallo, eravamo aggranchiti per aver dormito là senza tende, senza coperte, come capitammo, colla gran guazza che viene giù queste notti. Ma ci liberammo dal freddo assai presto e dopo mezz’ora di marcia si desiderava già l’acqua. Passammo vicino a parecchie fonti, bevevamo cogli occhi; ma Bixio era sempre là inesorabile a far guardia, e non ci lasciava nemmen bagnar le labbra. Ha fatto bene. Uno dei nostri che riuscì a bere, cadde a mezzo della gran salita che mena quassù. Lo vidi dibattersi per dolori atroci, fra gli amici addolorati; un medico gli teneva il polso e tentennava il capo. Speriamo che non sia morto.
Quella salita scomunicata ci ha fatto rompere il petto, ma pazienza. Arrivando, fummo accolti da una folla d’uomini, di donne, di fanciulli strilloni; quasi non si sentiva la banda che ci suonava il trionfo.
Una donna, con un panno nero giù sulla faccia, mi stese la mano, borbottando.
«Che cosa? dissi io.»
«Staio morendo de fame, Eccellenza!»
«Che ci si canzona qui?» esclamai: e allora un signore diede alla donna un urtone, e mi offerse da bere, in un gran boccale di terra. Fui lì per darglielo in faccia; ma accostai le labbra per creanza, poi piantai lui per raggiungere quella donna Non mi riuscì di trovarla. Ma subito una giovane dagli occhi grandi, soavi, e smunta, malata, mi porse un cedro colla destra, e colla sinistra tesa mi disse: «Signorino!» Un cencio di gonnella le dava a mezzo stinco, e aveva i piedi ignudi. Le posi in mano due prubbiche, monetuccie di qui che paion farfalle; essa le prese e corse via. La veggo ancora, colle gambe scarne, battute dai brandelli della veste lurida e corta, fuggire non so se lieta o vergognosa.
Quando giunse il Generale, fu proprio un delirio. La banda si arrabbiava a suonare; non si vedevano che braccia alzate e armi brandite; chi giurava, chi s’inginocchiava, chi benediceva: la piazza, le vie, i vicoli erano stipati; ci volle del bello prima che gli facessero un po’ di largo. Ed egli, paziente lieto, salutava ed aspettava sorridendo.
C’è qui un ufficiale vestito dell’uniforme Piemontese, che mi pare tutto quello del caso di Novi. Farò di parlargli, e, se è lui, mi scuserò di non avergli voluto dire quel che mi chiese. Dicono che sia disertore, che si chiami De Amicis, che sia di Novara.
Ho fatto un giro per la città. L’hanno piantata quassù che una casa si regge sull’altra, e tutte paiono incamminate per discendere giù da oggi a domani. Avessero pur voglia di sbarcare i Saraceni, Salemi era al sicuro! Vasta, popolosa, sudicia, le sue vie somigliano colatoi. Si pena a tenersi ritti; si cerca un’osteria e si trova una tana. Ma i frati, oh! i frati gli avevano belli i conventi, e questo dov’è la mia compagnia è anche netto. Essi se ne sono andati.
Gli abitanti, non scortesi, sembrano impacciati se facciamo loro qualche domanda. Non danno nulla, si stringono nelle spalle, o rispondono a cenni, a smorfie, chi capisce è bravo.
Entrai stanco in una taverna, profonda quattro o cinque scalini dalla via. V’era una brigata di amici, che mangiavano allegramente i maccheroni in certe ciotole di legno che... Eppure ne mangiai anch’io. E bevemmo e chiacchierammo, e c’eravamo dimenticati d’essere qui a questi passi, quando venne Bruzzesi delle Guide, il quale ci disse che un grosso corpo di Napoletani è a poche miglia da noi. «Meglio! — sclamò G..., — bisognerà vedere che cera ci faranno!»
Salemi. 14 Maggio.
Il Generale ha percorsa la città a cavallo. Il popolo vede lui e piglia fuoco: magìa dell’aspetto o del nome, non si conosce che lui.
Il Generale ha assunta la Dittatura in nome d’Italia e Vittorio Emanuele. Se ne parla, e non tutti sono contenti. Ma questo sarà il nostro grido. Alle cantonate si legge un proclama del Dittatore. Egli si rivolge ai buoni preti di Sicilia. Un rètore ha notato che, preti buoni, sarebbe stato meglio detto.
Le squadre arrivano da ogni parte, a cavallo, a piedi, a centinaia, una diavoleria. E hanno bande che suonano d’un gusto! Ho veduto dei montanari armati fino ai denti, con certe facce sgherre, e certi occhi che paiono bocche di pistole. Tutta questa gente è condotta da gentiluomini, ai quali ubbidisce devota.
Piove dirotto. Del nemico notizie diverse o contraddittorie. Sono quattromila; no, diecimila, con cavalli e cannoni. Si fortificano sui tali monti: no, sui tali altri: si avanzano, si ritirano rapidamente. Questa notte staremo ancora qui: e intanto finiranno d’allestire i carri per la nostra artiglieria.
Grazioso! Ieri l’altro, appena sbarcati, alcuni dei nostri occuparono il telegrafo. L’ufficiale, fuggendo, aveva lasciato lì un foglio, sul quale era scritto: «Due vapori sardi sbarcano gente». Era un dispaccio mandato al Comandante militare di Trapani. E da Trapani appunto: «Quanti sono? Che cosa vogliono?». Allora i nostri: «Perdonate, mi sono ingannato, i legni sbarcano zolfo». Da Trapani secco secco: «Imbecille!».
Poi un taglio dei nostri al filo telegrafico e silenzio.
Salemi 15 Maggio. 5 ore ant.
Ho spalancato le finestre di questa cella di monaco, e ho dato un’occhiata alla campagna, sonnacchiosa sotto i fumacchi che si levano dalle valli. Chi sa che via piglieremo, e in quale dei punti cui arriva la mia vista, saremo affrontati dai napoletani? Chi sa per che via marciano a noi, o in qual gola stanno ad attenderci?
Margarita e Bozzani lunghi e distesi lì su d’un tappeto verde, avuto non so da chi, dormono ancora. Raccuglia, il buon vecchietto Palermitano che non parla mai, si allaccia la calzatura, al lume della mia candela. Torna dall’esilio in nostra compagnia, come un popolano fuoruscito del medioevo.
— «Sergente Raccuglia, che tempo avremo oggi?
— «Bisognerà vedere il Generale in faccia; ma sarà bello, perchè vedete là? Gatti si ravvia i capelli. Sempre lindo e attillato lui.»
Lì, fuori della porta, due milanesi stavano ragionando dei fatti nostri, uno più dottore dell’altro, a dimostrare che sono seri, assai, da tutte le parti. «Nemico numeroso, provveduto di tutto: noi armi pessime, munizioni poche, un quindici cartucce per ciascuno, gli insorti peggio armati di noi».
— «Ehi? tuonò un vocione dal corridoio, che ci siete venuti per fare codesti conti?»
I due si tacquero.
Suona la sveglia. E Simonetta viene a dirci che si parte.
Gran giovane Simonetta! Non si cura di nulla per sè, non vive che per gli altri. V’è una guardia da fare? Simonetta si offre. Un servizio faticoso? Eccolo pronto lui, gracile e gentile. Si distribuisce il pane? Egli si presenta l’ultimo a pigliare il suo.
Ha lasciato a Milano il padre vedovo e solo.
Fra minuti si parte.
Il nemico è davvero a nove miglia. Abbiamo riposato due giorni e due notti su quest’altura, tra questa gente povera e rozza. Chi sa dove dormiremo stasera? I carri per l’artiglieria sono fatti; la colubrina allunga la sua gola; il corpo dei cannonieri è formato. Sono quasi tutti ingegneri.
15 Maggio 11 ore ant. Sui Colli del Pianto Romano. |
Un pensiero a casa, poichè tutto è pronto. I nostri cannoni sono laggiù, piantati sulla strada consolare a sinistra. Eccolo là il nemico. La montagna rimpetto a noi ne è gremita. Saranno circa 5000 uomini. Noi siamo scaglionati per compagnie. Il Generale da quella punta osserva le mosse dei nemici. Fra le nostre posizioni e le loro, è una pianura non vasta ed incolta. La bandiera sventola sul poggio più alto, in mezzo a noi. Il sottotenente che la porta, mandò me dal Generale, e il Generale mi rimandò a lui comandando: «ditegli che si porti sul poggio più alto colla bandiera, e che la faccia sventolare!». Dio, con qual voce me lo disse!
Al Colonnello Carini si è impennato il cavallo. Egli è caduto. Non fa nulla. Rieccolo in sella. Dianzi vidi cadere anche il La Masa, che si deve essere fatto male. Mi sentii, come se avessi battuto del capo io stesso, contro quelle pietre.
I cacciatori napoletani discendono dalle alture. Che calma!... Che sicurezza nel loro movimenti! Fra poco... Ma le loro trombe, che suoni lugubri!
16 Maggio Sera. Dal convento di San Vito Sopra Calatafimi. |
Sarà bello, se camperò, rileggere fra molti anni questi sgorbi. Avessi avuto tempo, da ieri mattina ne avrei fatto cento pagine.
Tutta Salemi era fuori a salutarci: «benedetti! benedetti!» E quando da piè della discesa mi volsi a guardare in su, tesi le braccia alla città e a quella gente, che avrei voluto stringere al petto tutta. Venivano giù le nostre compagnie di passo allegro e cantando. Garibaldi, ad una svolta della via, grandeggiava sul suo cavallo nel cielo; in un cielo di gloria, da cui pioveva una luce calda, che insieme al profumo della vallata ci inebriava. E con noi, giù dal monte venivano le squadre dei siciliani; una processione che non vidi finire, perchè la mia compagnia si innoltrò per la campagna, bella, sempre più bella, sino al villaggio di Vita, dove c’incontrammo colle nostre Guide che venivano indietro di mezzo trotto. Avevano scoperto il nemico. Non v’era che da salire il colle là presso, e l’avremmo avuto in faccia.
Intanto la gente di Vita fuggiva. Fuggivano portando le masserizie, trascinando i vecchi e i fanciulli, con pianto. Attraversammo il villaggio attristati, e quella povera gente ci guardava, ci faceva cenni di compassione, ci diceva: «meschini!»
Dopo breve tratto sostammo. E allora vidi la nostra bella bandiera portata al centro della settima, quel centinaio e mezzo di giovani, quasi tutti dell’Università di Pavia, fior di Lombardi e di Veneti, la compagnia piú numerosa e più bella.
A GIUSEPPE GARIBALDI
gli italiani residenti in valparaiso
1855.Lessi queste parole, trapunte a caratteri grandi d’oro su d’un lato della bandiera. Sull’altro trionfava l’Italia, figurata in una donna augusta, che, rotte le catene, sorge ritta su d’un trofeo, cannoni, schioppi, tutt’oro e argento.
Io contemplava la bandiera, pensando che in quelle terre lontane dove fu fatta, tra quei patriotti donatori, vive un fratello del padre mio; e intanto vedeva un gran correre di ufficiali e di Guide. Poi comparve il Generale; le trombe squillarono; lasciammo la strada consolare, ci mettemmo pei campi e su per la collina brulla, una compagnia incalzando l’altra. Di lassù scoprimmo il nemico. Il colle in faccia sfolgorava tutto armi, pareva coperto di diecimila soldati.
Come? Calzoni rossi? I Napoletani hanno già i Francesi con loro? — sclamarono alcuni sdegnati vedendo del rosso nelle file nemiche: ma i Siciliani che udirono li quetarono, rispondendo che anche gli ufficiali napoletani portano calzoni rossi.
Ci ponemmo a giacere, ed erano quasi le undici. Mi parve che fossimo stati a guardarci coi regi pochi minuti, eppure la prima schioppettata non fu tratta che all’una e mezza dopo mezzodí. I cacciatori Napoletani scesi lunghi lunghi, giù per quelle filiere di fichi d’India, tirarono primi. Garibaldi gli aveva osservati a lungo da una balza, con Türr, Tuhory, Sirtori ed altri molti che gli stavano intorno. Io lo vidi malinconico e pensoso. Credo che a quel primo incontro sperasse... sperasse in una ispirazione che ai Napoletani non venne. Eppure nostra bandiera sventolava lassù nella luce!..
— «Non rispondete, non rispondete al fuoco!» gridavano i Capitani; ma le palle dei caccíatori passavano sopra di noi con un gnaulìo cosí provocante, che non si poteva star fermi. Si udì un colpo, un altro, un altro; poi fu suonata la diana, poi il passo di corsa: era il trombetta del Generale.
Ci levammo, ci serrammo, e precipitammo in un lampo al piano. Là ci copersero di piombo. Piovevano le palle come gragnuola, e due cannoni dal monte già tutto fumo, cominciarono a trarci addosso furiosamente. La pianura fu presto attraversata, la prima linea di nemici rotta; ma alle falde del colle chi guardava in su!..
Là vidi Garibaldi a piedi, colla spada inguainata sulla spalla destra, andare innanzi lento e tenendo d’occhio tutta l’azione. Cadevano intorno a lui i nostri, e più quelli che indossavano camicia rossa. Bixio corse di galoppo a fargli riparo col suo cavallo, e tirandoselo dietro alla groppa, gli gridava:
«Generale, così volete morire?»
«E come potrei morire meglio che pel mio paese?» rispose il Generale, e scioltosi dalla mano di Bixio, tirò innanzi severo. Bixio lo seguì rispettoso.
— «Goro da Montebenichi e Ferruccio a Gavinana!» pensai tra me, rallegrandomi del ricordo: ma subito mi tremò il core; credei d’indovinare che al Generale paresse impossibile il vincere, e cercasse di morire.
In quel momento, uno dei nostri cannoni tuonò dalla strada. Un grido di gioia da tutti salutò quel colpo, perchè ci parve di ricevere l’aiuto di mille braccia. «Avanti, avanti, avanti!» non si udiva più che un urlo; e quella tromba che non aveva più cessato di suonare il passo di corsa, squillava con angoscia, come la voce della patria pericolante.
Il primo, il secondo, il terzo terrazzo su pel colle, furono investiti alla baionetta e superati: ma i morti e i feriti, che raccapriccio! Man man mano che cedevano, i battaglioni regi si tiravano più in alto, si raccoglievano, crescevano di forza. All’ultimo parve impossibile affrontarli piú. Erano tutti sulla vetta, e noi intorno al ciglio, stanchi, affranti, scemati. Vi fu un istante di sosta; non ci vedevamo quasi tra le due parti: essi raccolti là sopra, noi tutti a terra. S’udiva qua e là qualche schioppettata: i regi rotolavano massi, scagliavano sassate; e si disse che persino il Generale ne abbia toccata una.
A quell’ora mancavano già dei nostri molti, che intesi piangere dai loro amici: e vidi là presso, tra i fichi d’India, un giovane bello, ferito a morte, sorretto da due compagni. Mi pareva che si volesse lanciare innanzi ancora; ma udii che pregava i due fossero generosi coi regi, perchè anch’essi Italiani. Mi sentii negli occhi le lagrime.
Già tutta l’erta era ingombra di caduti, ma non si udiva un lamento. Vicino a me il Missori comandante delle Guide, coll’occhio sinistro tutto pesto e insanguinato, pareva porgesse l’orecchio ai rumori che venivano dalla vetta, donde si udivano i battaglioni moversi pesanti, e mille voci come fiotti di mare in tempesta, urlare a tratti «viva lo Re!».
Frattanto i nostri arrivavano a ingrossarci, rinascevano le forze. I capitani si aggiravano tra noi confortandoci. Sirtori e Bixio erano rimasti a cavallo fin lassù.
Sirtori vestito di nero, con un po’ di camicia rossa che usciva dal bavero, aveva nei panni parecchi strappi fatti dalle palle, ma nessuna ferita. Impassibile, colla frusta in mano, pareva non si sentisse presente a quello sbaraglio; eppure sulla faccia pallida e smunta io lessi qualcosa, come la voluttà di morire per tutti noi.
Bixio compariva da ogni parte, come si fosse fatto in cento, braccio di ferro del Generale. Lassù lo rividi vicino a lui un altro istante.
«Riposate, figliuoli, riposate un altro poco; — diceva il Generale — ancora uno sforzo e sarà finita» — E Bixio lo seguiva per le file.
In quella il sottotenente Bandi veniva a salutarli, li per cadere sfinito. Non ne poteva più. Aveva toccate parecchie ferite, ma un’ultima palla gli si era ficcata sopra la mammella sinistra e il sangue gli colava giù a rivi. — Prima che passi mezz’ora sarà morto, pensai: ma quando le compagnie si lanciarono all’ultimo assalto, contro quella siepe di baionette che abbagliavano, stridevano, sì che pareva di averle già tutte nel petto, tornai a vedere quell’ufficiale fra i primi. «Quante anime hai?» gli gridò uno che deve essergli amico. Egli sorrise beato.
Il grande, supremo cozzo, avvenne mentre la bandiera di Valparaiso, passata da mano a mano a Schiaffino, fu vista agitata alcuni istanti di qua di là, in una mischia stretta e terribile e poi sparire. Ma uno delle Guide potè afferrarne uno dei nastri e strapparlo; gruppo Michelangiolesco lui e il suo cavallo impennato, su quel viluppo di nemici e di nostri. Mi rimarrà dinanzi agli occhi fin che avrò vita.
In quel momento i regi tiravano l’ultima cannonata, fracellando quasi a bruciapelo un Sacchi pavese; e fu da quella parte un urlo di gioia, perchè il cannone era preso. Poi corse voce che il Generale era morto; e Menotti ferito nella destra correva gridando e chiedendo di lui. Elia giaceva ferito a morte; Schiaffino, il Dante da Castiglione di questa guerra, era morto, e copriva la terra sanguinosa colla sua grande persona.
Quasi sulla vetta, vicino alla casina, mentre io passava, riconobbi ai panni più che al viso il povero Sartori. Era morto fulminato, perchè cinque minuti prima lo avevo visto salire, e mi aveva salutato a nome. Giaceva sul lato sinistro, tutto attrappito e coi pugni chiusi. Era stato ferito nel petto. Caddi sopra di lui, lo baciai e gli dissi addio. Povero morto! Negli occhi spalancati, nella fisonomia spenta, gli era rimasto come un desiderio di respirare una ultima fiatata di quell’aria di guerra. Mantenne da prode la sua parola di Talamone, e quanti conoscemmo Eugenio Sartori da Sacile, parleremo a lungo di lui.
I Napoletani morti, che pietà a vederli! Morti di baionetta molti; quelli che giacevano sul ciglio del colle, quasi tutti erano stati colti nel capo. Là un mostricciattolo, che ai panni mi parve un villano di queste parti, inferociva su d’uno di quei morti. «Uccidete l’infame!» urlò Bixio, e spronò su di lui colla sciabola in alto. Ma il feroce scivolò fra le roccie e disparve, più bestia che uomo.
Macchiette nel quadro grande, veggo quei Francescani che combattevano per noi. Uno d’essi caricava un trombone con manate di palle e di pietre, poi si arrampicava e scaricava a rovina. Corto, magro, sudicio, veduto di sotto in su a lacerarsi gli stinchi ignudi contro gli sterpi, che esalavano un odore nauseabondo di cimitero, strappava le risa e gli applausi. Valorosi quei monaci, tutti, fino all’ultimo, che vidi, ferito in una coscia, cavarsi la palla dalle carni e tornare a far fuoco.
Durante la battaglia, sulle alte rupi che sorgevano intorno a noi, si vedevano turbe di paesani intenti al fiero spettacolo. Di tanto in tanto mandavano urli che mettevano spavento ai comuni nemici.
Quando questi cominciarono a ritirarsi, protetti dai loro cacciatori, rividi il Generale che li guardava e gioiva. Gli inseguimmo un tratto; disparvero in una fondura; riapparvero, fuori di tiro, nella montagna, in faccia seguiti da un centinaio di loro cavalli, che stati in agguato sino a quel momento, li raggiunsero a briglia sciolta. Dal campo stemmo a vedere la lunga colonna salire a Calatafimi, grigia lassù a mezza costa del monte grigio, e perdersi nella città. Ci pareva miracolo aver vinto. Si mise un vento freddo gelato. Ci coricammo. Era un silenzio mestissimo. Si fece notte in un momento, ed io con Airenta e Bozzani, ci addormentammo in un campicello di grano, accarezzati dalle spiche curve sui nostri corpi.
Stamane, quando suonarono la sveglia rompeva appena l’alba; ma qualche allodola cantava già alta nell’aria. Credeva che si dovesse marciare all’assalto della città, perchè ieri sera intesi il Generale parlarne con Bixio. Ma nella notte era venuta gente da Calatafimi, ad annunziare che i regi partivano alla volta di Palermo. Allora volli fare un giro pel campo.
Ritrovai Sartori là ancora dov’era caduto. Nessuno lo aveva toccato, ma pareva morto da tre giorni. Le sue guancie erano divenute smunte; i suoi capelli tesi; la pelle d’un giallo che non si poteva guardare. Mi si strinse il cuore, e non ebbi forza di dargli l’ultimo bacio. Egli lo avrebbe fatto, egli mi avrebbe seppellito colle sue mani!
Ora di qui io veggo il colle quieto e deserto. Ieri fin le pietre parevano là vive ad aiutarci! I morti che giacciono su quei dorsi sono più di trenta. Gli ho quasi tutti dinanzi agli occhi, come erano due giorni or sono, baldi, confidenti, allegri. Ma un d’essi mi mette non so che spavento nell’anima, quell’ufficiale che vidi a Novi, che rividi a Salemi, e non rivedrò mai più. Anche De Amicis è morto, e rimasto là nella gloria con nome non suo!1
Meno da rimpiangere i morti, perchè i poveri feriti, raccolti in quel misero villaggio di Vita, soffrono Dio sa come, soli, senza cure, senz’altra difesa che la loro impotenza. E se vi capitasse una colonna di questi soldati feroci, che hanno l’ordine di non dar quartiere?
Tramonta il Sole. Giù nella città le bande empiono l’aria di suoni. Mi narrano che vi fu cerimonia per la benedizione del Dittatore, fatta da un frate che ci segue fin da Salemi. Io non discenderò più di qui: non mi staccherò da questa bella veduta, finchè non sia notte. In quel fitto di boschetti laggiù veggo Alcamo, di qua a là una Tempe. Il Golfo di Castellamare chiude la scena e par che sfumi nel cielo, nel cielo libero al desiderio che vi si sprofonda. Quell’acque lontane hanno un sorriso di promessa, in cui l’anima si confonde, come negli occhi di una cara fanciulla. Un po’ di spiaggia, un po’ di spiaggia! Mi sembra che là sapremo qualcosa di noi e del mondo, che a quest’ora ci ha giudicati.
Stasera leggerò alla compagnia l’Ordine del giorno. L’ho trascritto nella cancelleria municipale di Calatafimi, dove il capitano Cenni tempestava rabbioso, non so perchè. Leggerò:
«Soldati della libertà Italiana, con compagni come voi io posso tentare ogni cosa». Che grido quando la compagnia udirà quest’altro passo: «Le vostre madri usciranno sulla via, superbe di voi, colla fronte alta e radiante!».
Veggo su per l’erta il colonnello Carini, che se ne viene a cavallo di passo allegro. Che si parta?
Alcamo, 17 Maggio. Sulla soglia
d’una chiesetta, quasi in riva al mare.
Da Calatafimi a qui fu una camminata allegra, per campagne fiorenti. Ma dappertutto vi era traccia della sconfitta che facemmo toccare ai regi: zaini, berretti, bende insanguinate buttate lungo la via. All’alba partendo si cantava; poi, tra per quella vista e per il sole che si alzò a schiacciarci, si tacque e si tirò innanzi come ombre. Verso le dieci, ci abbattemmo in certe belle carrozze, mandate ad incontrarci come gran signori. Alcamo era vicina. Nelle carrozze v’erano gentiluomini lindi e lucenti, che fecero le accoglienze al Generale; mentre, allo sbocco dei sentieri, si affollavano dai campi molte donne campagnuole, confidenti e senza paura di noi. Alcune si segnavano devotamente; una ne vidi con due bambini sulle braccia inginocchiarsi quando il Generale passò; e uno dei nostri ricordò le Trasteverine d’undici anni or sono, che lo chiamavano il Nazzareno.
Entrammo in Alcamo alle undici. È bella questa città, sebbene mesta; e all’ombra delle sue vie par di sentirsi investiti da un’aria moresca. Le palme inspiratrici si spandono dalle mura dei suoi giardini; ogni casa pare un monastero; un paio d’occhi balenano dagli alti balconi; ti fermi, guardi, la visione è sparita.
Prima che noi giungessimo, si diceva che i regi erano sbarcati numerosi e furibondi a Castellamare, ma che subito erano tornati a imbarcarsi. Non si parla più di questa mossa, ma si vedono laggiù in alto due navi. Potrebbero essere da guerra.
Fummo in cinque da un signore che ci volle a forza in casa sua, e vi desinammo. Che gentilezza d’uomo in quest’isola solitaria: ma che ingenua ignoranza delle cose d’Italia! Egli non ci tenne nascoste le sue figliuole, che ci guardavano ansiose e ci parlavano come a conoscenti antichi.
— Di dove siete? chiedeva il loro babbo a D...
— Genovese.
— E voi? volgendosi a C...?
— Da Milano.
— Ed io da Como — rispondeva senza aspettare d’essere interrogato R... che ha la testa come uno di quegli angeloni ricciuti e paffuti, che si veggono scolpiti, coll’ali aperte, ai corni degli altari.
— Che bei paesi devono essere i vostri! Ma perchè siete vestiti così da paesani? Via, dite la verità, siete soldati piemontesi. No? E allora come avete fatto a vincere tanti Napoletani? Passarono di qui che era una pietà a vederli. Non arriveranno a Palermo la metà.
Poi il discorso cadde sulla guerra dell’anno scorso. Quel signore pareva nato ieri. Credeva appena che Vittorio Emanuele fosse davvero al mondo. Intanto s’era bevuto, e qualcuno menzionò Ciullo d’Alcamo, e la dolce canzone, e si parlò, anche di Bari, di Puglia, e della sfida di Barletta. L’ospite trasecolava a sentirci parlare di tante cose: non ci voleva più lasciar uscire; e quando potemmo andarcene senza disgustarlo, le sue figliuole ci porsero la mano. Baciammo rispettosi e timidi, e ce ne venimmo via con un po’ di scompiglio nel cuore.
Il tuono brontolava cupo di là dai monti; tutti si affollavano giù al mare, credendo che fosse il rombo del cannone. «Palermo è insorta, corriamo a Palermo!». Ma poi sovra i monti si levarono certi nuvoloni scuri, un temporale che svanì.
Si diceva misteriosamente, dall’uno all’altro, che il Generale ha perduto la speranza di riuscire contro i trentamila soldati che il Borbone ha nell’isola; che la nostra colonna sarà disciolta; che ognuno sarà lasciato libero di cavarsi come potrà da questo passo. L’annunzio fu un lutto. Ma era una falsa voce, o forse un gioco che ci viene dal nemico.
Quel frate che ci segue sin da Salemi, vuole spandere un’aura di religiosità sopra di noi. Lo vidi poco fa partirsi per tornare a Calatafimi. «Colonnello Carini, disse passando al mio Comandante, domani dirò messa sovra un avello tricolorato! Dopo tornerò con voi».
Alcuni che rimasero addietro, per ferite leggere toccate a Calatafimi, ci raggiunsero qui. Narrano le sofferenze dei nostri compagni ricoverati a Vita. Non si sa come, le piaghe ingangreniscono; i medici si struggono intorno ai sofferenti, ma la morte li toglie loro di mano. Francesco Montanari da Mirandola, quell’amico del Generale che celiava con lui a Talamone, è morto dei primi.
E se è vero, capisco le parole che disse il frate partendo per Calatafimi, fa un’ora. Mi fu detto che i nostri morti giacciono ancora insepolti sui colli del Pianto Romano!
18 Maggio. Tra Partinico e Burgeto.
Era meglio rompersi il petto, ma varcare la montagna, scansare Partinico.
Si saliva l’erta su cui sorge il villaggio, e il po’ di vento che rinfrescava l’aria ci portava già a ondate un fetore insopportabile. Appena in cima, ci affacciammo alla vista della città, arsa gran parte e fumante ancora dalle rovine. La colonna da noi battuta a Calatafimi s’azzuffò cogli insorti di Partinico, gente eroica davvero. Incendiato il villaggio, i borbonici fecero strage di donne e di inermi di ogni età. Cadaveri di soldati e di paesani, cavalli e cani morti e squarciati fra quelli. Al nostro arrivo, le campane suonavano non so se a gloria o a furia; le case fumavano ancora; il popolo esultava per quelle ruine; preti e frati urlavano frenetici evviva. Le donne si torcevano le braccia furenti; e intorno a sette od otto morti, rigonfi e bruciacchiati, molte fanciulle danzavano come forsennate a cerchio tenendosi per le mani e cantando. Quei morti erano soldati. Il Generale spronò tirando via e calandosi il cappello sugli occhi. Noi tutti dietro lui, assordati e scontenti. Ora siamo lontani, ma le campane suonano ancora. Sono le quattro e mezzo. Vorrei che stanotte si stesse qui tra questi oliveti. Non vorrei perdere di vista il golfo di Castellamare, che, mentre il sole andrà sotto, dovrà parere chi sa che Paradiso di colori.
19 Maggio. Passo di Renna.
Ieri Burgeto mi parve un aguato. Dalle case bieche, mezzo nascoste tra gli olivi giganti, i paesani ci guardavano muti, come una processione di spettri. Ho notato una cosa. Se un popolo ci accoglie con gioia, l’altro che troviamo subito dopo ci sta contegnoso e freddo.
Passammo.
Per una via scavata nella montagna arida, traversammo una gola, dove ci fu sopra il vento freddo del crepuscolo, a minacciarci una brutta nottata. Sul tardi riposammo su questa montagna. Un vero anfiteatro. Quando si giunse eravamo stanchi, stanchi assai. Da Alcamo a questo, che si chiama Passo di Renna, corrono molte miglia. Ma noi le abbiamo percorse senza contarle, anzi si cantò sino a Partinico. Là cessarono i canti e l’allegrezza.
Non ho più dormito come stanotte, da quando lasciai le panche della scuola. La testa sulla sacca, la sacca sovra una pietra, il corpo supino lungo il margine della via. Ma stamane che gioia! Alla punta del giorno, la banda di non so che villaggio vicino venne a svegliarci, suonando un’aria dei Vespri siciliani. Io balzai, corsi sulla rupe più alta, questa dove scrivo, e il mio sguardo si perdè nella Conca d’oro. Palermo! Era laggiù incerta tra la nebbia e il mare. Si vedevano le navi lungo la rada, tante come se vi si fossero date convegno tutte le marinerie d’Europa, per vederci il giorno in cui piomberemo improvvisi sulla città. O cacciatori dell’Alpi benedetti!
Tutti corrono ad una grande cisterna là in fondo, e si lavano i panni e le persone. Come una scena della Bibbia nelle valli di Siria.
Dimenticavo che ieri sera verso le dieci, mentre ci eravamo appena accampati e accendevamo i fuochi, alcuni signori palermitani, venuti traverso a chi sa quanti pericoli, capitarono quassù. Io li vidi, quando si incontrarono col colonnello Carini. Egli che torna in patria, coll’armi in pugno, dopo dieci anni d’esiglio, e quei signori amici suoi d’antico, si abbracciarono d’affetto, dicendosi cogli occhi e coi singhiozzi un mondo di cose. Poi intesi da loro che in Palermo tutto è pronto che appena saremo alle porte, la cittadinanza irromperà dalle case, a sopraffare i ventimila soldati che tengono la città. E narrarono ancora che la polizia vuol dar a credere al popolo che noi siamo saccheggiatori, l’ira di Dio, come si dice qui. Parlavano dei birri. Ah! i birri di Palermo debbono essere una gran laidezza. A sentire quei signori, i birri si vantano che uno di questi giorni dovranno far un eccidio di patriotti; e le trecce delle dame palermitane, dicono di volerle a far cuscini per le loro mogli.
Dei soldati si sa che portarono da Calatafimi un’impressione profonda. Ne sono ancora sbalorditi, ma si tengono compatti e fedeli al Re. Di noi, del continente, di quel che fuori dell’isola si sa sulle operazioni nostre, sulla nostra vittoria, nulla.
Prima di partirsi da noi, quei signori ci vollero baciare, e ci diedero convegno a Palermo, nelle loro case. Benedini dottore tirò fuori il taccuino, e alla luce del fuoco ne volle scrivere gli indirizzi.
«Che fate? sclamò uno di loro afferrandogli la mano, quelle cose lì si tengono a memoria!»
Previdenti i Siciliani, ed esperti nelle cospirazioni!
Nessuno di noi avrebbe pensato al pericolo in cui uno può essere posto, per un indirizzo trovato indosso ad un altro. Terremo a memoria quello di quei signori e li cercheremo; purchè nel ritorno non siano caduti in mano dei regi.
Il tenente colonnello Tuköry cavalca su e giù per la strada, esercitando un morello, che non tocca la terra da tanto che è vispo. Giovanissimo per il suo grado, quest’ufficiale mi parve l’immagine viva dell’Ungheria, sorella nostra nella servitù. La sua faccia, d’un pallido scuro, è fina di lineamenti e illuminata da un par d’occhi fulminei e mesti. Egli era a quelle battaglie di dieci anni or sono, i cui nomi strani ponevano a me fanciullo uno sgomento indicibile in cuore. Vide i reggimenti italiani al servizio dell’Austria dare il colpo di grazia alla patria sua. Ma l’amore di quella generosa nazione per noi sopravvisse. Soltanto non sappiamo quanto la nostra guerra fortunata dell’anno scorso, le sia stata funesta. Essa ha qui due rappresentanti degni, Tuköry e Türr, oltre a due gregari; quel selvaggio che vidi a bordo e il sergente Goldberg della mia compagnia, soldato vecchio, taciturno, ombroso, ma cuore ardito e saldo. Lo vedemmo a Calatafimi!
Ho saputo di Tuköry che fu aiutante del generale Bem; che è un vero ingegno militare e che ha menato vita d’esule a Costantinopoli, dal quarantanove in qua, onoranda come quella di tutti i nostri fuorusciti del ventuno, primavera sacra d’Italia.
Tra poco saremo alla pioggia. «Fortunato chi potrà avere un cantuccio laggiù, nel Ministero della guerra!», disse Giusti, un astigiano sempre gaio d’umore, come gli corresse pel sangue il vino de’ suoi colli. Il Ministero della guerra poi, è una carrozza mezzo sconquassata, che ci viene dietro menando l’Intendenza, le carte e il tesoro militare, a quel che intesi un trentamila franchi. Ma in quella carrozza ve n’hanno due dei tesori; il cuore di Acerbi e l’intelletto di Ippolito Nievo. Nievo è un poeta veneto, che a ventott’anni ha scritto romanzi, ballate, tragedie. Sarà il poeta soldato della nostra impresa. Lo vidi rannicchiato in fondo alla carrozza, profilo tagliente, occhio soave, gli sfolgora l’ingegno in fronte: di persona dev’essere prestante. Un bel soldato.
E là cinque grandi botti di vino, e sigari a ceste, e un monte di ferraioli, mandati da non so che Municipio, per coprirci e scaldarci. Carità!
20 Maggio. Passo di Renna.
Cadde acqua tutta la notte. Raccolti attorno a un gran fuoco, ci riparavamo alla meglio, ascoltando i racconti dei Siciliani, su questo luogo di mala fama. Un ammazzatoio. Chi arriva ad uno degli imbocchi del passo di Renna, prima di avventurarvisi si segni e pensi mesto a casa sua. La testa d’un masnadiero potrebbe apparire tra qualcuna di queste rocce irte, e tra le foglie dei fichi d’India balenare spianata una carabina. Sovente i malfattori fanno brigata, si piantano qui; e allora chi capita si raccomandi a Dio. Quelli sono giorni di grasso, l’oro non basta, vogliono il sangue.
Il colonnello Carini che parla con tanto garbo, narrava anch’egli le storie dei masnadieri cavallereschi, che tennero passo in questa Conca. Io mi sforzava per tenere gli occhi aperti, sebbene non potessi reggere dal gran sonno, ma i più si addormentarono. Quando se ne avvide, Carini si tirò il mantello sul capo e sorridendo disse: «Come Mazzeppa, nell’ultimo verso del poema di Byron».
Odo dire che su d’un certo monte, di cui non mi riesce scrivere il nome, si adunano a migliaia i Siciliani sotto il La Masa. Fosse vero! Perchè sino ad ora siam pochi, e ancora mancano i buoni che abbiam perduti a Calatafimi.
21 Maggio. Sopra il villaggio di Pioppo.
Grande allegrezza ieri sera verso il tramonto! Ci fecero levare il campo all’improvviso, e si susurrò che si andava a Palermo. Discendendo per la via che serpeggia, con isvolte strette, sin laggiù dove comincia la Conca d’oro, femmo la più gaia camminata che sia mai stata. Doveva venire una notte così piena d’avventure! A un tratto ci fermammo. — Che c’è? — Nulla. Si ha a dormire qui. — Come si chiamano queste quattro casupole? — Pioppo. — E seguitando per questa via, dove si va? — Prima a Monreale, poi a Palermo. — Tanto valeva restare al Passo di Renna — mugolò G... che trova sempre a ridire su tutto. Ma entrò anche lui colla compagnia sotto quel gran portico, dove fummo chiusi come una greggia. Ci coricammo e zitti.
Prima dell’alba, eravamo già su, colle armi in ispalla. Un’alba così bella, che uno, avrebbe voluto disfarsi per andar confuso in quei colori di cielo e in quelle fragranze.
Alla nostra sinistra, avanti, verso Monreale, sui colli di San Martino, si udiva una moschetteria fitta, crescere, avvicinarsi; poi vedemmo il fumo, e i nostri combattere indietreggiando pei greppi. I borbonici usciti da Monreale gli avevano assaliti, e tentavano di girare la nostra sinistra, spingerci per i monti al Passo di Renna. Riuscendo ci avrebbero schiacciati.
— Che oggi si debba avere la peggio? — dicevamo noi.
Passarono alcune Guide di galoppo, tornando di verso Monreale. — «Che c’è di brutto?» — «Nulla.» —
Passò il Generale collo Stato Maggiore di mezzo trotto; e la moschetteria lassù continuava. Quelli che si ritiravano pel monte, lenti, ostinati, erano i Carabinieri genovesi. Ma più in là, anche oltre il colle, dove essi facevano quella bella resistenza, si combatteva. Chi era là? Qualche nostra compagnia staccata? O qualche squadra d’insorti? Non si sapeva nulla.
Intanto il sole era già alto e cocente, e noi un po’ avanti, un po’ indietro, sostando, movendo, collo spettacolo negli occhi di una fila di muli tardi che portavano le barelle per i feriti, durammo un’ora in quel passo, finchè tornammo qui allo sbocco del Passo di Renna, senza aver avuto molestia. Schioppettate non se ne sentono più. Due dei nostri cannoni, piantati là sul ciglio, guardano Pioppo e il campo che i regi hanno messo laggiù negli orti, numerosi e ordinati.
Di qui veggo Palermo e la mole immensa, verde, su Monte Pellegrino. Quelle linee bianche, sfumate su per quei dossi, devono essere muriccioli di riparo a qualche via che mena sul culmine. Vi è una pace in tutto quel che appare laggiù, un silenzio così profondo in tutta quella vita, che si indovina a guardare. Eppure siamo aspettati.
Eccolo tornato il frate che partiva da Alcamo, per andare a dir messa sul campo di Calatafimi. Cavalca una vecchia giumenta, sicuro in sella, come uno che sotto la tonaca, vestisse da soldato: è lieto, è giovane, si chiama fra Pantaleo da Castelvetrano. Anche un frate non è di troppo tra noi; dà risalto al nostro piccolo campo. Salvator Rosa avrebbe pagati un occhio que’ sette, che combatterono a Calatafimi. Forse, buttata la tonaca, sono ancor quì.
Dianzi, mentre me ne andava giù, cantando un’arietta da cacciatori, a portare un ordine del mio capitano, incontrai un picciotto armato, che mi fermò gridando: «Quì si canta e lassù si muore!» E mi narrò, che nel combattimento di poche ore prima, era morto Rosolino Pilo lassù; e mi additava i colli sopra Monreale. Morto d’una palla nel capo, mentre scriveva due righe per Garibaldi. Quel povero picciotto piangeva, narrandomi il fatto; e come capi alla parlata che io non sono siciliano, mi chiese mille perdoni per avermi fermato. Mi pregò di alcune cartucce, ma io, delle undici che mi rimangono non ne volli donare, e lo lasciai la incerto e mortificato.
22 Maggio. Parco.
Mentre i miei panni stanno asciugando al fuoco, scrivo colla testa intronata dalla gran fatica di questa notte. La padrona di casa, buona vecchierella, che ci accolse compassionandoci con atti e voci da madre, cuoce un po’ di maccheroni per noi, sfiniti dalla fame.
Ieri, sino a sera, un tempo di Dio, bello e tranquillo: ma quando ripigliammo le armi, il cielo parve corrucciarsi. Il sole era tramontato. Si partì. — Almeno questa volta si andrà davvero a Palermo! — No, si va a San Giuseppe. — E dov’è San Giuseppe? — Qui a destra, oltre i monti parecchie miglia. —
Fatti pochi passi per la strada militare, si arrivò ad una casetta solitaria, scura, mezzo ruinata, casa da ladri. Là ci si faceva uscir dalla strada, a misura che si arrivava, e infilavamo un sentiero angusto e sassoso. Dinanzi alla casetta, due uomini si sbracciavano a cavar pani da grossi cestoni, e ne davano tre a ciascuno di noi che passava. Era come a ricevere tre punte nel cuore. Dunque dovremo camminare i monti deserti per tre giorni? E questi pani come portarli? Inastammo le baionette, e gli infilzammo l’uno sull’altro. Lo schioppo, così equilibrato, rompeva le spalle.
In quel momento, mi toccò il dolore di vedere Delucchi da Genova seduto su d’una pietra, abbracciandosi le ginocchia, tormentato da un malore che gli toglieva le forze. «Torna indietro ai nostri carri, gli dissi, in qualche luogo ti meneranno. Che vuoi fare qui? Noi non ti si può portare: fra mezz’ora saranno passati tutti, verrà la notte e rimarrai solo». Lo aiutai a levarsi, e lento s’avviò verso la coda della colonna, guardando noi che pareva gli portassimo via il cuore. A pensare che potrebbe essere caduto in mano ai regi...! Ma spero che avrà raggiunto i carri e che sarà in salvo.
Colla prima oscurità, cominciò la pioggia a darci nel viso i suoi goccioloni grossi e impetuosi: parevano chicchi di grandine che ci si spezzasse sulle guancie. Il vento era freddo; dinanzi a noi, la terra e l’aria furono presto come a entrare in gola a un lupo. Tuttavia il tenente R... camminava a cavallo da disperato. Ma un tratto una schioppettata, scaricatasi per disgrazia a uno della mia compagnia, lo fece rotolare a terra. La toccò appena come un gatto, e si rizzò, balzando su senza dire una parola. Era illeso. Ma la sua povera bestia aveva una gamba spezzata. Passammo lasciando R... a dolersi sull’animale che strepitava nell’oscurità.
Ci avanzammo alla meglio, tastando la terra cogli schioppi, come una processione di ciechi. Il buio non poteva più crescere; il sentiero veniva mancando; camminavamo da due ore, non si era fatto un miglio: e non uno che potesse dire di non aver ruzzolato in quel macereto.
— Animo! Issa! Da bravi!»
Così sentimmo susurrare, arrivando a un punto, dove un viluppo d’uomini si affaccendava con corde e stanghe. Volevano tirar su da un pantano quella colubrinaccia sciagurata che portammo da Orbetello. «O lasciatela a giacere lì per sempre, che tanto, se capita di scaricarla, scoppia e ci ammazza mezzi!». Così stava per gridare in un impeto di buon umore, ma la parola mi rientrò. In quel gruppo v’era il Generale, vi era Orsini, vi era Castiglia, occupati a far portare a dorso d’uomini tutta la nostra artiglieria. Udii il Generale incaricare Castiglia di provvedere al trasporto di quella roba, a qualunque maniera; poi il gruppo si diradò, e tornammo a camminare per quelle tenebre.
Volgendoci a guardare addietro, vedevamo i fuochi del campo di Renna, vivi come se ancora vi fossimo stati noi a goderli: sulla nostra sinistra, giù nella profondità, splendevano altri fuochi allineati, il campo nemico presso Pioppo: dinanzi a noi, lontano, lontano, un gran disco di luce immobile, come un occhio sovrannaturale che ci guardasse, splendeva, forse acceso a posta, per dare la direzione alla nostra marcia.
E la pioggia non cessava. Eravamo fracidi fino alla pelle: e il vento colle sue buffe portava dalla testa della colonna un nitrito, che pareva uno scherno. Verso mezzanotte si udì un colpo d’arma da fuoco, che scosse tutti sino all’ultimo della fila. «Ah! almeno sarà finita!» sclamò qualcuno, immaginando che la vanguardia si fosse imbattuta nei nemici. Sarebbe stata una sventura, in quel buio, così malconci. Ma va, va, tira innanzi, non si udì più nulla, si cadeva, si tornava ritti, e nessuno si lagnava. Che cosa era stato quel colpo? Trovammo un cavallo disteso morto sul margine del sentiero, e si disse che era di Bixio: il quale irato, perchè coi nitriti poteva scoprirci al nemico, gli aveva scaricata nel cranio la sua pistola. Byron, sempre Byron! Lara l’avrebbe fatto anche lui.
Verso l’alba passammo vicino a quel disco di luce, che era la bocca di una fornace. Dinanzi a quella bocca, una figura alta e nera stava a guardarci. Forse era un inconscio attizzatore; ma mi piace di immaginarmi che fosse uno messo a posta, a tenerci viva quella fiamma, come la colonna di fuoco agli Ebrei del deserto.
Alla prima luce la pioggia cessò. E vedevamo Palermo lì innanzi, e Monreale appena lontano quanto è larga la Conca d’oro. Guardandoci tra noi avevamo facce di spettri: i panni laceri e fangosi: molti erano quasi a piedi nudi. Stanchi, sfiniti, se ci fosse capitata addosso una compagnia ci avrebbe disfatti.
Discendemmo a questo piccolo villaggio che si chiama Parco.
I Carabinieri genovesi instancabili, si sacrificano e vegliano fuori negli orti, perchè noi si riposi tranquilli. Per la piazza ampia, pare un incendio o un inferno. Tutti asciugano i loro panni stando mezzo nudi. Non una finestra aperta.
Non si sa dove sia il Generale, ma Egli veglia per tutti.
22 Maggio. Ancora a Parco.
Mi son fatto un amico. Ha ventisette anni, ne mostra quaranta: è monaco e si chiama padre Carmelo. Sedevamo a mezza costa del colle, che figura il Calvario colle tre croci, sopra questo borgo, presso il cimitero. Avevamo in faccia Monreale, sdraiata in quella sua lussuria di giardini; l’ora era mesta, e parlavamo della rivoluzione. L’anima di padre Carmelo strideva.
Vorrebbe essere uno di noi, per lanciarsi nell’avventura col suo gran cuore, ma qualcosa lo trattiene dal farlo.
— Venite con noi, vi vorranno tutti bene.
— Non posso.
— Forse perchè siete frate? Ce n’abbiamo già uno. Eppoi altri monaci hanno combattuto in nostra compagnia, senza paura del sangue.
— Verrei, se sapessi che farete qualche cosa di grande davvero: ma ho parlato con molti dei vostri, e non mi hanno saputo dir altro che volete unire l’Italia.
— Certo; per farne un grande e solo popolo.
— Un solo territorio...! In quanto al popolo, solo o diviso, se soffre, soffre; ed io non so che vogliate farlo felice.
— Felice! Il popolo avrà libertà e scuole...
— E nient’altro! — interruppe il frate: — perchè la libertà non è pane, e la scuola nemmeno. Queste cose basteranno forse per voi Piemontesi: per noi qui no.
— Dunque che ci vorrebbe per voi?
— Una guerra non contro i Borboni, ma degli oppressi contro gli oppressori grandi e piccoli, che non sono soltanto a Corte, ma in ogni città, in ogni villa.
— Allora anche contro di voi frati, che avete conventi e terre dovunque sono case e campagne!
— Anche contro di noi; anzi prima che contro d’ogni altro! Ma col Vangelo in mano e colla croce. Allora verrei. Così è troppo poco. Se io fossi Garibaldi, non mi troverei a quest’ora, quasi ancora con voi soli.
— Ma le squadre?
— E chi vi dice che non aspettino qualche cosa di più?
Non seppi più che rispondere e mi alzai. Egli mi abbracciò, mi volle baciare, e tenendomi strette le mani, mi disse che non ridessi, che mi raccomandava a Dio, e che domani mattina dirà la messa per me. Mi sentiva una gran passione nel cuore, e avrei voluto restare ancora con lui. Ma egli si mosse, salì il colle, si volse ancora a guardarmi di lassù, poi disparve.
È sera, e ancora non pare che il nemico sappia che sia stato di noi. Deve esservi gran confusione nel campo borbonico. Ci hanno perduti di vista, e nessuno dice loro dove siamo. Gloria a questo popolo; non ha dato ai nemici una spia!
23 Maggio. Sopra Parco. Dopo mezzodì.
Alla fine l’han saputo dove eravamo, e nella notte i borbonici si sono avvicinati. All’alba, in fretta in furia, fummo messi in movimento e salimmo quassù. Un buon braccio potrebbe scagliare una pietra di qui sui tetti di Parco. Abbiamo sotto di noi il Calvario e il cimitero a mezza costa; veggo le pietre sulle quali sedemmo ieri, con frate Carmelo. Quel monaco mi ha lasciato un non so che turbamento; vorrei rivederlo.
Staremo a campo qui, tutto il giorno, e forse anche domani. Che cosa si attende? Che significa questo aggirarsi intorno a Palermo, come farfalle al lume?
Maestose le rupi che abbiamo a ridosso e a destra. Indescrivibile la vista di faccia. Chi nasce qui non si lagni d’essere povero al mondo, che anche con una manata d’erba è un bel vivere, se si hanno occhi per vedere e cuore per sentire.
È giunto un giovane gentiluomo Palermitano, che all’aspetto crederei fratello del Colonnello Carini. Alto, biondo, robusto come lui. Si chiama Narciso Cozzo. Venne ben armato e ci seguirà, mettendosi nella mia compagnia. Anch’egli parla della città impaziente, è pronta ad insorgere. Se la gioventù di Palermo è del suo sentire, non v’ha dubbio che non ci attenda il trionfo.
Coi cannocchiali si scoprono grossi drappelli di soldati, accampati sotto le mura di Palermo. A vederli muoversi in quel silenzio laggiù, uno dice: «Ma non verranno essi un dì o l’altro ad assalirci?».
Una colonna di regi si avanza cauta, per la pianura, sino alle falde del monte che abbiamo a destra, diviso da noi solo dal letto asciutto d’un torrentello gramo. Dalla altissima vetta della montagna si udì uno straziante grido d’allarmi, e un gran fumo montò nero dal culmine, nell’aria pura e calda del tramonto. Noi pigliammo le armi. Ed ecco laggiù, laggiù, dove la pianura finisce, cominciarono le schioppettate.Una squadra d’insorti, appiattati tra le rocce, faceva testa ai regi, che tentavano guadagnare la falda del monte. Garibaldi stette un po’ a guardare, poi fece discendere Bixio colla sua compagnia fino al cimitero lì sotto a noi; e comandò a Carini di occupare la vetta di questo colle, che, disse, sarebbe luogo di grande combattimento. Noi eravamo pronti; la scaramuccia laggiù si faceva via via più viva; sulla rupe lassù quel fumo si alzava ancora, ma sottile e bianco.
Le schioppettate a un tratto si diradarono, e la colonna che voleva forzare quella squadra di insorti indietreggiò per i campi; poi disparve nel fitto di aranci e di olivi che si stende fino a Palermo.
Si fa notte. Sovra ogni vetta di questo immenso semicerchio, si accendono fuochi fino a Monte Pellegrino; tanti, che pare la notte di San Giovanni. E Palermo li vede, e forse spera che questa sia l’ultima notte della sua servitù.
24 Maggio. Piana dei Greci.
Sulla porta d’un convento, come un mendico! La città sembra desolata dalla pestilenza. Qualche cencioso gironza per le vie e chiede l’elemosina a noi. Il nostro campo è là fuori, ma oggi non allegro come gli altri giorni.
Stamane mi destai che tutti si alzavano, e in quella luce crepuscolare, pareva la risurrezione dei morti.
In fondo all’orizzonte quietava il mare plumbeo. Palermo accennava appena d’essere, contro la massa scura di Monte Pellegrino; e in faccia a noi una nebbiolina bianca da Palermo al Pioppo. Quando spuntò il sole alle nostre spalle, rovesciando lunghe per il pendio del monte l’ombre dei nostri corpi, tutto parve provasse un fremito, e ci abbracciavamo tra noi.
La nebbia sfumò. Allora si vide uscire da Monreale una colonna di soldati; avanzare densa e sicura per la via che mena a Pioppo; occuparla tutta quanta è lunga. E non finiva mai, sebbene la testa fosse già entrata nei boschi, per venire a Parco.
A questa volta verranno davvero, si diceva; e intanto i nostri del genio cominciarono a lavorare frettolosi, per costruire una batteria. Le compagnie furono schierate sulla strada.
Si aspettava in silenzio, e pareva di sentire il passo di quella schiera infinita.
La moschetteria cominciò laggiù sotto Parco. Sostennero il primo urto i Carabinieri genovesi: ma mentre tutto pareva preparato per tener fermo là dove eravamo, passò il Generale collo Stato Maggiore, colle Guide, di galoppo, un turbine, e noi subito dietro di loro a passo di corsa.
Si camminava così a rotta un tratto, poi si rallentava un poco, poi si ripigliava. Vidi molti per l’affanno buttarsi a terra disperati, altri piangevano dal dolore: qualcuno narrava che i borbonici, incendiato Parco, e rotti i Carabinieri genovesi, ci venivano alle spalle furiosi colla cavalleria, e che presto ci sarebbero stati addosso. S’aggiungeva che il nerbo di quella colonna sono Bavaresi, mercenari briachi, che vogliono farla finita. La ritirata era un lutto, e quasi pareva una fuga.
La strada che da Parco conduce qui alla Piana dei Greci, serpeggia lungo tratto in mezzo a montagne scoscese. Divorammo quel tratto sin dove, cessando di salire, la strada porta piana a scoprire questa città in seno alla valle. Trafelati, sfiniti dal digiuno, arsi dal sole, riposammo cogli occhi in questo fondo; ma a un punto stavano tre Guide a cavallo, piantate in mezzo alla via, e arrivando là ci fecero pigliare a destra il monte grigio, squallido, a petto. Altre Guide appostate su per i greppi, gridavano, per animarci, che il Generale era in pericolo: e noi a salire, a salire verso la vetta, donde s’udiva una tromba suonare la diana con angoscia.
Arrivammo a cinque, a dieci, come si poteva: il Generale era lassù da un pezzo. In faccia, su d’un altro monte, quello che sovrasta il nostro campo di ieri, i cacciatori napoletani schierati sparavano contro di noi, e i loro proiettili ci fischiavano sopra come serpenti. Alcuni Carabinieri genovesi rispondevano a quel fuoco; noi, coi nostri schioppi inutili, stavamo a guardare.
Durò quel gioco di schioppettate forse un’ora; poi i cacciatori napoletani cominciarono a ritirarsi, e sparirono di là dalla cresta della montagna.
Allora ci ritirammo noi pure, per la stessa via fatta a salire, augurando a monte Campanaro che possa sprofondare tanto giù nell’abisso, quanto sorge alto e sfacciato nell’aria.
Si dice che il generale nemico avesse ideato di varcare i due monti, sperando di far a tempo, occupare Piana dei Greci prima che noi vi arrivassimo, e di qui ributtarci, perseguitandoci fino a Palermo. Ma Garibaldi lo prevenne con miracolosa prontezza. Ora si pensa che smessa l’idea, ci verrà dietro, per la strada militare, percorsa da noi quasi fuggendo.
Ho inteso che alcuni dei nostri rimasero prigionieri al Parco, e che uno d’essi è Carlo Mosto, fratello del Comandante dei Carabinieri. Pare che sia anche ferito, e si teme che tutti saranno fucilati!
Marineo, 25 Maggio.
I frati della Piana dei Greci furono cortesi. Ci diedero pane, cacio, vino e sigari, ne avessimo voluto. E ci fecero visitare il convento, e le sale dove i loro morti se ne stanno addossati alle pareti, come gente che dorma, o preghi sprofondata nel pensieri dell’altra vita. Da quei luoghi lugubri udimmo suonare a raccolta, e volando fummo al campo. Le compagnie erano già in fila, e l’artiglieria si era mossa la prima. «Arrivano i regi, saranno diecimila!». Così si diceva dall’uno all’altro, e si capiva che la nostra ritirata era decisa di nuovo. Dove si finirà? — Ma... forse a Corleone dove ci porterà la strada percorsa dall’artiglieria. — In questi discorsi ci ponemmo in marcia che il sole andava sotto.
Era già quasi notte, quando, abbandonata la strada militare, ci posero per sentieri angusti, in mezzo a un bosco, zitti, umiliati, pieni di malinconia. Verso le dieci fummo fermati, e ci si comandò di coricarsi ognuno dove si trovava; vietato il fumare, il parlare, il muoversi. Mi coricai accanto ad Airenta, guardando un gran fuoco che brillava lontano nei monti; e quella vista mi ridestò la memoria dei fuochi, che s’accendono nelle mie valli, la vigilia delle sagre. Provai una passione dolcissima, e in essa mi addormentai.
Quando mi destai era l’alba. Le compagnie si ordinavano silenziose. Seppi che nella notte i regi che c’inseguono, passarono poco discosti, per la strada militare; e che le nostre sentinelle gli hanno veduti. Vanno innanzi sicuri e fidenti di raggiungerci, e ci hanno alle spalle. Ora si comincia a capire la nostra ritirata di ieri, e l’allegrezza rinasce.2
Ebbi la fortuna d’un polizzino d’alloggio. Quando mi presentai, la vecchierella che doveva essere mia ospite, tremava come una foglia di pioppo. Io per non farle paura me ne tornavo rassegnato, e allora si impietosì, e quasi piangendo mi pregò d’entrare in una cameruccia, dove non era che una sedia e un canile. Di là dall’assito grugniva il maiale.
— Perchè tremavate?
— Signorino, tengo una picciotta!
— Ebbene? Ho madre e sorelle anch’io.
— Voi, madre e sorelle? E dove sono?
— Lontane, lontane più di cento miglia.
— Meschine!
E prese tanta confidenza a discorrere, che dovei pregarla di lasciarmi solo. Stava per gettarmi sul giaciglio, quando intesi un cinguettìo sommesso. Corsi alla porta, curioso di vedere la giovinetta. Era una fanciulla sbocciata appena.
— In quella camera io non ci dormo più! diceva risoluta a sua madre. Allora io pigliai lo schioppo e la sacca, e me ne venni via difilato senza dir nulla.
Mezzo nudo e mezzo coperto di pelli come un selvaggio, smunto, colla fame nelle guance e colla passione negli occhi, il povero giovinetto ci moriva addosso di voglia stando a guardarci schierati fuori del borgo.
— Come ti chiami?
— Cicio.
— Che cosa fai qui?
— Sono venuto con voi dalla Piana dei Greci.
— E dove vai?
— Con voi.
— Così scalzo e malandato?
Si mise a sedere e non rispose. Gli trovammo da coprirsi e da calzarsi, e così rifatto lo pigliammo con noi. Allora, allegro che parve un altro, avrebbe voluto uno schioppo; dopo mezz’ora conosceva già tutta la compagnia e ci chiamava a nome.
— T’insegneremo a leggere e a scrivere.
— Oh!... signorino, non ne sono degno.
25 Maggio. Sui monti di Gibilrossa.
Questo nome di Gibilrossa mi si accozza alla mente con quello di Gelboe, e mi fa parere tragico tutto quanto veggo d’intorno. Vorrei avere una Bibbia, per leggere quel canto dove è pregato, che mai più rugiada bagni i colli di Gelboe maledetti.
Malinconie fuori di luogo, perchè le nostre venture volgono a bene, e queste alture dovremmo benedirle. Tuttavia sarà prudenza non istarvi a lungo. Ci finiremmo tutti o disseccati dal sole, o pazzi. Pare d’avere in capo una cuffia di fuoco.
Dov’è andato il venticello fresco di ieri sera? Partimmo da Marineo all’improvviso che erano le sei. Sulla montagna suonavano le voci dei pastori, che raccoglievano le capre.
Eravamo fuori del borgo ad aspettare di essere messi in marcia. Passò il Generale a cavallo, e il capitano Ciaccio comandò di presentare le armi. Il Generale fece un atto di stizza, come a far capire che non era tempo di cerimonie.
Pigliammo la via che scende da Marineo nella valle profonda. Si camminava lenti e quetamente; alcuni gruppi cantavano a mezza voce. Solo un Friulano, confuso nella settima compagnia, cantava alto con una voce d’argento, quattro versi d’un’aria affettuosa e dolente, che andavano al cuore.
|
Uscii dalle file e mi avanzai fino a quel cantore, immaginandomi che dovesse essere un Osterman da Gemona, amico mio dell’anno scorso. Invece era uno studente di matematica, che si chiama Bertossi da Pordenone.
— Bertossi! Era a San Martino in un reggimento piemontese?
— Sì, mi rispose il compagno che interrogai.
— Allora deve essere quello, che pel suo valore fu fatto ufficiale, sul campo di battaglia?
— È quello, ma non lo dire; perchè se lo sapesse se ne avrebbe a male.
— Perchè?
— Perchè è fatto così!
Guardai quel giovane che ha vent’anni, e, alla barba nera e piena, pare di trenta. Stentava a credere che con quella fisionomia severa fosse stato lui a cantare, ma i versi del canto non erano indegni di lui.
Che tesori di giovani in quella settima compagnia!
A un tratto, mentre era già buio da un pezzo, la colonna si fermò. Eravamo nel punto più basso della valle; si bisbigliò che la vanguardia aveva incontrato il nemico; ma per fortuna non era vero, che se mai eravamo schiacciati. Ripresa la via, uscimmo presto dalle sinuosità paurose di quel terreno, e innanzi a noi, in alto, vedemmo una miriade di luci. Era Missilmeri illuminato, a quell’ora, per farci festa. A mezzanotte vi entrammo. Non vi era casa che non avesse un lume ad ogni finestra, ma gente per le vie poca. Si seppe di La Masa e delle squadre da lui raccolte quassù numerose, e ci parve di poter riposare tranquilli.
All’alba ci raccogliemmo, e ci fu detto che entro un’ora si sarebbe pigliata la montagna, per venire qui a campo.
Entrai in un bugigattolo per bere una tazza di caffè e vi trovai Bixio d’un umore sì nero, a vederlo, che me ne tornai indietro. E andai sulla piazza, dov’era un acquaiolo che andava dondolando la sua botticella come una campana, e vendeva bevande ai nostri che gli affollavano il banco. Egli guardava quei che bevevano con certi occhi, con certo riso, che mi pareva volesse avvelenare i bicchieri. M’allontanai anche di là, e incontrai il giovanetto, che conducemmo con noi da Marineo, trionfante con una scodella di latte per me. Mi porse quel latte, colle mani che gli tremavano dal piacere di avermelo trovato.
Uno squillo di tromba fece saltar fuori da ogni banda i nostri, dispersi per le case; ci mettemmo in marcia e si venne qui. Si vede a destra un formicolio di gente: sono le squadre di La Masa. A dar un’occhiata intorno, scopriamo tutti i luoghi visitati dacchè partimmo dal Passo di Renna, un giro che par nulla e che ci è costato tanta fatica. Marineo è la, e la sua rupe, a vederla di qui, pare più minacciosa che da vicino. Se si staccasse dal monte rotolerebbe giù sul borgo, sventrandolo come un mostro.
Alfine sappiamo che il mondo esiste ancora! Eravamo nel Limbo da quindici giorni e un po’ di notizie ci parvero luce.
Dunque il Governo di Napoli ci ha battezzati Filibustieri; le sue Gazzette hanno scritto che fummo battuti a Calatafimi; che uno dei nostri capi è stato ucciso; che siamo dispersi e inseguiti, affinchè non ci possiamo buttare alle strade ad assassinare.
Queste notizie ce le hanno portate alcuni ufficiali delle navi americane e inglesi ancorate nel porto di Palermo. Un atto di amicizia che ci ha fatto gran bene. Hanno parlato col Generale, poi si sono messi a girare pel campo. Che strette di mano franche e fraterne!
Uno di loro, giovanissimo, con un par d’occhi d’azzurro marino e due mani rosee di fanciulla, schizzò alla lesta tre o quattro figure dei nostri e quella del colonnello Carini. Aveva già nell’album un capo-squadra di Partinico, che io conobbi e che mi parve un modello da farne uno Spartaco. Gli altri si mescolarono a noi raccogliendo e dando notizie. E si mostravano lieti d’averci trovati gente civile e colta.
Gli abbiamo caricati di lettere, di foglietti strappati qua e là e scritti a matita; saluti, gridi d’affetto, che essi faranno capitare alle nostre famiglie, col primo legno che salperà da Palermo. Si trattennero un’ora. Dissero che la città è una caserma, ma ci hanno fatto sperare nella buona riuscita. Si sa che hanno portato al Generale la pianta di Palermo, co’ segni dove sono barricate o posti di regi. Ora che se ne sono andati, il Generale sta a consiglio coi Comandanti delle Compagnie.
Non più a Castrogiovanni, per attendere rinforzi dal continente: pochi o assai, fra mezz’ora si partirà per Palermo. Bixio lo ha detto: «o a Palermo o all’inferno!»
Il colonnello Carini ha parlato alla Compagnia. Ha detto che domani l’alba sarà gloriosa, ma ci raccomandò di non romperci se saremo caricati dalla cavalleria. Intanto tutte le altre compagnie erano raccolte a circolo, intorno ai loro capitani. Si sciolsero rallegrandosi con alte grida.
Di qui al campo delle squadre, che è più innanzi, un andirivieni di cavalieri continuo. Si dice che i siciliani hanno chiesto d’essere fatti marciare i primi.
31 Maggio. Palermo. Nel Convento di San Niccola.
Tre giorni durò la bufera infernale, che scatenammo sopra Palermo; più di tre giorni! Chi non fu nella lotta deve essersi sentito al punto di venir pazzo. E noi eravamo partiti da Gibilrossa allegri, come ci fossimo incamminati a portar qui una festa!
Ho riveduto, da Porta Sant’Antonino, la montagna da cui scendemmo la sera del 26: e a un dipresso seppi dire il punto dove sostammo, per aspettare la notte. Fu un’attesa solenne. L’allegrezza si era mutata in raccoglimento; pareva che sopra di noi soffiasse uno spirito dall’infinito. Io mi era coricato tra due rocce calde ancora della grande arsura del giorno; e mi sentiva nelle membra un tepore così dolce, che, stando in quella specie di bara, colla faccia rivolta là dove il sole se n’era andato, mi colse un malinconico desiderio d’essere bell’e morto. Poi mi invase una gioia fanciullesca e soave, a pensare che l’indomani doveva essere il giorno della Pentecoste; e mi tornò a mente, confuso ricordo di cose lette da giovinetto, che i Normanni assalirono Palermo appunto la vigilia di quella festa. Gli immaginai giganti coperti di ferro, scintillanti nella tenebrosa antichità, pronti a marciare come eravamo noi, pochi, fidenti, condotti bene; deliziosa mezz’ora di fantasticherie.
Potevano essere le sette pomeridiane, quando ci riponemmo in via, e a notte chiusa, uno dietro l’altro, ci trovammo a scendere giù per un sentiero, appena tracciato di balza in balza. Poco prima, avevamo gridato: «o a Palermo o all’inferno!» e quella ne pareva senz’altro la via. Il cielo era sereno e quieto; vietato il parlare; si aveva fame e sonno. Qualcuno, scivolando, precipitava sul compagno che aveva di sotto, questi sopra un altro, e via, tanto che, otto o dieci, ci trovammo talvolta in un fondo; e fortuna se non ci offendevamo colle nostre armi. Dopo la mezza notte eravamo nella pianura, lontano poche miglia da Palermo. I cani latravano dai casali sparsi per la campagna, e sulla nostra destra sentivamo il rumore del mare. Alcuni lumi apparivano oltre il fitto d’olivi antichi, che spandevano i rami contorti come provassero tormenti; forse erano lumi di pescatori. A sinistra, sulle alture di Monreale, splendevano fuochi innumerevoli; dinanzi a noi, nell’oscurità, udivo il passo pesante della colonna che ci precedeva. «Chi sarà all’avanguardia?» ci domandavamo a vicenda; e pregavamo che fossero i migliori tra noi, i più rotti alla guerra, affinchè potessero giungere improvvisi sui primi posti del nemico e sopraffarli.
A un tratto la colonna lì, dov’ero io, si commove. Si grida: «la cavalleria!». Infatti il suolo ghiaioso ripercuote un galoppo di cavalli. Ci risovvenimmo delle raccomandazioni fatteci nel partire dal campo; ma sì...! uno, due, tre si sgomentano: balenammo, rompemmo le file, e ognuno si gettò come potè nei campi, a ridosso dei muriccioli che facevano riparo alla via, o rimase cavalcioni su quelli. E nella confusione furono sparate alcune schioppettate contro un cavallo bianco, che veniva verso di noi come un fantasma. Povera bestia! portava il capitano Bovi, il quale si fece riconoscere alle grida! Cessammo quello scompiglio; ci rimproverammo tra noi, tremando che quei colpi fossero per mandare guasta ogni cosa; e tirammo innanzi vergognosi del silenzio severo del Colonnello Carini.
Per quei colpi i latrati dei cani crebbero vicini, lontani, infiniti.
Passammo presso un casone immenso, addormentato o deserto; e, di là a pochi passi, entrammo nella strada grande che mena a Palermo. L’aria cominciava a rinfrescarsi per l’alba imminente.
Dai gruppi di case man mano più frequenti, si affacciava la gente paurosa, guatando il nostro passaggio. Ci fu comandato di camminare a quattro a quattro; di tenerci a destra rasente i muri degli orti; poi accelerammo il passo... dalla testa della colonna s’udì una schioppettata, e un all’armi gridato con disperazione: e allora fu un urlo terribile, un fuoco improvviso; un corri corri: «avanti! avanti!» entravamo nel combattimento.
Urtammo in una calca di picciotti: li rovesciammo parte negli orti, e parte li trascinammo con noi.
Uno di questi, signore, forse capo squadra, accusava quelli furente, e veniva via agitando la spada. Ma in quell’ira urlò: «Dio!» girò sopra se stesso, fece tre o quattro passi di fianco come un ubbriaco, e cadde là nel fossato, a piè di due pioppi altissimi, vicino a un cacciatore napoletano morto; forse la prima sentinella sorpresa dai nostri. Li vedo ancora. E odo quel genovese, che in quel punto dove il piombo grandinava, gridò nel suo dialetto: «Come si passa qui?». Gli rispose una palla, cogliendolo in fronte e stendendolo là col cranio spezzato.
Si guadagnò un bel tratto rapidamente, ma al ponte dell’Ammiraglio trovammo una resistenza quasi feroce.
Sulla via, sugli archi, sotto il ponte e negli orti circostanti, strage alla baionetta. L’alba spuntava, tutti si aveva non so che di selvaggio nel volto. Padroni del ponte vi fummo trattenuti da un fuoco terribile, fulminato da un muro, sul quale nel fumo, biancheggiavano i budrieri incrociati d’una lunga fila di fanteria. Lì un cacciatore ferito dava del capo contro al muricciuolo del ponte per fracellarselo: ma Airenta pietoso lo tirò discosto, poi, colla sua calma che non cambia mai, continuò a sparare contro a quella fila. La quale, assalita forse di fianco, spariva; mentre un po’ di cavalleria caricava i nostri a sinistra, e n’era respinta e ricacciata per la campagna. Faustino Tanara, quell’ufficiale dei bersaglieri, pallido, ardito e bello, veniva tempestando con un manipolo da quella parte; con lui, incalzati, incalzando, ci addensammo al crocicchio di Porta Termini, spazzato dalle cannonate d’una nave che tirava a rotta, e dal fuoco d’una barricata di fronte a noi. Come turbine lo avevano già attraversato i più audaci dei nostri, sotto gli occhi di Garibaldi, che vidi là a cavallo, mirabile di sicurezza e di pace in faccia. Gli stava accanto Türr. Tuköry era caduto poco prima ferito; ed io lo avevo udito dir con dolcezza a due che volevano trasportarlo in salvo: «Andate, andate avanti, fate che il nemico non venga a pigliarmi qui». Nullo era già dentro con una mano di bergamaschi, balzato di là dalla barricata col suo cavallo poderoso tra i regi fuggenti; a Porta Sant’Antonino l’assalto riusciva pure: ma noi più fortunati fummo d’un lancio alla Fieravecchia. Allora una campana cominciò a suonare a stormo, e fu salutata con alte grida di gioia, come una promessa tenuta.
«Ma che cosa fanno i Palermitani, che non se ne vede?» chiesi ad un popolano che sbucò da una porta armato di daga.
«Eh, signorino, già tre o quattro volte, all’alba, la polizia fece rumore e schioppettate, gridando viva l’Italia, viva Garibaldi. Chi era pronto veniva giù, e i birri lo pigliavano senza misericordia.»
«Oh!... E i Palermitani ora han paura d’un nuovo tranello?...»
Con quel popolano demmo entro pei vicoli sino a via Maqueda. Là, solitudine e cannonate dall’un dei capi, tirate forse contro un giovinotto che si sfogava a calpestare un’insegna reale strappata giù dal portone d’un gran palazzo. Passammo in un altro vicolo... Dio, che visione!
Aggrappate colle mani che parevano gigli, a una inferriata poco alta ma ampia, sopra un archivolto cupo, tre fanciulle vestite di bianco e bellissime ci guardavano mute.
Ci arrestammo ammirando.
«Chi siete?
«Italiani. E voi?
«Monacelle.
«Oh poverette!
«Viva Santa Rosalia!
«Viva l’Italia!
Ed esse a gridare: «viva l’Italia!» con quelle voci soavi da salmo, e ad augurarci vittoria. Le vedrò sempre così come gli angeli dipinti dal Beato di Fiesole; e se avremo pace, uno di questi giorni visiterò il monastero a cercarle.
Entrammo in piazza Bologni, già occupata da un centinaio dei nostri. Il Generale, sulla gradinata d’un palazzo, stava interrogando due prigionieri, che piangevano come fanciulli.
«Volete tornare coi vostri? Tornate pure!» diceva loro il Generale: ed uno fece atto d’andarsene, l’altro restò. Quello tentennò un poco, poi volle rimanere anche lui. Erano Calabresi, giovani; parevano stupiti di non essere stati fatti a brani.
Appena Garibaldi sedè nell’atrio del palazzo, rimbombò là dentro una pistolettata. «L’hanno assassinato!» urlammo noi dalla piazza, e ci affollammo alla porta. Non era nulla. Gli si era scaricato un colpo della pistola che portava a cintura, e la palla gli avea sforacchiato i calzoni, sopra il collo del piede. Ci rassicurammo. In quel momento arrivò Bixio.
Lo avevo visto poco prima lanciarsi tempestando addosso ad uno che, vedendolo ferito, aveva osato pregarlo di ritirarsi: e buon per colui che trovò una porta da ripararvisi. Era fuoco in faccia, impugnava un mozzicone di sciabola, si piantò dinanzi a noi e: «Su! venti uomini di buona volontà... tanto tra mezz’ora saremo tutti morti; andiamo al Palazzo Reale!» E contò i venti che già partivano con lui. Senonchè fu chiamato dal Generale, obbedì, ed entrò nell’atrio a consiglio. V’erano già alcuni signori palermitani e un prete; la città cominciava a scuotersi, a ruggire sordamente; da Castellamare si udì uno scoppio; la prima bomba rombò nell’aria e cadde, e fu una imprecazione che parve riempire il cielo.
Da quel momento campane a stormo per tutto, e una bomba lanciata ogni cinque minuti, pausa funebre e crudele. Verso le tre pomeridiane, i cittadini cominciavano a rovesciarsi per le vie! Noi, un po’ scorati nelle prime ore, pigliavamo animo. Sorgevano le barricate: uomini e donne lavoravano arditamente; cadeva una bomba, tutti a terra; scoppiava: «viva Santa Rosalia!» e tutti su a lavorare da capo. Così venne notte. Il castello cessò di tirare: i regi occupavano la parte alta della città; noi il resto; a Palazzo Pretorio s’era piantato il Quartiere Generale; i donzelli del Municipio, colle giubbe rosse, si affaccendavano, giovani e vecchi, per il Dittatore. Intanto nuove squadre entravano da Porta Termini, ne vennero tutta la notte; e noi la invocavamo lunga, per riposarci e prepararci all’evento.
Segue 31 Maggio.
Ma l’alba arrivò che l’ore parvero minuti, e la sveglia del secondo giorno fu data dai regi di Castellamare, che ricominciarono colle bombe. Le lanciavano misurate sul Palazzo Pretorio, sperando forse di schiacciarvi il Quartiere Generale. Ma le bombe piombavano sul convento di Santa Caterina, a un angolo della piazza. E il Generale se ne stava a piè d’una delle statue della gran fontana, dinanzi al palazzo. Lì riceveva le notizie dai punti combattuti della città; di lì partivano i suoi ordini: lì lo vedevamo noi di tanto in tanto, passando sbalestrati ora da una parte ora dall’altra, dove ci chiamava il bisogno.
In uno di quei momenti che non ne potevamo più dalla sete, Bozzani ed io traversavamo una piazza. «Vediamo se in questa casa ci danno un sorso d’acqua?» dissi io: e battei a un gran portone sul quale era scritto «domicilio inglese.» Fu scostato un battente, e vedemmo nel cortile una folla costernata. Entrammo. Ci venne incontro un signore che non sapeva quale accoglienza farci; ma pareva più lì per pregarci di tornare indietro. Però sentendoci parlare, subito si mostrò cortese, ci tirò in mezzo a quella folla, fece portar acqua e vino. Bevemmo, ringraziammo e volevamo partire. Ma tutta quella gente, signore e signorine, ci furono attorno, ci prendevano le mani, ci pregavano di star lì a proteggerle; alcune piangevano dalla compassione per noi. Vollero i nostri nomi, e noi li scrivemmo su d’un foglietto; gran meraviglia per loro, che due soldati sapessero far tanto. Ci tempestavano di domande; e per la città che c’è? e chi vince? e quanto durerà? Santa Rosalia che spavento! «Perdonate se non vi ho fatto subito buon viso, ci diceva il signore venutoci incontro, avevano detto che eravate mostri feroci, che bevevate il sangue dei bambini, che scannavate i vecchi... Invece siete gentili...»
E noi a ridere. E le donne: «E Garibaldi dov’è? È giovane, è bello, come è vestito?». Rispondevamo in quella confusione amorevole; e intanto i giovinotti ci pigliavano di mano gli schioppi, discorrevano tra loro, si accendevano in faccia, ci invidiavano; ma il vecchio con un’occhiata li teneva a segno.
Uscimmo di la colla promessa di tornare, e appena fuori vedemmo una turba alla porta d’un fornaio. «Il forno dei Promessi Sposi! — dissi a Bozzani — bisogna correre che non lo saccheggino». E corremmo. Ma quella gente non faceva tumulto; pigliava i pani, pagava e se ne andava, facendo posto ad altra gente che sopravveniva. Un signore ci disse che dal giorno innanzi la sua famiglia non aveva mangiato, colta dalla rivoluzione senza provviste in casa. E soggiungeva: «Siete arrivati così di sorpresa!».
«Però siete contenti?» gli chiesi. — «Santo Diavolo; siete i nostri liberatori!»
Ce n’andammo, avviandoci ai Benedettini, dove era la nostra compagnia e ci abbattemmo nel cavallo del capitano Bovi, steso sotto un androne; quel povero cavallo che già aveva rischiato d’essere ucciso, la notte della discesa da Gibilrossa.
«Questo è il cavallo, che quello sia il padrone? disse Bozzani, inoltrandosi verso un morto che giaceva più in là. Oh... vedi... vedi... è quel povero ragazzo che nella prima marcia da Marsala, fu messo in mezzo a noi da quel vecchio...!»
Doveva essere proprio quel giovinetto. Io non lo avevo più riveduto da quella prima volta, e a trovarlo là mi si mescolò il sangue con disgusto indicibile. Avessi potuto volare sulla capanna di quel vecchio, che in quel momento vidi nella pace lontana dell’orizzonte, a sentire se il cuore non gli diceva nulla!
«Senti» — disse Bozzani tendendo l’orecchio e ci ponemmo di corsa verso un urlio di donne. «Al sorcio, al sorcio! gridavano, sorcio è!» Non arrivammo in tempo. Dieci o dodici furie avevano già fatto in pezzi un povero birro. Gli avevano fatta la posta sin dal dì innanzi, egli si era alfine rischiato d’uscire vestito da donna; ma esse lo avevano riconosciuto, colto, ridotto che non si può descrivere.
Fuggimmo inorriditi, ma ci consolammo subito, capitando a fare la scorta alle suore di un monastero che andava in fiamme.
Venivano condotte a un altro monastero da pochi dei nostri, esterrefatte per lo scompiglio che vedevano per tutto, e forse paurose di tutti quei picciotti che andavano attorno armati e minacciosi. Camminavano in fila, si serravano a noi colla persona, ci investivano di non so che casto profumo, rimettendosi in noi confidenti; e ci dicevano dei ringraziamenti affettuosi come a persone conosciute da molto tempo. Una di esse, giovanissima e bella, guardandomi con due occhi imbambolati, mi diede un reliquiario di filigrana, con entro un ossicino di Santa Rosalia; raccomandandomi di portarlo sul petto, che mi avrebbe scampato da morte. Non ebbi cuore di ridere, a tanta certezza di farmi del bene, e mi posi addosso il reliquiario. Tra quelle monache ne vidi due, che parevano fatte di cartapecora, da tanto che erano vecchie. Esse sole non provavano paura, ci guardavano con cera sdegnosa, e si lasciavano portare da due bergamaschi come due cose. «Chi sono quelle due suore?» chiesi alla monacella del reliquiario. «Sono due duchesse e sorelle. Ci fanno tribolare tutto l’anno.» Arrivammo al monastero.
In quel viluppo di far entrare le monache nel loro rifugio, mi scompagnai da Bozzani e me ne andai solo ai Benedettini. In un solaio lassù sopra la chiesa, illuminato da un finestrello che dava su d’un orto, trovai una squadra della mia compagnia che faceva le schioppettate da quell’apertura. Mi posi anch’io nella fila, e arrivato al finestrello sparai, affacciandomi per veder là sotto i nemici. Cavallini impaziente mi tirò via, per fare il suo colpo, ma non aveva messe lo schioppo alla mira, che una palla entrò scalcinando il muro, gli ruppe la tempia destra, ed egli stramazzò morto senza dir ahi! Si era imbarcato a Porto San Stefano sul Lombardo; fu scritto alla mia compagnia; a Missilmeri la sera del 25 mi aveva detto che era felice. Popolano modesto, sentiva altamente l’onore di questa impresa. Gli coprimmo la faccia con una pezzuola. Per lui la felicità, la patria, tutto era unito, anche la nostra pietà; perchè subito badammo a certe pedate che si sentirono sul tetto lì sopra. Credemmo che fossero i regi; ma erano carabinieri Genovesi venuti lassù per tirare più a loro agio. Alcuni si calarono dal tetto fin sui cornicioni, e mentre sparavano, gli udivamo discorrere allegri e pacati.
Così correvano le ore, veniva notte, la seconda notte! Per comando del Dittatore, a tutte le finestre d’ogni casa, povera ricca, fu acceso un lume.
Per le vie pareva giorno pieno. Le notizie che venivano di bocca in bocca, da tutte le parti della città, ci consolavano; i regi erano respinti sempre su tutti i punti. Le barricate, moltiplicate in ogni via, rendevano loro impossibile di rompere e tornare dentro. Sulle gronde, sui balconi, erano ammonticchiati tegoli, sassi, suppellettili d’ogni sorta; al punto in cui si era non rimaneva al nemico che incenerir la città, o lasciarla libera a noi.
Si diceva, il mattino del ventinove, che il Corpo consolare avesse protestato, e che le navi da guerra raccolte nella rada minacciassero di mandare in aria Castellamare, se il barbaro lanciar di bombe non fosse cessato. Chiacchiere. Il castello tirava più rabbioso che mai, e già centinaia di case erano ruinate, seppellendo gente chi sa quanta. Sarà lungo il pianto che terrà dietro alla febbre di questi giorni. I regi hanno fatto cose da selvaggi. Quel giorno, verso le undici antimeridiane, M... ed io abbiamo trovato, in un vicolo che mette alla piazzetta della Nutrice, il cadavere d'una giovinetta che poteva avere quindici anni. Certo era stata bella. Lo era ancora morta. Nulla mi strinse mai tanto il cuore come la vista di quel cadavere. Violata dai regi, giaceva piagata in più parti del corpo delicatissimo, ed un colpo di baionetta che le trapassava il collo, era stato quello che l’aveva liberata da tanti strazi. Noi pensammo di portare quel cadavere in luogo sicuro; forse una madre avrebbe potuto cercare di quella povera morta. Già la reggevamo, quando gli urli improvvisi dei nemici che sboccavano dalla breccia d’una casa vicina, e una scarica a trenta passi ci costrinsero a ritirarci di là. Erano molti, e noi due soli; ripiegammo a Porta Montalto, dove stava a guardia il Colonnello Carini. Quel bastione l’avea preso d’assalto Sirtori, con pochi della sesta e della settima compagnia: e i regi giacenti là attorno morti erano tanti, che ancora non so capire chi gli abbia potuti uccidere.
Il Carini mi mandò al Palazzo Pretorio per munizioni. Vi trovai il Sirtori. Munizioni non ve ne dovevano essere, perchè egli mi disse di rispondere al Carini, che il bastione si doveva conservarlo difendendolo all’arma bianca.
A Palazzo Pretorio mi parve regnasse un po’ di sconforto. Chi sa che notizie v’erano? Eppure la città oramai era tutta sollevata e risoluta a ogni estremo, piuttosto che a rivedere nel proprio seno il nemico. Me ne tornai al Carini colle mani vuote: egli capì e tacque. Più tardi mi rimandò. In Piazza Pretoria v’era tal folla che, come dice il Manzoni, un granello di miglio non sarebbe caduto a terra. Il Dittatore dal balcone a sinistra, quasi sull’angolo di via Maqueda, finiva un discorso di cui colsi le ultime parole: «... Il nemico mi ha fatto delle proposte che io credei ingiuriose per te, o popolo di Palermo; ed io sapendoti pronto a farti seppellire sotto le ruine della tua città, le ho rifiutate!».
Non vi può essere paragone che basti a dare un’idea di quel che divenne la folla, a quelle parole. I capelli mi si rizzarono in capo, la pelle mi si raggrinzò tutta all’urlo spaventevole e grande che proruppe dalla piazza. Si abbracciavano, si baciavano, si soffocavano tra loro furiosi; le donne più degli uomini mostravano il disperato proposito di sottoporsi a ogni strazio. — Grazie! Grazie! — gridavano levando le mani al Generale; e dal fondo della piazza gli mandai anch’io un bacio. Credo che non sia mai stato visto sfolgorante come in quel momento da quel balcone: l’anima di quel popolo pareva tutta trasfusa in lui.
Ma alla sera, verso le dieci, lo rividi cupo, agitato, lì a piè di quella statua dove passava le notti. Mi aveva chiamato il tenente R... per mandarmi a portare un ordine. Il Generale mi pose colle proprie mani un foglietto, tra la canna e la bacchetta dello schioppo, mi comandò di farlo leggere a tutti i capi-posto che avrei trovati sino a Porta Montalto, e che giunto là lo lasciassi al colonnello Carini. Mi avviai col cuore stretto. Il primo Capo-posto che trovai fu Vigo Pelizzari. Gli porsi il biglietto. Egli lo lesse, si turbò un poco, me lo ridiede; ma senza dir nulla a’ suoi che gli si affollarono intorno. Tirai innanzi, bruciando dal desiderio di conoscere il contenuto di quel foglio, potevo leggerlo, non osai. Dal colonnello Carini cui lo rimisi per ultimo, seppi poi che v’era scritto: «dicesi che siano sbarcati ottocento Tedeschi, ultima speranza del tiranno. In caso d’attacco da forze soverchianti, ritiratevi al Palazzo Pretorio». Carini non si mostrò guari commosso per la notizia; mi rimandò colla ricevuta del foglio; ed io me ne rivenni pensando con dolore, come una mano di stranieri potessero mettere in forse le sorti della città e nostre. Ma, arrivando al Palazzo Pretorio, trovai il Generale già mutato d’umore. Discorreva con Rovighi dicendo che sperava di farla finita l’indomani; che al Palazzo Reale i regi non avevano più munizioni da bocca, che non potevano più comunicare nè col castello nè colla marina.
Mi rallegrai fino in fondo all’anima, e stanco morto mi rannicchiai là vicino, col picchetto di guardia.
Ieri, finalmente, verso mezzodì, ricevemmo a Porta Montalto l’ordine di cessare il fuoco. Subito corsi al Palazzo Pretorio, dove trovai che l’armistizio era concluso per ventiquattr’ore, tanto che si potessero seppellire i morti. Era bell’e sottoscritto il foglio, quando capitò un prete, che mi parve quello venuto sin dal mattino del giorno 27 in piazza Bologni. Gridava al tradimento, annunziando che i Bavaresi entravano da Porta Termini. «Che Bavaresi?» gridavamo noi. «Quelli di Bosco, che tornano da Corleone!»
Ci rovesciammo a quella volta quanti eravamo là attorno, e arrivammo a Porta Termini che già i Bavaresi avevano oltrepassata una barricata. Si arrestarono vedendo un parlamentario avviarsi a loro; cessarono il fuoco; ma uno dei loro ultimi colpi sciagurati colse nel braccio sinistro, presso la spalla, il colonnello Carini. Egli cadde e fu trasportato al Palazzo Pretorio come in trionfo.
Laggiù, in fondo alla via, in mezzo a quelle facce torve di stranieri, si vedeva il colonnello Bosco aggirarsi furioso, come uno scorpione nel cerchio di fuoco. Oh s’egli avesse potuto giungere mezz’ora prima! Entrava difilato, e se ne veniva al Palazzo Pretorio quasi di sorpresa, con tutta quella gente, che aveva la rabbia in corpo della marcia a Corleone, fatta dietro le nostre ombre. Chi sa che fortuna sfuggiva di mano a questo Siciliano, giovane, ardito e ricco d’ingegno?
Nel tornare a Porta Montalto, passai con E... dalla piazzetta della Nutrice, per vedere se vi fosse ancora quella povera morta di ieri l’altro. Non v’era più. Mentre ne parlavo ad Erba, un colombo venne a posarsi pettoruto su d’una gronda lì sopra.
«Gli tiro?
«Tira pure...»
Meraviglioso! Il colombo venne giù senza testa, come un cencio. «Bravo!» sentimmo gridare, e vedemmo cinque ufficiali napoletani che venivano verso di noi. «Bravo tiratore!» dicevano stringendo la mano ad E... e a me, mortificato del tiro felice. Ma E... «Oh! non è nulla, noi codesti tiri li facciamo a volo...».
«Anche a volo! — esclamarono gli ufficiali, — ma allora siete davvero bersaglieri piemontesi?»
«Che bersaglieri!» rispondemmo noi, e sempre tempestati di domande, ci lasciammo tirare da quei cinque a visitare la piazza del Palazzo Reale.
Vedemmo non so quante migliaia di soldati accampati sulla piazza. Mangiavano lattuga a manate come pecore, e ci guardavano da ammazzarci cogli occhi. Credo che se non fossimo stati così bene accompagnati, il pezzo più grosso che poteva avanzare di noi era l’orecchio. Ci inoltrammo in mezzo ad un nugolo d’ufficiali. Un vecchio Colonnello, con certa barba sulle guance che pareva cotone appiccicato, rubizzo, adusto, bell’uomo, ci accolse cortese. Anch’egli voleva a forza, farci confessare per soldati di Vittorio Emanuele.
«Eh! diceva, farebbe meglio il vostro Re, se pensasse, a’ casi suoi. Non avrà sempre, come l’anno scorso, i Francesi.
«Oh! meglio certamente, mille volte meglio se vi eravate voi; — disse pronto E... — gli Austriaci li avremmo fatti andar via anche dalla Venezia.
«Che Venezia! che Austriaci! — sclamava il colonnello guardandosi attorno, accendendosi e non volendo parere.
«E se un altr’anno e voi e noi uniti riprenderemo la partita contro l’Austria, vedrete...»
Il colonnello parve uno che sia lì per isdrucciolare e cerchi d’agguantarsi...
«Vedrete... vedrete voi, che domani sarete tutti morti! — troncò bruscamente. — Meritereste miglior fortuna, ma vi siete cacciati in questa Palermo che vi lascierà schiacciare...
«Però sino ad oggi dobbiamo lodarcene di Palermo...
«Bene, bene, lodatevene pure,» e come vide che i soldati si affollavano, temendo forse per noi, si mosse e ci fece accompagnar via.
31 Maggio.
Eravamo pronti. Solenne ora questo mezzodì! Ma l’armistizio fu prolungato. Fino all’alba del tre giugno potremo riposare, lavorare, prepararci, e se sarà per soccombere, la città lascierà una pagina che commoverà tutto il mondo per il bene d’Italia.
Il Generale ha fatto un giro per la città, dove ha potuto passare a cavallo. La gente si inginocchiava, gli toccavano le staffe, gli baciavano le mani. Vidi alzare i bimbi verso di lui come a un Santo. Egli è contento. Ha veduto delle barricate alte fino ai primi piani delle case; otto o dieci ogni cento metri di via. Ora sì che possiam dire d’aver tutto il popolo dalla nostra! Siamo perduti in mezzo a questa moltitudine infinita che ci onora, ci dà retta, ci scalda d’amore.
Non v’è più dubbio. Simonetta è morto. Abbiamo incontrato un picciotto con una camicia a riquadri rossi e bianchi... Margarita lo fermò. «Dove hai preso codesta camicia?
«L’ho levata ad un morto.
«Dove?
«Ai Benedettini.
«Vieni con noi!
Un buco nella camicia mostrava che il povero amico nostro fu colpito al cuore. Morì quel candido e forte giovane, senza uno di noi vicino, da dirgli: «ne parlerai a mio padre!»
Corremmo ai Benedettini, cercammo: nulla. Non si sa nemmeno dove l’abbiano sepolto!
Mancano tanti altri di tutte le compagnie, che non sappiamo se siano morti, o feriti in qualche casa. Giuseppe Naccari, quel giovane alto con quella faccia da dipingere, che in marcia era la delizia della mia squadra, ha combattuto sino all’ultimo, senza andar a vedere i suoi, che l’aspettavano dall’esilio, qui in Palermo, chi sa da quanto. E ieri l’altro una palla lo colpì di sotto in su, mentre faceva fuoco da un campanile, gli entrò in un fianco, gli traversò dentro il petto, gli uscì da una spalla. Dicono che ne morrà. È venuto a cadere sulla soglia di casa sua!
2 Giugno.
Di quei Bavaresi ricondotti da Bosco, ne sono passati già molti dalla nostra parte. Narrano che in quella marcia del ventiquattro, erano certi di raggiungerci e di finirci. Ma quando si accorsero di averci lasciati addietro, e seppero che eravamo entrati in Palermo, Bosco fu per impazzire. Li cacciò a marcie forzate sin qui, promettendo sacco e fuoco, non badando a chi cadeva sfinito per via. «Oh! dicono, se non si arrivava troppo tardi!». E fanno certe faccie che sembrano gatti, quando si leccano le labbra dinanzi a una ghiottoneria. Gente torva questi mercenari! Li chiamano Bavaresi; ma sono Svizzeri, Tedeschi e perfino Italiani. Promettono di battersi contro i loro commilitoni, con millanteria disgustosa.
3 Giugno, Mattina.
Immensa gioia! Non si pensa più alle case cadute, alle centinaia di cittadini sepolti sotto. I regi se ne andranno, la capitolazione è come fatta. Incrociamo le braccia sul petto e diamoci uno sguardo attorno. Ma si è potuto far tanto? Mi par di sentire qualche cosa nell’aria, come il canto trionfale del passaggio del Mar Rosso.
Sono andato al monastero, e ho potuto ottenere che quella monaca del reliquario venisse all’inferriata del parlatorio. Quando mi vide si fece come se fosse stata d’alabastro, e le si fosse accesa dentro una fiamma. Ringraziò Santa Rosalia esclamando. Io osai accostare la mano all’inferriata; le nostre dita si toccarono; chinò gli occhi e rimanemmo muti...
6 Giugno.
Questi marinai della squadra inglese, ci fanno cera più che i nostri del Governolo e della Maria Adelaide. Verso sera quando andiamo barcheggiando, i Francesi, gli Austriaci, gli Spagnuoli, i Russi, persino i Turchi ci sono! tutti ci guardano curiosi, ma zitti. Invece gli Inglesi ci chiamano, ci tirano su a occhiate sulle loro navi, e noi si sale, accolti come ammiragli. Non hanno bottiglia che non vuotino con noi; non han gingillo che non ci offrano; non c’è angolo della loro nave che non ci facciano vedere. Stiamo con essi dell’ore; belli o brutti ci vogliono ritrarre a matita; e non ci lasciano venir via senza essersi fatto dare il nome da ognun di noi, scritto di nostra mano. M’è nato un sospetto. La Sicilia è bella, è ricca, è un mondo. Oramai tra tutti l’abbiamo, o quasi, staccata dal Regno... Se non si riuscisse a fare l’unità, gioco che la mano per pigliarsi l’isola sarebbero visi di stenderla gli Inglesi... — Non ci han qui nel porto la nave ammiraglia che si chiama Hanibal...
7 Giugno.
Nella gran sala della Trinacria si desinava una allegra brigata, a festeggiare un drappello d’animosi venuti da Malta, su d’una barca peschereccia. Scesero a Scoglietti, e camminando a furia di sproni e di oro vennero difilati a Palermo. Lo sciampagna fiottava dai bicchieri e dal cuore la gioia; gioia della vostra, o anime lombarde! Siete leggiadri e prodi.
9 Giugno.
Gli abbiamo visti partire. Sfilarono dinanzi a noi alla marina, per imbarcarsi, una colonna che non finiva mai, fanti, cavalli, carri. A noi pare sogno, ma a loro!... Passavano umiliati, o baldanzosi. Superbi i cacciatori dell’ottavo battaglione che combatterono a Calatafimi e qui, lasciando qualche morto in ogni punto della città! Certo li comandava un valoroso.
Se ne vadano, e che ci si possa rivedere amici! Ma di qui a Napoli come è lunga la via!
10 Giugno.
Tuköry è morto. Non in faccia al sole, non sotto gli occhi nostri nella battaglia, l’anima sua non è volata via sulle grida dei vincitori. Egli si è spento a poco a poco, in letto, vedendo la morte venire lenta, egli che soleva andarle incontro, galoppando baldo colla spada nel pugno. Gli avevano tagliata la gamba, rottagli da una palla al ponte dell’Ammiraglio; si diceva che l’avremmo visto ancora a cavallo dinanzi a noi; ma venne la cancrena e lo uccise. Goldberg, il mio vecchio sergente ungherese, che giace per due ferite toccate la mattina del 27, quando seppe morto il suo Loyos si tirò le lenzuola sulla faccia e non disse parola. Così coperto pareva anch’egli morto; ma forse pensava al dì che i proscritti magiari torneranno in Ungheria senza quel bello e sapiente Cavaliere, venuto pel mondo così prodigo dell’anima sua. O forse lo vedeva col pensiero galoppare in Armenia, fra gli arabi del Sultano contro i Drusi ribelli; dove chi sa quante occhiate bieche avrà date alla spada non fatta per servire i tiranni. Ma di quel dolore Tuköry si pagò poi nel sangue dei Russi, quando dai bastioni di Kars potè fulminare l’odio suo, contro quella gente che aveva aiutato l’Austria a rovinargli la patria...
11 Giugno.
Per la via che facemmo da Marsala al Pioppo, e poi essi dal Pioppo in una volata, sono giunti qua sessanta giovani condotti da Carmelo Agnetta. Navigarono da Genova a Marsala, su d’un guscio che si chiama l’Utile, dove avran dovuto stare pigiati peggio che i negri menati schiavi. Che senso quando sbarcarono a Marsala, dopo essere stati col cuore a un filo per tanti giorni; e poi quando passarono vicino ai nostri colli di Calatafimi! Avranno pensato ai morti che vi lasciammo, con la malinconia di non averli conosciuti vivi. Ma quando arrivarono a questa Palermo mezza rovinata, debbono aver sentito l’animo crescere irato, e avranno tesa la mano ognuno guardando innanzi e dicendo a qualcuno laggiù: «ci vedremo!».
Hanno portato due migliaia tra schioppi e schioppacci, e munizioni da guerra e i loro cuori. C’è Odoardo Fenoglio veneto da Oderzo amico mio, sfolgorante ufficiale della brigata Pavia, che ho visto e abbracciato ai quattro Cantoni; c’è Cavalieri, c’è Frigerio, tutti valenti e gentili e colti, arrivati in tempo, per onorare la salma di Tuköry che oggi porteranno a seppellire.
C’eravamo tutti, fino i feriti che hanno potuto venir fuori dalle case, dagli spedali, tutti! Türr, figura tagliata nel ferro, non fatta a mostrar dolore, camminava alla testa del corteo, dimesso, accorato, parea condotto a morire. Dalle finestre piovevano fiori sul feretro, su noi; e dai fiori e dalle foglie di lauro veniva un odore che mi faceva il senso di un soave morire. Si aggiungevano il silenzio della folla, e gli atti delle donne bianche, inginocchiate sui balconi e piangenti. Era uno sgomento che pareva avesse pigliato fin le pietre. Vidi certi dei nostri, duri e invecchiati a ogni sorta di prove, andar innanzi con faccia sbigottita, spenta. Rodi e Bovi, due mutilati antichi, parevano sonnambuli. Maestri, che ebbe un braccio troncato a Novara, e che pur da Novara corse a Roma dov’ebbe il moncherino spezzato un’altra volta da una scheggia francese, il povero mio Maestri da Spotorno, semplice e prode come i popolani delle nostre marine liguri, piangeva. E piangevo anch’io. Un momento che mi si strinse più il core, mi pregai con certa voluttà acre, non mai provata, mi pregai d’essere chiuso in quel feretro abbracciato col morto. Oh! star nella bara con tanto ancora di vita da sentirsi portato lentamente, indovinando le vie, le finestre sotto cui si passa, le faccie di quei che guardano e accompagnano fin dove possono con gli occhi e poi col pensiero! La folla fa ala... parlano a voce bassa... che diranno? cade qualcosa... saranno fiori.
Ma la marcia funebre prorompe alta nell’aria, e vien sin fra i quattro assi, con certi acuti stridori di trombe, con certi gemiti di flauti che si mutano in lacrime. E si scende, si scende nelle tenebre, nella terra; fra il pianto degli uomini reso dall’arte divina e il pianto delle cose che le nostre forme investe d’avanzi umani un pò più antichi dei nostri...
Anche Adolfo Azzi morì son sette giorni! Come stava là sul Lombardo nelle ultime ore del mare, colle braccia potenti al timone, con gli occhi in Bixio che di sul cassero fulminava l’anima tra Marsala vicina e le navi che ci inseguivano nere come leonesse nel deserto! Lo veggo ancora e lo vedrò finchè io viva, con quella faccia sfidatrice e quieta, con quelle spalle ampie, scamiciato ed erto i pettorali fatti per ricevervi la morte da eroe. Invece fu colto in una coscia. Gli entrò la palla e ruppe, e in cinque giorni il povero Azzi morì!
Notte.
Non nelle notti travagliate dei combattimenti, ma ora che abbiamo una certa quiete, pensando alle barricate ho sentito venir su dal core un’onda della malinconia rimastami da quella sera del quarantotto; una sera di Marzo che noi fanciulli, tutti raccolti a sentir la novella da nostra madre, stavamo al focherello allegro che pareva anch’esso uno della famiglia. Suonò un’ora di notte e il deprofundis dal campanile. Nostra madre ci fece pregare pei morti. Ma i soliti rintocchi si mutarono in un di quei doppi, che lassù da noi annunziano pel domani la commemorazione di qualche morto degli anni andati. Nostra madre alzò i suoi grandi occhi in su, forse a cercare di qual morto de’ suoi ricordi cadesse l’anniversario; e noi muti ad aspettare che ripigliasse il racconto. A un tratto entrò da fuori nostro padre, e venne malinconico a sedersi al fuoco.
«Che c’è? gli chiese nostra madre.
«Nulla!
«Giusto! Han suonato a funerale; chi sa per chi?
«Pei defunti delle barricate di Milano.
Guardai nostro padre tremando. Defunti, barricate, Milano, tre schianti al mio core di nove anni, mi parevano tre parole sonanti da un altro mondo. Quella notte non dormii: da quella notte mi rimase nell’anima una tristezza cara, che di quando in quando assaporai, venendo su cogli anni, senza poterle dare un nome fin che non ebbi trovato nel Sant’Ambrogio del Giusti quello sgomento di lontano esiglio...
12 Giugno.
Aveva detto ad Airenta: tu, Giorno, una di queste notti ti trovano ammazzato in qualche vicolo chi sa dove.
E Giorno, rosso fin nei capelli, fu lì per andare in collera; ma poi a poco a poco si aperse e mi narrò che la mattina dall’entrata, quando ci perdemmo d’occhio tra noi alla Fiera vecchia, salì con uno della compagnia Cairoti, mandato da Bixio a movere la gente d’una casa, che buttassero giù roba a quelli che sbarravano la via. In quella casa, diceva Giorno, tutti dovevano essersi destati alle nostre grida; perchè andavano di quà di là come pazzi, piangendo, sclamando: pigliate tutto, lasciateci la vita, chi siete? — E noi: «Garibaldi.» Allora uomini e donne ad aiutarci; e giù quel che veniva, si sarebbero lasciati precipitare con le loro masserizie. Entrammo in una camera dov’erano due giovinette. In un lancio levammo le materasse dal letto tepide, e appunto m’accorsi che le fanciulle n’erano appena uscite! Ma noi non avevamo badato, ed esse neppure un atto per nascondersi, per coprirsi; anzi ci aiutarono a mandar giù quella roba gridando: Santa Rosalia, e viva l’Italia. Tirai via il compagno giù per le scale; dalla via mi volsi a guardare in su: esse, spenzolate quasi dalla finestra, battevano le mani alla rivoluzione, trasfigurate da quelle capigliature sulle spalle nude... Notai la casa, ci sono tornato, mi riconobbero...
Povero Giomo! Le ho viste anch’io quelle fanciulle, e con una si amano. Non glie l’ho detto, ma se io fossi in lui, a quella madre che nelle notti del campo parlandone sempre ei mi faceva vedere là in una villa turrita, solitaria, mezzo sepolta nella verdura, fuor di Genova; a quella madre santa io menerei dalla guerra questa nuora di sedici anni. E andando, per fare stizza alla sposa mia, chiederei a tutte l’ore: quella mattina non avesti paura?... Essa arrossirebbe chinando la fronte sul mio petto, ed io baciandole i capelli benedirei il ricordo di quell’incontro casto ed eroico.
Nel Convento della Trinità, 13 Giugno.
Per le streghe di Macbet che cosa ho visto! Traversando giù il porticato mezzo buio, ho inciampato, e balzelloni annaspando colle braccia a tenermi ritto, poco meno che non ho dato del ceffo nel muro. Mi volsi. Una mano usciva di sotto quella terra; una mano d’un nero che si sentiva. Forse si moveva, o mi pareva, minacciosa. Chiamai, scavammo. Giacevano mal composti sotto mezzo braccio di terra tre cacciatori napoletani, quasi vestiti ancora delle loro divise turchine... A tutto ho potuto stare, ma quando fu scoperta la faccia di un di quei morti fuggii... Oh si fa bene a coprirci la faccia appena morti!
Tornando da Monreale. 14.
Deve essere stato un gran vivere nei tempi che su questo ceppo della Sicilia venivano a innestarsi i Saraceni, i Normanni e poi quegli altri d’alta ventura, che portavano l’aquila sul pugno!
Pìgliati colla fantasia in quell’età una parte, guerriero, rimatore o fraticello, ed entra; ecco la Cattedrale famosa. Tant’è, s’ha bel disporsi, ma noi sentiamo che non si riesce a star nelle chiese come quella là con animo che risponda! Disse un di noi: bisognerebbe non osar d’entrarvi calzati... Fu tutta l’espressione della sua maraviglia! Un altro, quando ebbe guardato un poco attorno le colonne e laggiù il gran mosaico, si lasciò andar ginocchioni con gli occhi in su, facendo colle braccia e a mani giunte un arco sopra la testa, verso quelle volte; e l’atto gli parve preghiera.
E s’esce di là che uno si sentirebbe potente a far qualche cosa degna; ma no, quello che per capirci chiamiamo coda del diavolo, gli si ficca tra piedi. Noi, per esempio, appena fuori avemmo una mezza rissa.
Ben... da Mantova nostro medico, tutta la via aveva brontolato che a Monreale ci andava di malavoglia, perchè sapeva esservi stato detto di noi, che siamo venuti a mangiare l’isola, e che bisognerebbe sonarci le campane addosso.
E noi a dirgli: «chetati, son cose da celia...» non si sognando che cosa gli frullasse. Ma lui? In chiesa s’era stizzito di più; e uscendo, al primo che gli capitò di vedere con aria non di suo genio: « sei tu che ci vuoi fare i vespri? »
Colui che pur non era uno zotico, tra il capire e il no, sembrò viso di voler dir di sì. E Ben... gli menò. Oh che guaio! Se non capitava pronto un prete, addio!
Venendo via ne dicemmo a Ben...! Ma egli tranquillo gli pareva d’aver fatto l’obbligo suo.
Conv. Trinità. 15.
Ho visitato il Colonnello Carini in una cameretta lassù dell’albergo alla Trinacria. Dove se n’è andata tutta quella floridezza di carni? Tenendomi per la mano mi chiese del Dittatore, della compagnia, degli amici; poi d’improvviso: c'eravate ai funerali di Tuköry? — Colonnello, sì. — Egli guardò intorno e mi strinse più forte la mano.
Due giovinetti gli stanno in camera senza lasciarlo mai, tutti lui negli occhi brillanti di lagrime, rattenute appena mentre egli m’aveva chiesto se ero stato ai funerali. Quando egli partì esule nel quarantanove, quei suoi figlioli doveano essere bambini affatto. Vennero da Messina coll’agonia di abbracciarlo, di trionfare con lui vincitore, e lo trovarono inchiodato da quella maledetta palla bavarese.
Per le stanze va lenta, mesta, una signora che deve aver molto sofferto. E quando s’incontra con gli occhi negli occhi del Colonnello, pare che la pigli il singhiozzo, stenta a non farsi scorgere. In verità egli è molto giù della vita. Oh che storie, che lutti, che vedovanze del core!
Venni via afflitto. E per contrasto trovai che correva su quel frullino del figliolo di Ragusa, sempre nelle nostre gambe vispo, felice. Suo padre, che conduce l’albergo da gran signore, ne’ giorni del bombardamento tenne corte bandita per noi chi avesse voluto passar da lui a ristorarsi. Ma c’era ben altro da fare, e pochi vi possono essere capitati: tuttavia ce ne furono, ed io so d’uno che ci deve aver fatto la figura di Margutte.
Curvetto, piccino, tarchiato, passo da marinaio, capelli bianchi e lunghi, barba fatta indovinata per parere quella del Generale; Gusmaroli, il vecchio parroco Mantovano, può dare un’idea di quel che sarà Garibaldi fra una ventina d’anni.
L’ho ben guardato, è proprio così. Ed egli che sa di somigliargli un poco, e ne gode e si riscalduccia in tale compiacenza; egli nei tre giorni si atteggiava. I picciotti che lo vedevano comparire sulle barricate qua e là, gli gridavano: evviva Garibaldi! e sotto gli occhi di lui combattevano e morivano volentieri, credendolo il Dittatore.
16 Giugno.
Ippolito Nievo va solitario sempre, guardando innanzi, lontano, come volesse allargare a occhiate l’orizzonte. Chi lo conosce, viene in mente di cercare collo sguardo dov’ei si fissa, se si cogliesse nell’aria qualche forma, qualche vista di paese della sua fantasia. Di solito s’accompagna a qualcuno delle Guide, Missori, Nullo, Zasio, Tranquillini; ed oggi era con Manci, a cui veggo negli occhi i laghi del Tirolo verde ov’ei nacque. Quando incontro costoro, vestiti ora d’un' uniforme di garbo un po’ ungherese, bello, già illustrata nel quarantanove dalla cavalleria di Masina in Roma, io mi sento nascere di dire: « uno di voi mi vorrete in groppa quando galopperete per i campi nella battaglia? » Vorrei provare a un di quei cuori il mio. E sceglierei Manci, che mi pare un cavaliero non ancora vissuto in nessun poema. Non è l’Eurialo di Virgilio, non quell’altro dell’Ariosto; è un non so che di moderno, nemmeno: è una gentilezza dell’avvenire. Si vorrebbe essere una donna, e amarlo e non amata morire per lui.
Con Manci veggo sovente quel Damiani, che, se fossi scultore, getterei in bronzo; lui e il suo cavallo, alti, piombanti sopra un viluppo di teste e di braccia, quale mi rimase impresso a Calatafimi nel momento della bandiera. Nel secondo giorno del bombardamento lo vidi appoggiato a uno stipite d’un gran portone del palazzo Serra di Falco in Piazza Pretoria, forse là pronto pel Generale, perchè nel portico scalpitava il suo cavallo sellato. — Quella era la faccia di Calatafimi. Mentre che io passai egli parlava tra sè. E mi parve che guardasse ora il palazzo dov’era il Dittatore, ora il convento di Santa Caterina lì allato, che ardeva dal tetto e vi cadevano le bombe. Forse pensava come avrebbe potuto salvare Garibaldi, se uno di quei mostri fosse piombato pochi passi più oltre...
17 Giugno.
Ci sono andato ogni giorno dalla monacella divina chiusa in quella tomba della Pietà; ed essa sempre con la sua melodia di voce; «quando ritornerete?» La vecchia monaca che stava a badarci, ha indovinato da un pezzo che io non sono parente della giovine professa, ma taceva e pareva godesse di noi.
Oggi non le dissi addio, eppure c’era andato apposta. Povera suor***! Dovè avermi indovinato negli occhi la partenza, perchè mi guardava in modo che io mi sentii nelle braccia la rabbia di agguantar le sbarre dell’inferriata e a squassi schiantarle, per dire a quell’anima: vieni da coteste tenebre e vivi! Essa avvicinò la faccia alla grata; io baciai, baciammo quel ferro freddo e bevvi l’alito suo.
E me ne venni via fantasticando una camicia rossa e dei veli bianchi, nel polverio di una marcia al gran sole e l’ignoto: ed essa intanto è là dentro, dove domani e dopo e poi m’aspetterà...
Patriotti patriotti |
e canti e suoni e febbre, ricchi e poveri, tutti in processione a Castellamare, a buttar giù le muraglie chi con pali di ferro ciclopici, e chi con un martellino a polverizzare un pezzetto di calcinaccio, sin le signore della più fina nobiltà. Durarono giorni e notti; ora il castello è là smantellato. Giace come un gigante di poema eroicomico, lasciato supino, squarciato nel ventre, ai cani che passano, fiutano, fanno l’attaccio e via...
Ma quel Giusti Astigiano che capo ameno! È venuto dentro che si dormiva su questo caldo del mezzodì, e, con quella sua faccia di mascherone, si piantò nella sala in mezzo ai quaranta letti, gridando: figlioli!
Tutti su come alla voce del Colonnello.
«Ho notizie dal Piemonte. Vittorio Emanuele ha fondato l’ordine dello sbarco e ci ha creati tutti cavalieri.»
Uno scoppio di risa.
E lui: «Zitti! Ad ognuno di noi sarà dato uno dei feudi che trovammo nelle nostre marcie... Io non dico di accettare il mio, ma l’idea reale non mi dispiace. Addio.»
E investito da un uragano d’urli, fuggì buttando i passi come i giullari, e sghignazzando ancora che era già nella piazza.
Eppure Giusti è arguto, e gioco che ha voluto mordere qualcuno di noi.
Palermo 17 Giugno.
Non gli ho visti, ma so che da giorni sono venuti dalla Favignana sei o sette di quei di Pisacane, scampati all’eccidio di Sapri. Dunque erano in quelle Egadi, che pareano scoppiate su dal mare improvvise a festeggiarci? Erano nelle prigioni sottomarine. Che fremito, se, per uno di quei sensi misteriosi, che talora si rivelano in noi come guizzi d’una vita di natura diversa dall’umana, avranno indovinato che là fuori, sull’onda che rumoreggiava spruzzando le loro inferriate, passava Garibaldi e la libertà.
O precursori nostri, quante lacrime, quanto fantasticare dopo il vostro infortunio, dopo Sapri, più bello, più glorioso della nostra Marsala! Tre anni! pareva un secolo; e di lassù dalle Alpi era un volo dell’anima sitibonda verso queste terre delle Due Sicilie, che sin col nome invogliavano e coi mari e coi cieli e coll’istoria loro e con quel canto della Spigolatrice messa dal poeta sull’orme vostre, a veder gli occhi azzurri e le chiome d’oro di Pisacane! Dopo i Bandiera, Corradino, Manfredi, biondi tutti e belli e di gentile aspetto, lui: ed ora ecco qua Garibaldi, bello e biondo anch’esso, ma fortunato lui solo.
Fortunato e amato da queste donzelle brune, che ignorano la vita di fuor dell’isola e il mondo che egli è venuto a rivelare. Ed io ne intesi che l’adoravano in crocchio, parlando sottovoce di lui visto a cavallo per la città; adoravano guatandosi tra loro ardenti negli occhi, che avevan dei lampi come quelli di Santa Teresa.
Mi dice Antonio Semenza, che tra le carte del Palazzo Reale fu trovato l’ordine dato da Napoli alla flotta, se ci avesse incontrati. — Colarli a fondo salvando le apparenze. — Sarà vero? Infatti saremmo stati troppi alle forche e agli ergastoli; ma che nella marineria napoletana ci sarebbe stato un cuore da obbedire e annientarci?
18 Giugno.
E colui dalla faccia tagliente, d’occhi e d’atti che pare il falco reale; grigio, castagno, grinzoso, fresco, che ha tutte le età; chi è, quanti anni porta in quelle sue ossa d’atleta, in quelle sue carni segaligne? L’ho sempre veduto da Marsala in qua e osservato con certa reverenza. E ho immaginato che debba essere qualcosa come zio o fratello maggiore di Nullo. Ma oggi ne chiesi. E noto perchè mi sia d’insegnamento, che Alessandro Fasola da Novara ha sessant’anni fatti; che dal 1821 ne ha spesi quaranta a lavorare, a sperare, a combattere; che sempre da Santorre Santarosa a Garibaldi fu visto comparire alla chiamata, giovane, ardente e sicuro3.
Anche i carabinieri Genovesi come sono usciti belli nelle loro divise! Un farsetto e un berretto d’un azzurro delicato che rialza la espressione di quelle facce signorili, non so se sciupate o abbellite dal bronzeo che dan questi soli penetranti nel sangue.
Tutti vorrebbero farsi carabinieri, ma non tutti si è Genovesi. Si capisce. V’è una certa aristocrazia del valore, e quelli là che se la sentono nel cuore, e degnamente, vorrebbero star soli. E non ho inteso un della mia compagnia, e non dei migliori, dire che il Dittatore dovrebbe tenerci tutti senza che altri potesse mescolarsi con noi di Marsala; e mandarci sempre avanti, avanti, avanti, finchè uno ne fosse vivo?...
18 Giugno.
Partire non condotti dal Dittatore! Eppure egli ha sulle braccia la rivoluzione, la guerra, tutto, anche gli arruffapopoli, e deve star qui. Con lui lavora Giuseppe Crispi, un ometto che quando lo veggo mi fa pensare a Pier delle Vigne potente. Ma lontani da Garibaldi saremo ancora con lui. «Andate di buon animo, ci disse, andate figliuoli, che vi ho dato Türr. Se avrò bisogno di voi, egli vi condurrà volando da me». Eppoi, messosi a parlare genovese con alcuni di noi liguri, parve pigliasse un piacere fanciullesco in quel dialetto che parlano Bixio e i Carabinieri.
21 Giugno.
Medici è arrivato con un reggimento fatto e vestito. Entrò da Porta Nuova sotto una pioggia di fiori. Quaranta ufficiali, coll’uniforme dell’esercito piemontese, formavano la vanguardia.
La mia brigata è partita per l’interno dell’isola, condotta da Türr. Noi della spedizione dispersi nell’onda dei sopravvenienti, porteremo con noi le memorie dei venticinque giorni vissuti come nella solitudine, faticando, combattendo e credendo. E tireremo innanzi visitando l’isola, facendo gente e pellegrinando, finchè ci arresti il nemico e si torni al sangue, o si finisca fondendoci tutti nelle sorti e nell’onore d’Italia.
Da Palermo a Missilmeri 22 Giugno.
Due cavalli bianchi e baliosi che starebbero bene tra le gambe di due dragoni, ci portano via, tirando questa carrozza da prìncipi. Romeo Turola sonnecchia, io noto.
Ho riveduto Porta Sant’Antonino, il Convento e quella muraglia che all’alba del 27 maggio, quando venimmo, balenava e tuonava come una nuvola tempestosa. I due grandi pioppi, a piè dei quali quel mattino vidi il primo napoletano morto, tremolavano sino all’ultima foglia con un sussurro allegro quasi consapevole. Passandovi sotto, pensai raccapricciando a quel morto, a quella povera montanara della Calabria o dell’Abruzzo che si farà sulla soglia della capanna, con una paura confusa della guerra che c’è pel mondo, dove forse crede ancora di avere il suo figliuolo soldato. E pensai anche ai prìncipi di Casa Borbone, che sino ad ora non se n’è visto uno a cavar la spada.
Mi volgo indietro. Palermo è laggiù, laggiù come la vedevamo da Gibilrossa, dal Parco, dal Passo di Renna, ma ora libera nella sua gloria fra le sue rovine, di giorno e di notte tutta un festino. Partendo, ho inteso che già sono arrivati certi armeggioni a guastare. Ve ne erano forse fino dai primi giorni della capitolazione. Quella sera che ci raccolsero in fretta e in furia e ci tennero sotto l’armi delle ore, in via Maqueda, che cosa era stato? Mi disse Rovighi che si parlava d’una alzata di La Masa, per togliere a Garibaldi la Dittatura e assumerla lui gridato dal popolo. Era una calunnia: ma il fine?
Missilmeri, 22 Giugno.
Questo popolo che ci ha fatta la luminara la notte del 25 maggio, quando eravamo pochi e con poche speranze, adesso non ci riconosce più. Ma che cosa abbiamo fatto? Non lo dicono e non si può indovinarlo. Parlano, sorridono, sono gai; discorrono con noi, ma a gesti impercettibili se la intendono tra loro. Che abbiano dentro parecchie anime?
Fra Pantaleo ha messo il dito sulla piaga lui. Questa gente ci si è fatta nemica per la coscrizione decretata dal Dittatore. Ed egli in chiesa: «che volete? La coscrizione è necessaria, ma è cosa presto scansata. Padri, madri, avete figli? Mandateli volontari per la nazione e non saranno coscritti. Eppoi non si vuol mica levar ai vecchi il sostegno, alle spose i mariti. C’è un altra furberia. Fatevi Guardie Nazionali, e allora coscrizione addio.» E giù, il frate mago, un crocione trinciato largo quanto la chiesa; e il popolo a benedirlo persuaso.
Ora si va pigliando davvero un bel fare da soldati. Il gruppo d’ufficiali che ho visto in piazza sarebbero l’onore del primo esercito del mondo. Tutti nel bello dai venti ai trent’anni, persone salde, faccie che vi si legge il coraggio semplice e franco; medici, ingegneri, avvocati, artisti. Ma se fossero tutti come Daniele Piccinini! Che addio deve essere stato quando si partì dal padre suo! Immagino il vecchio austero sulla porta della sua Pradalunga, intento a guardare il figlio che gli ha dato le spalle, e se ne viene giù verso Bergamo, con passo da Clefta. Non l’hanno guasto nè l’ozio nè i vizii costui: la storia della sua giovinezza l’ha in fronte; forse più che caccie e corse su in alpe non ebbe altri spassi. A Calatafimi fu visto coprire il Generale mettendoglisi dinanzi, perchè, come indossava camicia rossa, era fatto segno alle schioppettate. E in uno dei momenti che la battaglia parea volgere a male, egli tenne alto l’animo dei suoi vicini, gridando parole potenti come d’arcangelo.
Missilmeri 22 Giugno.
Il generale Türr gli si è riaperta la ferita, e ha dato sangue dalla bocca. Da quando entrammo in Palermo, quest’uomo ha fatto tanto che si e ridotto un’ombra. La brigata è afflitta, perchè si teme che egli debba lasciarci. Lo vidi un istante, smunto, pesto negli occhi, le labbra pallide, il petto che pare schiacciato. Ma che sia davvero quel sottotenente degli Ungheresi passati nel mio villaggio l’anno quarantanove, dopo la battaglia di Novara? Li ricordo come li vedessi ora. Erano forse cento bei giovani, che portavano una gran bandiera tricolore; le loro persone alte s’avanzavano mezzo nascoste nel polverìo della strada al sole di marzo, e quando imboccarono il ponte gridarono: Elien Elien! alla gente corsa ad incontrarli. Quel sottotenente in mezzo a quei soldati mi pareva tanto allegro, e tuttavia mi si stringeva il cuore sentendo dir da mio padre: Sono Ungheresi, gente che l’Austria fa patire!
Villafrati 24 Giugno.
Passavano baldi su certi stalloni neri, carboni accesi gli occhi, le criniere che davano sui petti. Tenevano alte le teste guardandoci appena, avevano gli schioppi a tracolla, pistole e pugnali a cintola, nastri essi ai cappelli e all’arnese delle cavalcature. Il capo che camminava innanzi non mi tornava nuovo. I Villafratesi che discorrevano con noi li guardavano incerti tra il salutarli e non badarli; ma mi accorsi che qualcuno ammiccò, qualche altro scambiò con essi quei certi cenni, raggrinzamenti della fronte, d’una guancia, del mento, diavolerie, che a costoro bastano per un discorso.
«Chi sono quei sette? chiesi ad un signore.
«Patriotti, signorino, non avete visto? Hanno i tre colori.
Un altro lo guardò bieco: un lampo.
Intanto quei sette giunti in capo al borgo misero i cavalli a trotto serrato.
Ma dal quartiere del Generale uscì fuori un tenente spronando dietro di loro, e presto lo vedemmo tornare con quei sette disinvolti, beffardi, accigliati. Il tenente gli aveva presi colla pistola alle tempie del capoccia, pronto se non avessero obbedito...
Ci affollammo in quella casa dov’era già un gran brusio, e potemmo udire la voce del generale Türr corrucciato pronunciare il nome di Santo Mele.
«Santo Mele? dissi io, ma costui è quel birbante che avevamo prigioniero al Passo di Renna, e che gli riuscì a fuggire. Berrebbe il sangue, ladro, assassino!
A quest’antifona il signore che aveva detto bene di quei sette sparì, senza neanche dirmi: bacio la mano.
Udimmo bisbigliare: Consiglio di guerra subitaneo; e comparve il maggiore Spangaro, un uomo d’età seria, già brizzolato capelli e barba, ufficiale nella difesa di Venezia. Egli presiederà il Consiglio.
Villafrati 26 Giugno.
Ho visto partire in gran fretta il battaglione Bassini. A Prizzi, che deve essere un villaggio poco lontano, vi è gente che si è messa a far sangue e roba, come se non vi fosse più nessuno a comandare. Il padre Carmelo sapeva quel che diceva quando ci parlammo al Parco. Quaggiù vi sono beni grandi, ma goduti da pochi e male. Pane, pane! Non ho mai sentito mendicarlo con un linguaggio come questo della poveraglia di qui.
Bassini si è messo in marcia, ma non dell’umore suo di quando odora il pericolo, Questo brontolone gaio, senza gingilli, di corteccia grossa, ha un cuore che parla dalla faccia burbera e bonaria. Agita la testa rasa, grigia, nocchiosa come una mazza d’armi da picchiare sul nemico. Avrà forse un mezzo secolo ormai, eppure è più giovane di noi, e a Calatafimi tenne la sua compagnia come a una festa. I suoi ufficiali, tutti signori di Lombardia, gli stanno sotto come un padre. Se in Prizzi gli occorrerà di dover parlare di legge, ha nel battaglione i dottori a dozzine; se vorrà fare un’arringa, i letterati gli stanno attorno; ma egli breve e tagliente parlerà colla spada. Chi laggiù ha le mani lorde badi ai fatti suoi.
Villafrati 26 Giugno.
E non ci è stato verso di trovar uno che abbia voluto dire la verità! Il testimonio che abbia detto più male di Santo Mele, dinanzi al Consiglio di guerra, fu Santo Mele.
«Io brigante? Eccellenza! Ho combattuto contro i borbonici, ho dato fuoco alle case dei realisti, ho ammazzato birri e spie, dai primi d’aprile servo la rivoluzione: ecco le mie carte!».
E ne buttò là un fascio, bollate dai Municipi dov’è passato, tutte che ne dicono gloria come fosse Garibaldi. Ma il Consiglio non lo mandò libero. Costui puzza troppo di sangue, e a Palermo, dove sarà condotto, qualcuno gli farà empire il cranio di piombo.
Villafrati 27 Giugno.
È arrivato il colonnello Eber, d’aria tra soldato e poeta. Si sa che è Ungherese, e che il 26 maggio venuto da Palermo a Gibilrossa per veder Garibaldi, volle essere dei nostri a tornar a Palermo, quel bello e terribile mattino del 27. — Viaggiatore di gran lena, egli ha corso l’Asia per ogni verso, scrivendo pel Times. Ora eccolo nostro comandante, perchè Türr se ne va malato rifinito.
Rocca Palomba 28 Giugno.
Che veglia deliziosa a piè del Maniero di Morgana! Stanchi della camminata d’otto ore, i soldati dormivano, pei campi, in un silenzio che mi parea d’esser solo.
Queste campagne come hanno fatto a diventar deserti?
Si va delle ore senza vedere una casa. Contadini? Non ve ne sono. I coltivatori stanno nei villaggi, grandi come da noi le città; vi stanno in certe tane gli uni sugli altri, con l’asino e le altre bestie men degne. Che tanfo e che colpe! All’alba movono pei campi lontani, vi arrivano, si mettono all’opera che quasi è l’ora di tornare; povera gente, che vita!
Rocca Palomba è come tutti gli altri borghi, ma a vederla da lungi adagiata su questo fianco del monte, mezzo nascosta nei boschi di mandorli, con quella strada che si curva dolce per farvi arrivare la gente senza fatica, promette di più. Trovammo gli abitanti in festa. Avevano mandato ad incontrarci un nugolo di cavalieri, che vennero innanzi drappellando bandiere, levando grida, salute fratelli! Parevano gente del medioevo rimasta viva proprio per aspettarci. Quei signori ci fecero gli onori del paese, con modi non da persone accostumate a vivere così solitarie. Ma certe gentilezze s’hanno nel sangue. Però sempre quella storia! Se un borgo ci accoglie bene, quello che viene dopo ci tiene il broncio, poi l’altro appresso torna a farci festa. Qui c’erano i preti e il Municipio alle porte; la banda suonava l’inno; sulle alture ardevano fuochi di gioia, i signori si contendevano gli ufficiali; i soldati ebbero pane, cacio, vino, carezze, il paese in capo, se l’avessero voluto.
Io poi capito sempre in casa di preti. Questo ch’è qui mi ha voluto far toccare il vangelo. Ma io, aperto il volume, lessi due versetti e glieli voltai tradotti lì lì. Allora il prete mi si buttò al collo, e fece correre tutta la famiglia a conoscere il gran cristiano che aveva in casa. Desinai con loro. Vi erano delle donne, delle fanciulle, dei bambini, dei vecchi e dei giovani, una tribù. Pareva il dì del Natale. Mi lasciarono venir in camera a malincuore; in questa camera allegra dove è un letto che pare di gigli. E tu coi tuoi peccati, oseresti andare fra quelle lenzuola?
Bassini ci ha raggiunti, mortificato lui, gli ufficiali e i soldati. Furono accolti a Prizzi come prìncipi. Luminare, cene, balli e le belle donne che gridavano ancora da lungi «benedetti! beddi!»
Alia 29 Giugno.
Da Rocca Palomba ad Alia una marcia breve, attraverso una ricchezza che va dal piano sino in cima ai colli, dorati ancora da messi che si curvavano, quasi a riverire la nostra rosseggiante colonna.
30 Giugno. 4 ore antim.
Si parte. Ah! questa volta la marcia sarà lunga, e pare che il cielo si vorrà fare di fuoco. I soldati vanno e vengono per le vie sudicie, cittadini se ne veggono pochi, scamiciati, indifferenti, alle finestre. Passano due preti salutando; se ne andranno in chiesa. Ecco la tromba. Chi l’avrà trovata questa bella diana dei bersaglieri piemontesi? Certo un musico d’animo allegro e ardito: c’è un pensiero così sano! forse è del colonnello Lamarmora. Scuote di dosso il sonno e la pigrizia, fa correre pei nervi un gran bisogno di fare. La intesero gli Austriaci tante volte, la intesero i Russi in Crimea, noi l’abbiamo portata qui nell’isola vecchia di Vittorio Amedeo, dove già i monelli la cantano come cosa loro.
Valle lunga. 30 Giugno pom.
Ci hanno raggiunti parecchi amici da Palermo, e dicono che vi arriva gente da’ porti di Liguria e di Toscana ogni giorno. Vi furono quasi dei guai per certa fretta messa ai Palermitani di darsi al Piemonte; ma il Dittatore tiene a segno tutti.
Scrivo in una cameretta dove mi par d’essere un grillo in gabbia. Ma se mi affaccio, veggo tutta la via grande, e una allegria di soldati rossi, e gli ufficiali che fumano e bevono seduti innanzi al casino di compagnia. Come si fa presto a pigliar l’aria di questi signori, che forse stanno lì tutto l’anno a tirar giù dal cielo il tempo e la noia, a ridere e a giocare! E mentre che la terra frutta, essi fanno idillii e tragedie per donne. Ho inteso di bellissime storie verseggiate dal popolo che qui è tutto poeti; storie d’amore e di sangue versato per gelosie tremende.
Santa Caterina, 1° Luglio.
Eber sa condurre una colonna senza affaticarla. Divide la marcia in due: nelle ore di sera si va, si accampa dopo un bel tratto, si riprende la via prima dell’alba e si arriva dove si deve nel bello della mattinata, quando il sole non s’è ancora avventato. Così la notte scorsa ci riposammo nei campi della Cascina Postale, con un tempo dolce, con un sereno che mi parea di vedere mille volte più lungi nelle profondità del cielo.
Stamane mentre il sole spuntava camminavamo già da un par d’ore. Le compagnie cantavano canzoni popolari lombarde e toscane; i siciliani gareggiavano con un loro canto d’aria che cercava il core.
La palombella bianca |
Ma a tratti quella melodia scoppiava in versi di odio al Borbone, di spregio alla regina Sofia, donna.
Alla testa della colonna i Genovesi cantavano l’inno alato di Mameli. A un tratto ruppero il canto, e lo cessavano tutti man mano che arrivavano a un certo punto della via. Quando, v’arrivai anch’io capii. Da quell’apparita si vedeva laggiù, laggiù, nero sterminato, crescente all’occhio e alla fantasia, l’Etna, che coll’ombra sua si protendeva su mezza l’isola e sul mare.
Nella piazza di Santa Catterina sorgono due tende, e sopra la più bella pende la bandiera di Francia. Passando ho veduta là dentro una donna, una fanciulla, non so, una bellissima con gli occhi scintillanti. Vicino ad essa giaceva su di un tappetto, vivo vivo di colori, Alessandro Dumas. Il sangue mi fece un cavallone. Viver così, così nel deserto con la monacella di Palermo, guardando dall’apertura d’una tenda i larghi i profondi orizzonti, le palme, la fila dei camelli che passa laggiù laggiù; e sorridere sempre in due per i silenzi sterminati!
Dunque sotto quella capigliatura da creolo hanno vissuto la loro ventura i Tre Moschettieri? Mi hanno raccontato che Dumas ha nel porto di Palermo una goletta chiamata l’Emma, dal nome della giovine donna ch’io ho veduta.
Egli è venuto in Sicilia a pigliarsi la vendetta della prigionia fatta patir dai Borboni vecchi al padre suo, generale di Francia portato dalla tempesta sulle coste di Puglia, mentre tornava ammalato dalla spedizione d’Egitto. Dicono che sia grande amico del Dittatore e del Colonnello Eber col quale si saranno conosciuti in Asia. — Custodisce la donna sua gelosissimo; non ha che un servo vestito da marinaio: quest’oggi desinerà cogli ufficiali, e sarà bello sentirlo. Ha visto e immaginato mondi di cose!
Il povero Maggiore Bassini l’hanno pigliato pel giustiziere. Egli dovrà partire di nuovo per un villaggio chiamato Resotano, dove alcuni tristi fanno tremare la gente.
In gran segreto ho saputo che stanotte moveremo alla volta di Caltanisetta, dove potremmo essere accolti a schioppettate.
Alessandro Dumas ha fatto levare le tende e se ne torna a Palermo. Si dice che egli se ne va per aver avuto non so che urto con alcuni dei nostri, che gli troncarono un discorso poco reverente al nome italiano.
Caltanisetta. 2 Luglio
Si calunniano tra loro borghi e città come godessero gli uni del mal degli altri. A sentire qui dovevano essere schioppettate. Invece trovammo tutto un parato di bandiere e di verde. Ci toccò passare sotto un arco trionfale noi, le autorità, la Guardia Nazionale venuta ad incontrarci. I giovinetti volevano ad ogni costo lo schioppo dai nostri soldati, tanto per alleggerirli l’ultimo tratto: ma i soldati rifiutarono la cortesia. Forse qualcuno si ricordò di quando eravamo pei campi nei primi giorni dopo lo sbarco, che si dormiva collo schioppo tra le braccia e le gambe incrociate, e alcuni se lo legavano al corpo, dalla paura di svegliarsi disarmati. Sicuro, allora v’erano dei contadini che per avere un’arma si arrischiavano nei bivacchi a rubarla.
3 Luglio.
Che quella festosa accoglienza di ieri fosse una lustra? Oggi la città è silenziosa; pare che noi non ci siamo più; la gente attende alle cose sue come dicesse: ho fatto il dover mio e basta.
Quei di Bassini sono tornati, rotti dalla marcia di quattro giorni, per vie da lasciarvi le polpe. Narrano che capitati a Resotano intorno alla mezzanotte, vi trovarono il popolo in armi risoluto a non lasciarli entrare. Bassini, uomo da dar dentro a baionetta calata, procedè cogli accorgimenti, e potè mettere le mani addosso a undici scellerati rei di mille prepotenze e di sangue. Uno riuscì a fuggire, ma un siciliano a cavallo lo cacciò come un demonio, lo arrivò e l’uccise.
5 Luglio.
Fatti i conti, dei siciliani che ci seguirono da Palermo in qua, un mezzo centinaio se ne sono già andati, alcuni portando via anche le armi. Sono contadini che si accendono come paglia e presto si stancano. Il Consiglio di guerra li condanna a morte; si appiccano le sentenze come lenzuola alle cantonate, ma si lascia che i condannati se ne vadano alla loro ventura, purchè lontano. I buoni sono quelli delle città e i Palermitani, giovani colti, amorosi, pieni di rispetto. Malveduti sono alcuni ufficiali che paiono chierici. Quando le compagnie vanno agli esercizii le accompagnano portando le spade come torcetti poi si tirano in disparte e par loro d’essere sciupati nel dover assistere a quelle bassezze dell’imparare come si maneggia un’arma, come si muova ordinati. Se fossero stati l’anno scorso in Piemonte! Giovani dei migliori di tutta Italia si lasciavano strapazzare da quei caporaloni grigi che parlavano di Goito, di Novara, della Crimea, e insegnando lanciavano insolenze peggio delle guanciate. Pur d’imparare, sopportavano tutto quei giovani. Ricordo d’un Conte veneto che caricava su d’una carretta lo strame, della scuderia. Passò il caporal Ragni con la gamella in mano.
«Bestie tutte come voi nel vostro paese? Chi v’ha insegnato a maneggiare il bidente?
Il Conte rispose sorridendo non so che, in italiano.
«Ah! siete un volontario? Allora che cosa è questa?,
«Una gamella.
«La patria! urlò beffardo il caporale, battendo le nocche su quell’arnese di latta. Il Conte sorrise ancora. E il caporale:
«Stasera farete il sacco, e passerete a ridere in prigione.
«Sissignore.
Caltanisetta 7 luglio.
Festa da fate. I viali del giardino parevano di fuoco; il verde degli alberi e delle spalliere luccicava di splendori metallici; le donne di Caltanisetta coi mariti, coi fratelli, con noi, parevano una famiglia innumerevole che si rallegrasse là dentro di qualche lieta avventura. Rinfreschi, vini e dolciumi, tanto da satollare per una settimana tutti i poveri della città; si ballò, si conversò, si dissero cose di libertà e d'amore; fra noi vi sono dei lombardi che sembrano semidei.
Castrogiovanni 10 luglio.
Ma perchè ci hanno fatti camminare traverso i monti, per sentieri che è miracolo se nessuno ci lasciò la vita? Vero è che abbiam veduta la pingue campagna, una coppa d’oro.
Quei bovi che pascolavano per le praterie, fiutavano nell’aria il nostro passaggio, e la fila interminabile di rosso dava loro negli occhi spaventati. Un toro inseguì due dei nostri sbrancati e vaganti forse in cerca d’acqua. Li vedemmo correre su per un’erta, colla formidabile testa del furioso animale due passi dalle reni. Un d’essi potè arrampicarsi a un albero, l’altro tirava sempre a correre su d’una ripa dove il toro lo avrebbe arrivato. Senonchè un boaro, galoppando curvo che la sua testa era tutta nella criniera del cavallo, giunse coll’asta calata e vibrò nel fianco alla bestia come un lanciere. Il toro fuggì muggendo, lanciando zolle, flagellando l’aria colla coda rabbiosamente.
Io pensava che quando eravamo a Gibilrossa, ora un mese e mezzo, furori messi i partiti d’assaltare Palermo o di ritirarsi qui su quest’amba, per ordinarvi la rivoluzione, farsi forti e ripigliare la guerra. Quasi tutti i capitani propendevano per questo, ma Garibaldi no. Volle Palermo. Forse indovinava che ritirati quassù avremmo avuto tempo a languire un po’ ogni giorno, finchè la rivoluzione si sarebbe spenta, e noi con essa.
Mentre aspettavamo nella via, per menare le compagnie ai quartieri, le gelosie del monastero di faccia volavano all’aria rotte. Dalle inferriate le monacelle battevano le mani gridando; e il nome di Garibaldi, che da Marsala intesi storpiato in mille guise, esse lo mutavano in quel di Sinibaldo, che fu il padre di Santa Rosalia, vissuta nel romitaggio su monte Pellegrino. Chi sa che nelle fantasie di quelle ingenue, che parevano i gruppi d’angeli messi dai nostri pittori tra le nuvole d’oro a portare Maria Vergine in cielo, chi sa che Garibaldi non sia creduto il Re padre della Santa resuscitato? Tutto può passare per vero in quest’isola di fantasiosi. A Palermo una signora mi domandava, ma di fede, se avessi mai visto l’angelo che coll’ali para le schioppettate a Garibaldi. Risposi: non lo vidi; volevo rispondere: lo veggo, lo baderei in questo momento; ma fu galanteria che non mi potè venir detta, perchè in quella domanda c’era tanta devozione, quella signora era tant’alta d’animo!
Le vecchie suore facevano le viste dì voler tirar via dalle finestre le giovinette bianche, ma si deliziavano anch’esse a guardarci là sotto baldi, polverosi e belli. Oh la vita, quanti dolci desiri! E mi guizzò un pensiero. In ogni borgo un convento di donne e uno di maschi. Sotto questo cielo d’ardori inebrianti; all’ombra secolare di questi edifici antichi come la fede che danno un senso di cose senza principio e senza fine; in mezzo alla fioritura voluttuosa dei giardini, dove gli alberi si spandono, s’intrecciano, travagliati anch’essi dal troppo rigoglio; la voluttà che entra per tutti i sensi prostra lo spirito chiedente misericordia a Dio, e la carne trionfa!
Passati noi, la libertà verrà spazzando tutto questo strascico di medio evo. Come mai preti e frati non sono sorti furenti, per contendere fino alla morte questi loro paradisi? Forse gli è che i tempi sono maturi.
Scrivo a piè d’un castello che un tempo dominava la città. Ora è carcere dove fu chiuso un sergente della compagnia di Agesilao Milano, che n’uscì cavato dalla rivoluzione, ma canuto, curvo, spentosi senza la forza nemmeno di potersi rallegrare del suo paese. Così mi hanno narrato ed io noto. E noto che veggo il lago Pergusa a un cinque miglia da qui. Pare un pezzo di cielo caduto in mezzo a praterie fiorite. Circa lacus lucique sunt plurimi et laetissimi flores omni tempore anni: dice Cicerone parlando d’Enna, l’antica città ch’oggi è Castrogiovanni. Lo lessi, saran sei anni, nelle Verrine. Chi m’avrebbe detto allora: Vedrai quei luoghi?
In faccia a Castrogiovanni, Calascibetta sicura, cupa, sul monte che par tutto basalti, rotto d’anfratti, fulminato.
Nella valle il fondaco della Misericordia, lugubre nome che fa luccicare lame di pugnali agitate nella notte da masnadieri.
Veggo laggiù la nostra artiglieria, i carri, le sentinelle e una brusaglia di soldati rossi. Non vi deve essere un alito. Quassù invece una brezzolina che sfiora la guancia, soave come sarebbe un soffio di quelle monacelle di stamane.
Notizie di Bixio. Conduce la sua brigata per l’isola sulla nostra destra. Ha riveduto Parco la Piana de’ Greci, Corleone; prosegue alla volta di Girgenti. Là i compagni nostri vedranno le ruine dei templi che piacquero a Byron, nella squallida landa sotto cui dorme un gran popolo. Il mandriano guarda indifferente quelle file di colonne silenziose, e il navigante si inchina ad esse da lontano.
Leonforte 11 Luglio.
Il capitano Faustino Tanara solo, ritto su d’un poggiolo, guardava co’ suoi piccoli occhi l’orizzonte largo; pareva un aquilotto che stesse cercando una direzione per provarsi a volare. Sulla sua faccia ride l’anima franca e ardita, ma non v’è mai allegrezza piena. Eppure la certezza d’essere amato da tutti dovrebbe fargli gettare sprazzi di luce dal core. Che dolce natura! Il più meschino soldato gli è carissimo, persin Mangiaracina, un siciliano di non so che borgo dell’Etna, testone che pare un maglio in una parrucca fatta di pelle d’orso, e ha gli occhi sotto certe grotte, da dove guardano come due malandrini appostati. Un dì vidi Tanara in collera, stanco di Mangiaracina che butta le gambe come un ippopotamo e fa rompere il passo alla compagnia. Gli prese l’orecchio e pizzicando gli disse: «Ma tu perchè ci sei venuto con noi; e l’Italia che se ne deve fare della carnaccia tua?». Mangiaracina gli si empirono gli occhi di lacrime, e guardando il suo Capitano come fosse stata la Madonna, umile e dolce rispose: «cabedano, ci aggio ’no core anch’io». Tanara gli strinse la mano.
Egli ha trent’anni. In battaglia si trasforma. La sua persona nervosa guizza, scatta, squarcia come saetta nelle nubi. Allora tutti lo ammirano; si teme di vederlo l’ultima volta: dopo si rincantuccia malinconico; non gli si può cavare una parola.
San Filippo d’Argiro 12 Luglio.
Partimmo da Leonforte col fresco delle due dopo la mezzanotte e camminammo lenti sino alla levata del sole. Allora ognuno diede una scossa come fanno gli uccelli, e volò coll’anima per gli orizzonti dell’isola. Le solite vedute. Boschi di mandorli come da noi i castagneti; terreni che dovrebbero gettar oro; qua e là gruppi di contadini che ci guardavano accidiosi e pensando chi sa che cosa di noi.
San Filippo è una cittadetta gaia, e ci si dice che di qua al mare sia la più bella parte dell’isola. Arrivammo che una processione rientrava in chiesa da non so che giro fatto per chieder pioggia. Ne vedemmo la coda passar lenta lenta cantando, una coda quasi tutta di preti che sfilavano sotto gli occhi nostri, in cotta e stola, troppi davvero. Come fanno a nutrirli questi poveri Siciliani?
Corre voce che una colonna di regi usciti da Siracusa ci attendono verso Catania. Dev’essere vero perchè si partirà fra poche ore. Una battaglia là dove pugnarono gli Ateniesi di Nicia; o a piedi dell’Etna dove si svolsero tanti drammi delle guerre servili! E Garibaldi non è con noi! Ma se nel forte del combattere arrivasse da Girgenti Bixio come un uragano?
Regalbuto 13 Luglio.
Una trentina di monaci agostiniani, lisci nelle loro tonache nere, qualcuno bisunto, al vedere lieti d’averci a mensa, ci hanno fatto gli onori del convento, appartato, cheto come l’olio, luogo da impinguarvisi, come piante in un orto, che beva tutto il grasso del borgo.
Il Dottor Zen che oggi non aveva il capo a ridere, seduto nel pulpito in fondo al refettorio, faceva la lettura delle vite dei Santi Padri tutte malinconie, macerazioni, digiuni. Mentre che noi mangiavamo chiacchierando sottovoce coi frati, il priore teneva d’occhio i più giovani che non si lasciassero tirare dalle nostre tentazioni, temendo forse di svegliarsi domattina coll’orto ingombro di tonache gettate alle ortiche. Ma cortese sino all’ultimo ci diede certo vino che pareva di quando fu Re in Sicilia Vittorio Amedeo. A poco a poco l’aria del refettorio si accese, le teste andarono in visibilio, noi e i frati si cominciò a dire tanti spropositi che Zen discese e se n’andò fuori.
Uscimmo tutti. Nel piazzale vidi Nuvolari, ufficiale delle Guide, più fosco del solito. Ci guardava muto e forse in cuor suo si lagnava di noi.
Adernò 14 Luglio. Pomeriggio.
Ho fatto tutta la marcia con Telesforo Catoni che sin da Marsala desideravo d’aver amico. Egli era della compagnia Cairoli e studiava leggi a Pavia. Ha nella persona qualche cosa che attrista; non si sa perchè, ma si sente certa compassione di lui. Una capigliatura nera lussureggiante; un par d’occhi che saettano, grandi, eloquenti; una testa che potrebbe essere piantata su d’un atleta; e invece una esilità di membra, un torso tenue che a un soffio dovrebbe piegare. Eppure non è stato addietro un passo, mai. Gli si legge in faccia una castità di fanciulla; non gli esce mai una parola volgare; sta quasi sempre solo; adora Foscolo e il Carme dei Sepolcri che sa a memoria, e se ne pasce come d’un cibo leonino. Camminando meco recitava i versi di Maratona, che detti da lui, nella notte, in mezzo alla colonna che marciava, mi parvero i più belli, i più forti da Dante in qua. Cantoni ha molto del foscoliano, e chi ponesse il suo ritratto per frontespizio nell’Ortis, ognuno direbbe che certo il povero Jacopo fu così. Ha diciannove anni, la testa piena di disegni d’opere, è religioso, prega, aborre i preti. Però a Palermo fece anch’egli la guardia ai frati che il popolo voleva malmenare. È Mantovano come Nuvolari, come Gatti, come Boldrini, tutta gente bizzarra e valente, che hanno un po’ del Sordello.
Passeggiando con Catoni vidi una bellissima donna affacciata a un balcone di casa signorile. Cogli occhi nell’aria infocata delle due pomeridiane, essa cercava chi sa che cara lontananza, o forse fantasticava di noi. Mi parve una donna infelice.
«Vedi lassú la Pia de’ Tolomei?
Catoni guardò, gli balenò negli occhi qualcosa per quella beltà di Dea, poi chinò il capo dicendo; «non guardare; siamo in paesi dove la donna è cara più della vita, più della libertà.»
E uscimmo per la campagna verso Catania. Ci pareva di non essere più in Sicilia, o che non fosse stata Sicilia la parte dell’isola già veduta, salvo la Conca d’oro. Non più quello scoppio di vita quasi selvatico, ma una coltura sapiente: e se non fossero le immani corna di bove che sorgono contro i maleficii sui fumaioli, sui comignoli, sui pagliai; uno crederebbe di essere nel più bello della bella Toscana.
Paternò 14 luglio.
Da Adernò a Paternò una camminata in faccia all’Etna, che da Santa Catterina non si è più perso di vista. Per la falda, che par si rigonfi infinita, trionfano boschi di verde cupo, dai quali si libera e si lancia il gran monte, brullo fino alla cima bianca di neve, alto che il fumo del cratere vi galla sopra, accidioso, come se non potesse salir di più. Dorme il gigante che conta gli anni dalle sue furie e dai popoli che ha disfatti. Sono tanti e che storie! Eppure spesseggiano nelle macchie i villaggi lasciando indovinare da lungi la gente felice che deve abitarli.
Catania 15 Luglio.
Credeva d’entrare in una città di Ciclopi, ma appena oltre la porta minacciosa per i massi di cui è formata, ecco la via lunga fino al mare, ampia, lavata, fresca come vi dovesse passare la processione del Corpus Domini. Eravamo un drappello che precedemmo la brigata e i primi fiori gli avemmo noi. In piazza dell’Elefante una sentinella chiamò la guardia, dieci o dodici giovinotti balzarono a schierarsi, presentarono l’armi facendo le faccie fiere. Sono gente del paese intorno, raccolta da Nicola Fabrizi.
Entrò la brigata. Eber cavalcava alla testa, le compagnie camminavano franche, con gli schioppi che uno non passava l’altro, con una cadenza di passo da vecchi soldati; davano piacere a vederle.
Staremo qua riposando alcuni giorni. I borbonici di Siracusa e d’Agosta non si sono mossi; ma bisognerà vegliare perchè siamo in mezzo ad essi e a quei di Messina.
17 Luglio.
Ho bell’e visto; questi per noi sono gli ozi di Capua, Catania ha dei profumi che addormentano. Siede come Venere nella conchiglia, spossata dal godimento d’un cielo, d’una campagna, d’un mare, che sembrano fondersi insieme in una sola vita per farle delizia. Si sente una soavità d’aura anacreontica, su, vino e rose! Lampeggiano gli occhi delle donne uscenti dai templi come Dee, colle vesti bianche, i manti neri di seta fluttuanti dalle trecce per le spalle. E noi guardiamo, noi beviamo l’incanto ammirando.
20 Luglio.
Stamane prima dell’alba fummo alla marina. Mi tremava il cuore. Due uomini dovevano esser messi a morte, l’uno volontario siciliano, che per gelosia uccise un compagno; l’altro uno scellerato che strozzò la vecchia madre e i propri figlioli, per sgombrare il tugurio e riprender moglie. E questi urlò dalle carceri al luogo del supplizio, quello fumava baldo e sorridendo. Là nella luce crepuscolare, mentre il mare e la terra parevano sciogliersi dagli abbracciamenti notturni, dodici schioppettate lanciarono quei due nell’altro mondo.
I Benedettini di Catania, tutti gentiluomini dei primi di Sicilia, vivono nell’anticamera del paradiso. Dissi questa piacevolezza ad uno di essi; egli aperse le braccia, alzò gli occhi e rispose: «da poveri monaci!» Non l’avrà mica detto per canzonare Iddio? Ah quella storia del camello e della cruna d’ago!
Gustammo le pesche degli orti del Convento, tuffate nei calici di vin di Xeres. I monaci attenti non ci lasciavano bere il vino così, come essi dicevano, guastato; ma ce ne mescevano dell’altro, ambra purissima ed odorosa.
22 Luglio.
Torniamo alla leggenda? Fra i siciliani che ingrossarono le nostre compagnie man mano che venimmo per l’isola, furono scoperte parecchie giovinette. Indossavano disinvolte le camicie rosse, nessuno sapeva nulla fuorchè i loro dami. Tirate fuori con ogni rispetto, saranno rimandate alle loro case. Zingare dell’amore, chi sa che accoglienze!
In via Etnea ho incontrato Pittaluga. Non lo aveva più riveduto da Talamone in qua; nè sapeva ch’egli fu dei sessanta mandati col Zambianchi nel Pontificio. Episodi da steppa. La prima sera accampano sul confine manca uno, Stoppani da Terracina. Dov’è? Verso le undici la sentinella sente nel buio un galoppo. «Alt! Alt!» — «Zitto, son io!» Ecco Stoppani balzar da cavallo sghignazzando. — «Che è stato?» E Stoppani: «Sapevo che i dragoni del papa han cavalli bellissimi; il padrone di questo, se non è morto, agonizza laggiù.» Tre o quattro corsero a cercare il morente, ma non trovarono che macchie di sangue. Forse il dragone si era trascinato via da sè o i compagni suoi erano venuti a salvarlo. E l’indomani piombarono di sorpresa uno squadrone sui nostri, che colti per le vie di Grotte combatterono gagliardamente. Si liberarono, ma c’è del fosco. Quel Zambianchi...! E si che avea dei giovani del più alto merito, Guerzoni, Leardi, Soncini, Bandini, Fochi, Ferrari, Ughi, tutti! Chi ne sa? Arrivarono poi i Granatieri di Vittorio Emanuele, che fecero prigioniera la compagnia. Quei giovani furono condotti a Genova, dove tornarono a imbarcarsi con Clemente Corte; ma colti in mare dalle navi borboniche, stettero un mese a Gaeta; da dove liberati doverono salpare, non per Sicilia, ma per Genova, lunga Odissea. Eppure non si stancarono. Ostinati a venire, qua o là ci hanno raggiunti tutti!
Dov’è, che cosa è Milazzo? Sono corso a vedere la carta; eccolo tra Cefalù e il Faro, una lingua sottile, che si inoltra e par che guizzi nel mare.
D’oggi in là quel po’ di terra scura, col castello di cui sento parlare, non mi verrà mai vista con la fantasia tra l’acque azzurre, senza che la visione si mescoli di file rosse correnti come rivi di sangue in mezzo al verde dei fichi d’India, pei canneti, nel letto secco dei torrenti, sulla riva del mare torrida e bianca. Medici, Cosenz, Fabrizi, profili austeri balenarono qua e là: non li conosco, ma ormai gli eroi so immaginarli, so come Garibaldi li fa. E vedrò passare, quasi fuga di forsennati in mezzo ai nostri, un gruppo di cavalli napoletani. Che vogliono, dove vanno? Intorno al Dittatore appiedato si fa un cerchio di quei cavalli, un arco di spade, di lance turbina su di lui, suona fino ai più lontani del campo un urlo di gioia, di ferocia borbonica; ah quello può essere il momento che salvi la corona a Sofia! Ma Missori e Statella sentono che nel gran poema questo sarà il loro canto: e dalla pistola girante del Lombardo gentile, dalla spada del Siracusano cavalleresco, esce la morte meravigliosa. Fuggite, o lancieri! Il vostro capitano vi condusse da Messina promettendo la testa del Leone, ma non lo vedrete più. Cadde dal suo cavallo colla gola tagliata dal Dittatore. Egli è nella polvere. E Garibaldi dal Veloce che venne fulminando per l’alto mare ad offrirsi, torna a mettersi nella battaglia colle sue grandi ispirazioni di marinaio.
Il canto del poema finirà narrando del vecchio castello, dei fuggenti a ricoverarvisi, di Bosco, inutile prode, che avrà per grazia del Dittatore spada e cavallo, mentre che ne uscirà patteggiato. E al Veloce, sopraggiunto, come fosse stata l’anima del morto Magiaro, si darà il nome di Tuköry, l’eroe di Porta Termini.
Catania 24 Luglio.
Parte la Compagnia straniera di Volf. La conduce verso Taormina il capitano Giulio Adamoli, un giovinotto lombardo tutto delicatezza e bravura. Vanno a vedere se da Messina si è mossa gente borbonica per affrontarci, e domani partirà la brigata.
27 Luglio.
Arrivarono polverosi, ma abbaglianti; la banda in testa suonava una marcia guerriera. Bixio, su d’uno stallone pece che gli brillava sotto leggero come una rondine, la faccia bruna incorniciata dal capperuccio candido; pareva un Emiro che tornasse da una spedizione misteriosa nel deserto. Volteggiò spigliato cogli ufficiali che aveva dietro, si piantò in un punto della piazza in faccia all’elefante di pietra che sta là sonnolento: a un suo comando la fila si spezzò, i battaglioni piegarono, voltarono rapidi, giusti, attelati, e si fermarono in un bell’ordine di colonna che parea fatto di soldati messi là uno alla volta. Questo è un reggimento da presentargli le armi i più vecchi del mestiere. Ne parlai con gli amici, e mi hanno detto che attraverso l’isola Bixio non gli ha lasciati riposare un istante. I soldati per le marce forzate, furono più d’una volta sul punto d’ammutinarsi: ma sì! chi oserebbe essere il primo con quest’uomo che non mangia, non dorme, non resta mai?
Non saprei perchè, ma egli entrando in Catania non pareva guari contento. Anzi gli cresceva quella minaccia che ha sempre tra ciglio e ciglio.
Chi sa come vada d’accordo con quel capitano che gli vidi a lato e che dev’essere suo Capo di Stato Maggiore? Colui sta a cavallo colle gambe spenzolate come fossero di cenci ma nella vita pare corazzato. Ha i capelli a lucignoli scialbi come la pelle, guarda che pare lì per addormentarsi. Ma sotto i mustacchi, uno più lungo dell’altro e cadente, la bocca ride sempre d’un riso sprezzatore, mentre l’orecchio pare teso ad ascoltare rumori misteriosi, lontani. Mi dicono che sia un alto ingegno venuto su dall’esercito piemontese. V’era sottotenente dei bersaglieri sin dal 48; ma per non so che sdegno patriottico ne uscì, quando avvennero i fatti di Milano nel cinquantatre. Tutti mi hanno l’aria di star in guardia da lui; buon compagno d’armi ma derisore che dove tocca scotta o leva il brano. Prenderebbe in canzonatura magari il Dittatore; ed io lo chiamo Mefistofele in camicia rossa. È Giovanni Turbiglio.
Giardini 28 Luglio.
Aci Reale, Giarre, Giardini, tre cittadette che il mare le vuole e l’Etna le tira a’ suoi piedi come schiave. Si va, si va e sempre questo monte che non finisce mai di mutare aspetti, sempre quelle sue falde fresche d’ombre che uno le gode con gli occhi, tirando innanzi a camminare divorato dal sole, nella strada gialla, polverosa di lava, sulla quale danza un calore che a stender la mano par di palparlo, rete di metallo infocato.
A destra, fin dove può l’occhio, un azzurro di mare che non somiglia punto a quel di Liguria, nè a quello là di Marsala. È il nostro bel mare, per tutto, ma qui ha trasparenze profonde, lontane, direi successive come i cieli di Dante. Forse ha senso di godimento sotto questo sole che gli penetra sin nel fondo; perchè in quest’ora di mezzodì ha quasi un’aria di infinita bontà. Mi fiderei di dire che vi si può camminare sopra a piedi asciutti, e a guardarlo m’entra nell’anima la soavità squisita di cose intese da fanciullo, i cieli, i laghi, le buone genti di Galilea.
Ma là, oltre quell’ultima linea che altrove par finire in un balzo pauroso alla fantasia, s’indovinano terre come queste e più deliziose. La Grecia non potè, non potrebbe essere che laggiù. Par di sentire un profumo d’antico e un suono da quella parte venuto in qua nell’aria, nell’acque; dolce oggi come allora quando Virgilio cantava gli amori dell’Alfeo e dell’Aretusa.
E Sant’Alessio è un fortino lì sulla via, fatto anticamente per dar da ridere ai barbareschi. Non v’è una guardia, ma quel vecchio cannone da quella balestriera come parea che ammiccasse! Raveggi, passando meco a piè del forte, mi disse: «Ecco il mio sogno! Aver quarant’anni e più ed esser messo qui con quattro veterani slombati. Me ne starei sdraiato ora su d’uno spalto ora d’un altro, guardando il mare attento attento, invecchiando adagio adagio, bevendo a sorsi la vita, il vino e le fantasticherie della mia testa».
In riva al mare.
Comincio a vedere chiara l’ultima punta di Spartivento. Quando da giovanetti dicevamo in versi: Dall’Alpe a Spartivento! io questi azzurri gli aveva indovinati, veduti, respirati. Ma ora non mi proverei neanche a descriverlo il digradarsi di tinte turchine, tante sfumature quanti sonvi piccoli promontori sin laggiù dove troveremo Messina. E quelle linee là oltre lo stretto che paiono guizzi nell’aria, tutti monti della favolosa Calabria, dove chi pose piede coll’armi in pugno sempre morì.
Silenziose, gravi, fumose come avessero pensieri tristi, le navi napolitane vanno e vengono per lo stretto. Passare all’altra riva, ecco il problema. Ma il Dittatore vive.
Messina 27 Luglio.
Sul piano di Terranova, tra la città e la cittadella, stanno due file di sentinelle, borboniche e nostre. Tra le due file una ventina di passi, terreno neutrale. Le sentinelle si guardano, appiccano discorso, tirano innanzi un pezzo, poi o si fanno il broncio, o qualcuna dalla parte borbonica piglia la corsa e si rifugia di qua, gridando viva l’Italia, gettando berretto, budrieri, ogni cosa; mentre una turba di fruttaiole e di pescivendoli si fanno addosso al disertore per divorarselo a baci. Ma alle volte i nostri tentano gli altri invano, e scappa detta qualche impertinenza. Allora uno, due, tre borbonici lasciano andare la schioppettata, i nostri rispondono; ed ecco un allarme generale, un suon di tamburi e di trombe da noi e nella cittadella. Sui bastioni spuntano le teste dei cannonieri, le miccie fumano. Ma corre un ufficiale di Stato Maggiore, nostro, uno borbonico esce dalla cittadella; si incontrano, si parlano, si stringono la mano, poi danno di volta e tutto è finito. Commediole che fanno ridere, ma che a qualcuno costano care. Stamane la cittadella tirò persino una cannonata. La palla enorme sforò netto un casotto da doganieri, e andò rotolando lontano lungo il molo. I nostri corsero furiosi da tutte le parti, e vidi un mutilato giovane saltellare colla sua gamba di legno per tener piede ai più pronti. Agitava uno schioppo colla baionetta inastata, e gridava che era tempo di dar l’assalto.
Messina. Tornando da Torre del Faro, 28 luglio.
Sino a Torre del Faro è una deliziosa passeggiata. Per un tratto villaggi puliti anche assai; dopo, una landa sabbiosa via via fin dove balza la Torre bianca su da un mucchio di casupole grame. Poco verde là intorno; ma splende nel fondo il mare, poi la lontananza dove non si vede più che colla fantasia, chi n’ha.
In faccia a Torre del Faro, di là dallo Stretto, tira l’occhio una riga di verde cupo, a’ piè delle montagne, che paiono incalzarsi e venir giù rovinando per colmare i fondi del mare tra le due terre. Qua e là quel verde è interrotto da villaggi biancheggianti; sulla spiaggia move gente; file di armati luccicano di continuo di su di giù per una strada che deve menare a Reggio. In mare, le navi della crociera, che guardano qua dove si lavora di zappa e di badile, a piantare certi cannoni! Riconobbi tra quei ferravecchi la colubrina che portammo da Orbetello. La civettona sta là in batteria, allunga il collo verde fuori della gabbionata, un bel dì farà la rota come una tacchina. Ha una storia essa! Ma se i cannonieri che le fanno la guardia e la lisciano, sapessero le eresie che ci ha fatto dire da Marsala a Piana de’ Greci, la butterebbero in mare.
Il Dittatore se ne sta chiuso in una cameruccia a tetto là nella Torre, e intorno a quella accampano i Carabinieri genovesi. Non sono più i quarantasette di Calatafimi, drappello insuperabile per coscienza, ardimenti, virtù militare. Ma quelli hanno formato il quadro d’un battaglione che a Milazzo corse il campo come un uragano, e lo tenne dovunque apparve. Nè sono tutti liguri. Le loro file si sono aperte a giovani d’ogni parte d’Italia; e quei cinque o sei sopravvissuti all’eccidio di Sapri, che appena liberati dalle fosse della Favignana vollero vestirne l’uniforme, portarono nel battaglione un alito della grande anima di Pisacane.
Fiumara della Guardia. 9 agosto.
Ieri sera quando fu ben buio, venti barche si staccarono dalla riva di Torre del Faro, la prora diritta alla Calabria. Portavano ognuna dieci o dodici uomini armati, sull’ultima, ritto, gli accompagnava il Dittatore. Si innoltrarono nel silenzio dello stretto e presto furono perdute di vista. Le navi da guerra borboniche erano state sino a sera incrociando là in faccia; alcune s’erano poi andate a porre dietro il promontorio di Scilla, in quell’ombra vaporosa che veduta di qui mi pare un sogno sereno avuto da fanciullo. Ma due erano rimaste nel bel mezzo del canale. I nostri in folla alla riva, stettero coll’agonia di sentire fra momenti l’urlo dei compagni sommersi; o forse qua e là per lo stretto sarebbero scoppiati gli incendi delle navi nemiche. Ma verso le undici il forte di Scilla balenò, una cannonata destò tutti i campi delle due sponde; poi si intesero delle schioppettate là nell’oscurità lontana; dopo un silenzio, come quando è calato il coperchio d’una sepoltura.
Ora si sa quel che avvenne. A mezzo lo stretto, il Dittatore accertato che le barche non avevano più nulla a temere dalle navi borboniche, lasciò che andassero innanzi, designandone per guida una dalla vela latina. E tornò di qua. Su quelle barche navigavano Alberto Mario, Missori, Nullo, Curzio, Salomone, il fiore dei nostri con un dugento volontari scelti, comandati dal capitano Racchetti della brigata Sacchi; capo dell’impresa Musolino da Pizzo.
Due barcaiuoli che v’erano mi narrarono, e narrando tremavano ancora, che quando si avvidero del passo cui i nostri si andavano a mettere, essi non volevano più remare. Ma costretti, piangendo, pregando Maria e i Santi, tirarono innanzi con quei demonii. Nel buio alcune barche si staccarono dal gruppo e si smarrirono verso Scilla. I napoletani dal Forte avendole scoperte tirarono quella maledetta cannonata, appunto mentre il resto della spedizione toccava il punto designato, vicino all’altro Forte di Torre Cavallo, e sbarcava scale, corde, arnesi d’ogni fatta per darvi la scalata. Nacque un po’ di confusione; le barche pigliarono il largo veloci, lasciando i nostri sull’altra sponda, nelle tenebre, senza guide, e alle prese colle pattuglie napoletane uscite dal Forte.
La nostra brigata era venuta qui per essere trasportata in Calabria se l’operazione di ieri notte riusciva. Occupiamo il greto d’un torrente, allo sbocco d’una vallicella allegra e ben coltivata. Nessuno ha mosso una pietra; non si vedono quei lavoretti che fanno i soldati per accomodarsi il campo dove sanno d’aver a stare: tutti si tengono come uccelli sul ramo pronti a volar via.
Fiumara della Guardia 10. Agosto.
Fra noi e i trecento nostri, il mare, le navi, e i borbonici dell’altra sponda.
Sono là in faccia, su quella costa di monte in quel verde pallido, sopra Villa San Giovanni, ma lontani, in alto. Vediamo del fumo che cresce, si allarga, si fa fitto; si sentono le schioppettate sorde. S’indovina col cuore che i nostri assaliti si difendono, superbi di combattere, trecento al cospetto di tutti i reggimenti accampati di qua, da Messina al Faro!
Ebbi un lampo nell’anima. Il desiderio di questa Sicilia che mi tirava a sè da tanto tempo, empiendomi la fantasia di delizie e il core di pene misteriose; quella certezza che aveva di trovare nell’isola, non sapeva chi, ma qualcuno conosciuto, caro, un amico; tutto mi veniva dall’aver letto, anni sono, il Dottor Antonio di Giovanni Ruffini. Me ne sono avveduto dianzi udendo rammentare questo libro, che mi tenne sull’ali tanti giorni dopo che l’ebbi letto. E fui lì per inginocchiarmi sull’arena, a ringraziare a mani giunte lo scrittore che dall’Inghilterra rivelò all’Italia questa parte delle sue terre, questo popolo qual è, o qual sarà, non importa.
11 Agosto.
Una sfilata d’ufficiali. Quel colonnello quadrato, che camminando tentenna la testa grigia come minacciasse qualcuno dinanzi a sè, è un inglese che colla carabina coglie dove vuole. Si chiama Peard. Non ha un comando, ma tiene sempre dietro al corpo più vicino al nemico. Porta i suoi cinquant’anni come noi i nostri venti, fa la guerra da invaghito, tira in campo come a una caccia di tigri, ed ama l’Italia. L’altro che gli somiglia un po’ è il maggiore Specchi. Artista e soldato, ha sparso del proprio sangue dovunque si è combattuto per la libertà, in Italia e fuori, Non è mai stato al fuoco che non abbia toccata una ferita. L’ultima l’ebbe a Milazzo. Il Dittatore gli vuol bene come a un fratello; perchè hanno vissuto insieme pel mondo, dopo la caduta della Repubblica romana, adorando e sperando. Quello con gran barba, un po’ curvo, vestito di scuro, era De Flotte. Camminava a lato di Specchi, e come vecchi amici parlavano tra loro. De Flotte è una di quelle persone la vita delle quali si indovina alla mestizia serena, che hanno in tutto l’essere: e la fantasia vede la croce sotto il cui peso camminano stentando. Egli, rappresentante del popolo quando il colpo di Stato si gettò sopra Parigi, stette fino all’ultimo della resistenza, poi esulò. Credo che fosse ufficiale di marina. Qui non è che un uomo di buona volontà che rispose alla chiamata d’Italia come i Polacchi, gli Ungheresi, tutti i generosi d’altre patrie, che ci hanno portato le loro spade gloriose.
Vidi Nicola Fabrizi, una figura da Condottiero Biblico. Se quest’uomo fosse comparso in un Congresso di Re, a domandare giustizia per l’Italia, i Re si sarebbero alzati a riverire in lui il popolo che può dare un cittadino della sua sorte. Semplice, non mai accigliato, pare che spanda intorno un’aura di benevolenza; passa, e si vorrebbe mettersi a camminargli dietro, sicuri d’andar con lui a buona meta. Se un fanciullo gli si abbracciasse alle ginocchia in un momento che per Fabrizi fosse di vita o di morte, egli si chinerebbe a carezzarlo. Dai tempi di Ciro Menotti, va innanzi costui! Ha creduto, gli è cresciuta la fede ogni dì; non si è mai volto addietro; gli anni non gli han fatto cadere le penne, ed ebbe sempre certezza di vedere il gran giorno d’Italia. Ora che si comincia a sapere come il Dittatore potè lanciarsi a questa impresa, si sa che Fabrizi da Malta, Crispi e Bixio in Genova, gli hanno messo nella coscienza che l’Italia si deve farla in quest’anno o forse mai più.
Ho riveduto il maggiore Vincenzo Statella con un taglio di traverso nel naso, che rialza la fierezza impressa sulla sua faccia. Un ufficiale ungherese trottava da Torre del Faro, portando non so che ordini del Dittatore. A un certo segno si fermò a piè d’una batteria, chiedendo qualcosa a Statella che era lassù. Statella, o non badasse o non capisse, l’Ungherese gridò, Statella rispose stizzito. Quattro e quattr’otto, fu combinato lì per lì, di scambiare due colpi di sciabola; Statella ne toccò, l’Ungherese tirò avanti al suo destino.
Questo figlio di principi, che ha il padre generale borbonico dei più vecchi e dei più devoti, capitò anelando a Palermo ad abbracciare il Dittatore, il suo vecchio capitano del 1849, venuto a liberargli l’isola. Chi l’avrebbe sognato? È di Siracusa. La sua nobiltà l’ha scritta in fronte; ma il suo coraggio!... Ne parleranno i lancieri borbonici potuti scampare a Milazzo da Missori e da lui.
15 Agosto.
Il Veloce che nel 1848 era un legno da guerra della Rivoluzione siciliana, preso poi dai Borboni, fu ricondotto alla Rivoluzione da un Anguissola, e ribattezzato col nome di Tuköry. A Milazzo lavorò da buono; e l’altra notte il Piola, ufficiale della marina sarda, lo condusse a un’impresa che se riusciva!... Si voleva spingersi a Castellamare, impadronirsi del Monarca, vascello borbonico da ottanta cannoni, e a rimorchio menarlo qui, per piantarlo al Faro come una fortezza. Il Tuköry arrivò a Castellamare senza incontri. Era mezzanotte: il Monarca giganteggiava nero sull’acque. Pareva cosa fatta. Alcuni dei nostri bersaglieri del battaglione Bonnet, si calarono nelle lance per tagliare le gomene del Monarca; altri davano già la scalata; ma ecco l’allarme, le trombe, i tamburi, tutta la guarnigione di Castellamare corsa a far fuoco; e cannonate, e schioppettate a grandine. Fu forza rinunciare alla presa. Il comandante del Tuköry stimò inutile stare a farsi cogliere e si ritirò; ma lento come Ajace, a suo agio, lasciando i Napoletani a mitragliare le tenebre.
Spira un’aria di mistero che pare venga fuori da non so che antro. Non si è più visto il Dittatore da parecchi giorni, e chi dice che è via, chi vuole che se ne stia chiuso nella Torre del Faro. Come il Corrado di Byron, se ci fosse Gulnara! — Gulnara? Ho veduto un uffiziale delle Guide camminare lesto lesto lungo la spiaggia, senza sciabola, proprio una donna fianchi e seno. Bella, faceva l’aria da bambina, ma si guardava dietro con una coda d’occhio così serpentina!... Gli uffiziali della brigata ne chiacchieravano; il Bassini Colonnello scotendo la testa e il frustino, brontolava sordamente dietro quella figura. È una contessa piemontese che corre la ventura; si dice che spanda balsamo pietosa come una suora di carità; ma si soggiunge che il vecchio dottor Ripari l’ha fatta cacciare dall’Ospedale di Barcellona, dov’essa voleva fare l’angelo sopra i feriti di Milazzo.
Ho voluto dare una corsa fino a Giardini. Quella costa, quelle cittadette mi erano rimaste tanto nel cuore! Trovai per via molti amici della brigata Bixio, che tutti hanno ormai qualcosa di lui nel fare, nel dire, sin nella guardatura. Questo generale pare fatto per tempi come questi e per noi. Piglia la gente, la rimpasta, la rifà: con lui o fare, o rimanere spezzati in mezzo alla via. Uno sguardo, una parola; non basta? gli scatta via magari una sciabolata: e questa è la sola deformità del suo essere. Se ne lagnano tutti; ogni poco i suoi volontari vorrebbero abbandonarlo. È violento, è insopportabile! «Ebbene? Sotto chi preferireste servire? Sentiamo». «Ma!... eh!... sotto Bixio!». Infatti non ci sono in Italia trenta come lui. Se una palla lo togliesse di mezzo, sarebbe come ad avere le nostre forze scemate a un tratto un bel poco: e se il Borbone avesse un uffiziale come Bixio, forse... ma no, non voglio scrivere questo pensiero. Dicono che Bosco vale lui? Eresia!
Bixio in pochi giorni ha lasciato mezzo il suo cuore a brani, su per i villaggi dell’Etna scoppiati a tumulti scellerati. Fu visto qua e là apparizione terribile. A Bronte divisione di beni, incendi, vendette, orgie da oscurare il sole, e per giunta viva a Garibaldi. Bixio piglia con sè un battaglione, due; a cavallo, in carrozza, su carri, arrivi chi arriverà lassù, ma via. Camminando era un incontro continuo di gente scampata alle stragi. Supplicavano, tendevano le mani a lui, agli ufficiali, qualcuno gridando: oh non andate, ammazzeranno anche voi! Ma Bixio avanti per due giorni, coprendo la via de’ suoi che non ne potevano più, arriva con pochi. Bastano alla vista di cose da cavarsi gli occhi per l’orrore! Case incendiate coi padroni dentro; gente sgozzata per le vie; nei seminari i giovanetti trucidati a piè del vecchio Rettore; uno dell'orda è là che lacera coi denti il seno d'una fanciulla uccisa. «Caricateli alla baionetta!». Quei feroci sono presi, legati, tanti che bisognò faticare per ridursi a sceglier i più tristi, un centinaio. Poi un proclama di Bixio è lanciato come lingua di fuoco: «Bronte colpevole di lesa umanità è dichiarato in istato d’assedio: consegna delle armi o morte: disciolti Municipio, Guardia Nazionale, tutto: imposta una tassa di guerra per ogni ora sin che l’ordine sia ristabilito». E i rei sono giudicati da un Consiglio di guerra. Sei vanno a morte, fucilati nel dorso con l’avvocato Lombardi, un vecchio di sessant’anni, capo della tregenda infame. Fra gli esecutori della sentenza v’erano dei giovani dolci e gentili, medici, artisti in camicia rossa. Che dolore! Bixio assisteva cogli occhi pieni di lagrime.
Dopo Bronte, Randazzo, Castiglione, Regalbuto, Centorbi, ed altri villaggi lo videro, sentirono la stretta della sua mano possente, gli gridarono dietro: Belva! ma niuno osò più muoversi. Sia pur lontano quanto ci porterà la guerra, il terrore di rivederlo nella sua collera, che quando si desta prorompe da lui come un uragano, basterà a tenere quieta la gente dell’Etna. Se no, ecco quello che ha scritto: «Con noi poche parole; o voi restate tranquilli, o noi, in nome della giustizia e della patria nostra, vi struggiamo come nemici dell’umanità».
Vive chi ricorda d’una sommossa avvenuta per quei paesi lassù, sono quarant’anni. Un generale Costa v’andò con tremila soldati e quattro cannoni, ma dovè dare di volta senza aver fatto nulla.
E sul finire del secolo passato, il titolo di duca di Bronte, fu dato a Nelson. Bixio che titolo gli daremo? Non questo che fu di chi strozzò Caracciolo!
Messina 18 Agosto.
Il Dittatore non è più a Torre del Faro, nè a Messina, nè in Sicilia: si sente da tutti come qualcosa che sia venuto meno nell’aria, nella natura, in noi: ma nessuno osa dire nè chiedere che sia stato di lui. Pare che ognuno temerebbe di sentirselo galoppare addosso gridando: «tu che vuoi sapere?»
Intanto s’odono dei discorsi cozzanti come sciabole. C’entra l’Imperatore di Francia, c’entra Vittorio Emanuele, e una lettera che si dice egli abbia scritta al Dittatore, per intimargli di astenersi d’ora in poi da qualunque passo contro il re di Napoli.
— Lustre per tener a bada l’Europa! dice uno.
— Scrivano e leggano, dice un altro, noi intanto una di queste notti passeremo lo stretto.
Ma quelli che vorrebbero andare più alla lesta, dicono addirittura che Vittorio farebbe meglio a mandar Persano col Governolo e colla Maria Adelaide, a piantarsi in mezzo al Canale per farci far largo.
20 Agosto Mattino.
Cannonate laggiù in mare verso il Capo dell’Armi! Che poesia di nomi! Ma che sgomento pensar che ogni colpo spegne la vita a tanti, tra i quali può essere qualche amico che non vedremo mai più. Gente che viene da Catania dice che nella notte arrivarono a Giardini due vapori, che tutti quei di Bixio vi montarono, ma non sanno altro...
Bixio è in Calabria, Bixio! Col Dittatore! Dunque è ricomparso improvviso un’altra volta su la spiaggia nemica, quest’uomo che un po’ pare appena vivo, un po’ si trasforma arcangelo che spiega l’ali e rota la spada come un raggio di sole! Marsala e Melito, due nomi, due sbarchi; Garibaldi e Bixio due volte nello stesso cielo di gloria; e noi qui che si vorrebbe tutti gettarsi in mare e nuotando arrivar di là. Non ho mai sentito com’ora l’avidità fusa da Virgilio nell’ombre del sesto canto:
..... Stavan pregando, |
E poichè tanto romanticismo portato da Garibaldi nell’arte della guerra, non fa dimenticare la gentilezza classica di Virgilio; io, immaginando la Corte di Napoli quale deve essere all’annunzio del Dittatore in Calabria, al rumor d’armi crescente, odo ancora la nota malinconica dell’Eneide che mescola di lutti diversi la reggia. Oh quella regina che pianti! Si capisce come il Generale Bosco bello e prode, preso da tanto dolore si sia tutto votato ad essa dopo Milazzo. Ma Garibaldi indovino l’ha vincolato a non tornare in campo prima di sei mesi. E Francesco secondo perchè non monta a cavallo e non viene a piantarsi ai passi di Monteleone? Ecco. Perire là; o ricacciandoci, affogarci tutti in questo mare, che di notte o di giorno vogliam passare.
Note
- ↑ Il vero nome di quell’ufficiale era Pagani Costantino da Borgomanero. Aveva 23 anni, e veniva con finto nome perchè disertato dall’esercito piemontese.
- ↑ Come curiosità è bello a leggersi nella Storia Documentata della Diplom. in Italia (Nicomede Bianchi, Vol. 8), un Dispaccio del Cardinale Antonelli che si riferisce alla ritirata di Garibaldi da Parco.
- Eccolo
«A mons. Delegato Pesaro, Ancona, Macerata.
Roma 28 maggio 1860.Si ha da Napoli quanto segue: Il 25 le R.R. Truppe riportarono una segnalata vittoria. Garibaldi, battuto per la seconda volta al Parco, perduto un cannone e sconfitto alla Piana dei Greci, fuggiva inseguito dalla milizia verso Corleone. Gravi dissensi fra i ribelli.
Firmato Cardinal Antonelli.»
E già aveva dato notizie del fatto d’arme di Calafatimi (15 maggio) con quest’altro dispaccio agli stessi mons. Delegati.Roma 19 maggio 1860.
«Le bande di Garibaldi energicamente attaccate alla baionetta dalle R. R. truppe presso Calatafimi sono state messe in piena rotta, lasciando sul campo di battaglia le loro bandiere e gran numero di morti e di feriti, fra i quali uno dei capi che le comandavano.
f.to Card. Antonelli.»
- ↑ Alessandro Fasola era nato nel 1799 e morì il 22 aprile del 1881. Uno dei giorni che precedettero la spedizione di Garibaldi capitò in una stazione del Novarese, dov’era sindaco di non so qual borgo. Vide da una vettura del treno che arrivava affacciarsi Nullo, già suo compagno nelle Guide del 1859, e seppe da lui che tornava da far gente pel Generale, pronto in Genova a partire per la Sicilia. «Ah sì?» disse Fasola a Nullo; e piantato legno e cavallo che aveva lì fuori; tal quale si trovava, con una grossa somma riscossa poco prima; montò con Nullo egli sessagenario, ma d’impeto e giovane quanto i più giovani di quei tempi.