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mi pare un cavaliero non ancora vissuto in nessun poema. Non è l’Eurialo di Virgilio, non quell’altro dell’Ariosto; è un non so che di moderno, nemmeno: è una gentilezza dell’avvenire. Si vorrebbe essere una donna, e amarlo e non amata morire per lui.

Con Manci veggo sovente quel Damiani, che, se fossi scultore, getterei in bronzo; lui e il suo cavallo, alti, piombanti sopra un viluppo di teste e di braccia, quale mi rimase impresso a Calatafimi nel momento della bandiera. Nel secondo giorno del bombardamento lo vidi appoggiato a uno stipite d’un gran portone del palazzo Serra di Falco in Piazza Pretoria, forse là pronto pel Generale, perchè nel portico scalpitava il suo cavallo sellato. — Quella era la faccia di Calatafimi. Mentre che io passai egli parlava tra sè. E mi parve che guardasse ora il palazzo dov’era il Dittatore, ora il convento di Santa Caterina lì allato, che ardeva dal tetto e vi cadevano le bombe. Forse