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XVII.

— Nemmeno questo si può dire, — ricominciò Momina lamentosa, quando ormai dentro il buio travedevo le facce vagamente, — meno male che hai spento, cara. Ti capaciti che di una cosa che poteva esser bella e avere un senso, hai fatto un caso personale, un dramma isterico?... Hai sentito quel che dice Clelia?

Aveva sentito, e doveva esser rossa come il fuoco. Non credo che piangesse piú né che avesse paura. — Voi due in questo non c’entrate, — disse cattiva, con la sua voce angolosa. — Ho ventitré anni, conosco la vita. Non ce l’ho con nessuno. Parliamo d’altro, vi dispiace?

— Dicci almeno che cosa si prova. A chi si pensa in quel momento. Ti sei guardata nello specchio?

Non parlava canzonando ma con voce bambina come se adesso recitasse. Anche prima, quando avevano spento, mi era parsa una scena di teatro. Di nuovo mi venne il sospetto che quel giorno sulla barella non ci fosse addirittura stato nessuno.

Rosetta disse che non s’era guardata allo specchio. Non ricordava se nella stanza c’erano specchi. Anche allora aveva spento la luce. Non voleva veder niente, nessuno, soltanto dormire. Aveva un grosso un terribile mal di testa. Che a un tratto era passato, guarito, lasciandola distesa e felice. Com’era felice, le pareva un miracolo. Poi s’era svegliata, all’ospedale, sotto una lampada che le faceva male agli occhi.

— Seccata? — mormorò Momina.

— Uh, — disse Rosetta, — svegliarsi è orribile...

— Ho conosciuto una cassiera a Roma, — dissi, — che a forza


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