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sarebbero venuti da Roma a inaugurarlo. Becuccio non aveva mai visto una sfilata di modelli e mi chiese se c’erano ammessi anche gli uomini. Si lamentò che il suo lavoro finiva sempre con gli infissi e prima dell’ultima mano di biacca. Gli dissi che l’avremmo invitato.

— Tirano su in borgo Dora un altro palazzo, — mi disse. — Il geometra manda me.

Mi raccontò che da due anni che faceva quel lavoro non aveva ancora visto una stanza ben sistemata. L’impresa aveva fretta alla fine. Mi consigliò di starci attenta, negli ultimi giorni.

Mi versava da bere. Dovetti fermargli la mano. Gli chiesi se voleva ubriacarmi. — No no, — rispose, — almeno il vino pago io.

Poi si parlò dei giornalieri che stavano fissando i palchetti. Becuccio rideva. — Chissà l’ebanista di Palazzo reale. Lo metterei a far palchetti, quel monarchico.

A un certo punto schiacciò la sigaretta e disse che sapeva perché stasera era uscito con me.

Lo guardai. — Sí, — disse lui, — quest’è la mancia.

— Che mancia?

— Domenica avremo finito. La mia parte sarà finita. E lei mi fa questo regalo.

Lo guardai. Parlava con buonumore. Rideva dagli occhi, contento di sé.

— Le sembra un regalo?

— Avrei voluto fosse prima, — disse lui. — Ma lei è furba. Ha aspettato alla fine.

Mi sentii caldo alla faccia. — Stia attento che sono ubriaca, dissi. — Non ho niente da perdere.

Lui toccò la bottiglia. — Non ce n’è piú — . Chiamò la donna.

Gli trattenni la mano. — Neanche per sogno. Adesso andiamo dagli amici.

Uscimmo sul viale. Mi chiese se davvero ci tenevo ai suoi amici, se volevo vederlo giocare al biliardo.

Gli dissi: — Si vergogna di me?

Subito mi prese il braccio (c’eravamo incamminati) e disse che tutte le donne sono uguali: «guarderò mentre giochi», dicono, poi non ci stanno, fanno come dal dentista, s’annoiano. — Portarci lei non mi conviene. Non starei piú né con lei né sul biliardo. Non posso mica comandarla...


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