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XXVIII.

Fortuna che Becuccio non era salito. Li trovai che avevano addobbato di nero un grosso scarabocchio su un catafalco e acceso intorno quattro candele. Parlavano di Parigi, e naturalmente Momina diceva la sua. Chiesi che cosa succedeva. La Nene, vestita di velluto rosso, mi disse disinvolta che Loris celebrava la morte del suo secondo periodo e che avrebbe fatto un discorso polemico. Ma il vocio era forte, e Loris rintanato sul letto ruminava qualcosa per conto suo, fumando con gli occhi chiusi. C’era molto fumo e diverse facce che non conoscevo. C’era il vecchio pittore ch’era venuto con noi a Saint Vincent, c’era la piccola signora in raso dagli occhi libidinosi, c’era quel Fefé del veglione, c’era Mariella, bionda e vociante. Non vidi subito Rosetta; poi la trovai che fumava nel vano della finestra, un piccolino mezzo gobbo le stava davanti, e lei carezzava un gattino che si teneva sul braccio.

— Come va? — le dissi. — È suo?

— È venuto dai tetti, — mi disse. — Nessuno l’aveva invitato.

Lo studio era abbastanza in ordine; su un tavolo vicino al lavandino c’erano piatti di antipasti e di dolci, bottiglie, qualche bicchiere. Tutti avevano già in giro, per terra o tra le mani, un bicchiere. Pensai che quel giorno la Nene doveva aver lavorato quasi quanto me, ma che per lei tutto finiva con la notte.

Le voci e i discorsi che scoppiavano erano già di gente tocca. Io mi tenni in disparte, non salutai nemmeno tutti, entrando; trovai da sedermi e da bere, e poggiai la testa contro il muro. Su tutte salí la voce di Mariella che parlava di un teatro di Parigi e di una ballerina negra che non era la Baker.

— Mangiate, mangiate, — esclamava la Nene, preoccupata.


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