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XXIX.

La Nene ci supplicò di aspettare se venisse ancora qualcuno, di mangiare, di cantare tutti insieme. Disse a Loris di non essere un porco. Voleva almeno che bevessimo, che aspettassimo mezzanotte.

— È mezzanotte, — le dissero. — Non vedi ch’è già buio?

— Poi torniamo, — le disse Mariella.

— Portiamo il gatto? — disse un altro.

Per uscire, qualcuno accese la luce e tutti avevano facce stravolte. Persi di vista Rosetta e Momina; mi toccò scendere col gobbo e con Fefé. Giú dalla scala era un baccano; la voce di Loris rimbombava. Io pensavo di andarmene ma Fefé mi diceva sciocchezze e non vedevo piú le altre sul viale. Insomma li seguii nell’osteria di via Calandra.

Non è una viuzza e ricorda un poco via Margotta. L’automobile di Momina era già ferma davanti alla bettola, e dentro la bettola era una confusione; la gente al banco ci guardava ostile. Va bene che noialtre potevamo anche essere ragazze delle case dirimpetto, ma a quell’ora e tutte insieme? in giro coi clienti? Queste cose io le immaginai, ma i ragazzi — lo stesso Loris — le dicevano forte. Mi resi conto ch’era tutta una burla che divertiva i ragazzi e che noialtre c’eravamo prestate da sceme. Non capivo Momina cascarci cosí. Ma Momina e Rosetta s’erano già sedute ai tavolini di latta arrugginita e facemmo circolo, si sedette Mariella, si sedette il pittore, si sedette la Nene. Via via che di noi ne entravano, diventava piú difficile parlarci e capire perché fossimo là. Il padrone fece scostare due ometti coi baffi, che bevevano nell’angolo, e ci ammassò tutti quanti vicino alle cassette di legno dei ligustri, sull’entrata.

Già prima, entrando nella via — c’erano pochi lampioni e fine-


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