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— È una proposta seria?

— Noi siamo già marito e moglie. Lei mi picchia.

— Posso farle da mamma, se vuole.

— Sí sí, — disse lui, e batté le mani, — sí, mamma. Mi ci porti nei prati a raccogliere le lumachine?

Invece ci fermammo su un ballo a palchetto di un paese fuori Torino, e Febo, di buonumore, attaccò lite con una coppia di giovanotti che ballavano insieme e ci tagliavano la strada. Lo minacciarono di fargli un altr’occhio. Era da stupire come Febo, biondo e ossuto, s’arrischiava in quell’ambiente paesano, e non sapeva nemmeno il dialetto. Gli dissi di smetterla e dovetti tirarlo via. Allora pensò di fermarci a cena in una bettola, e mi chiese se non piaceva anche a me scappar da casa e far pazzie.

— Non è mica difficile, — dissi. — Brutto è starci di casa in una bettola.

— Ma sí, — disse lui, — facciamo le brutte cose.

Trovammo un’osteria in fondo a corso Giulio Cesare. In principio Febo si calmò e pensammo a mangiare. Ma l’oste non era piú quello peloso d’Ivrea e in cucina non aveva gran che. Ci portò i piatti una servetta in ciabatte, con gli occhi rossi, che mi guardava le calze, e anche ci guardavano gli altri avventori, una vecchia e certi autisti. La stanza era fredda, fresca d’intonaco e già sporca; pensai che ai miei tempi qui era campagna, strade aperte e campagna. — Le cose che facciamo sono proprio brutte, — dissi a Febo.

Lui cercava d’eccitarsi e trovar buono il vino. La ragazza, coi suoi occhi rossi, ci guardava dal banco. Gli altri adesso giocavano a carte, fumando e sputando.

Finita la frittata, gli dissi d’andarcene. — Eppure dev’esserci un posto... — diceva lui. Uscimmo ch’era buio. Sulle insegne rosse al neon sparse per il corso tirava vento. — Questa città ha il suo bello, — disse Febo. — Lei non capisce, lei vive troppo coi signori.

Salii sulla macchina con una rabbia da strozzarlo. — Siete voialtri e quelle stupide, le Martelli e le Momine, che vi piace far le cose da signori, — gli dissi. — Io ci son nata a Torino. So che cosa vuol dire vedere un’altra con le calze di seta e non avercele...

Mentre litigavamo e lui ridacchiava, si fermò un’altra volta, davanti a un caffè col giardinetto illuminato.

— Qui di notte scorre il sangue, — disse.

La luce veniva dai vetri di uno stanzone a lampadine nude.


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