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XII.
Fermammo la topolino a una villa davanti alle montagne. Eravamo noi due sole. Le altre macchine proseguirono, ci aspettavano a Saint-Vincent, Quei pochi giorni di bel tempo erano bastati a far fiorire le piantine dentro le serre, ma gli alberi del giardino erano ancora secchi. Non ebbi il tempo di guardarmi attorno, che Momina gridò: — Eccoci qua.
Stavolta Rosetta non portava il vestito celeste. Ci venne incontro in sottana e scarpette da tennis, i capelli fasciati da un nastro, come se fossimo al mare. Mi diede la mano con forza, diede l’altra a Momina ma non sorrise: aveva gli occhi grigi e scrutatori.
Spuntò anche la madre, in ciabatte, grassa e asmatica, vestita di velluto. “Rosetta, — gridò Momina, — puoi tornare. Non ci sono piú balli a Torino...
Le informò degli amici, della gita, della comitiva. Mi stupí che Rosetta accettasse il tono scherzoso e parlasse, come lei, disinvolta; mi chiesi se proprio l’avevo vista su quella barella — quanti giorni fa? quindici, venti? Ma forse Momina chiacchierava cosí per aiutarla, per levare lei e noi d’imbarazzo. Dovevano conoscersi bene.
Chi aveva gli occhi spaventati e acquosi, poveretta, era la madre, che davanti a Momina si agitava, e guardava me con apprensione. Era cosí donnetta che si lagnò della vita in campagna, del disagio di stare fuori stagione nella villa. Ma Rosetta e Momina non rincoraggiarono. Finí che Momina le rise in faccia. — Quel cattivo papà, — esclamò, — condannarvi cosí alla prigione. Bisogna evadere, Rosetta. D’accordo?
— Io ci sto, — disse Rosetta a mezza voce.
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