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XXV.

Becuccio era comunista e mi disse che aveva fatto la guerra. Gli avevo chiesto se era stato soldato. — Sono stato in Germania, mi disse.

Allora pensai a Carlotta, se era ancor viva e se mai piú le sarebbe toccato di svegliarsi un mattino come me a una finestra di val Salice davanti a quegli alberi.

— Abbiamo anche il tram, — disse Becuccio.

Scese a pagare, e non facemmo colazione. Il padrone, in mutande e gilè, ci guardò passare senza dir nulla. Io pensavo che le cose importanti succedono sempre dove una non crederebbe. Un alberguccio miserabile, una stanza col catino, lenzuola da entrarci al buio. Fuori Becuccio fumava, nel primo sole.

Rientrai in albergo, sola. Non ero stanca, ero calma e contenta. Becuccio mi aveva capita, non aveva insistito per accompagnarmi. Ero tanto contenta che fui sul punto di dirmi: «Fino a domenica lo vedrò quando vorrò». Ma sapevo che non dovevo far questo; già il gesto di Becuccio di pigliarmi per il mento e guardarmi dentro gli occhi, mi aveva seccata.

In albergo, Mariuccia, che mi portò la colazione, vide il letto intatto e sgranò gli occhi. Pensai che faccia avrebbe fatto se mi avesse veduta un’ora prima. Le dissi che non c’ero per nessuno e che volevo fare il bagno.

Quel mattino telefonai a Febo in via Po. Non c’era. Rispose Becuccio. Mi disse signorina con la voce solita. Lasciai detto di dire certe cose a Febo e fui libera. Cercai Momina al telefono; non c’era. Cercai Mariella: erano andate alla messa per una nobildonna


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