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XIV.

La mattina ero già sotto che bevevo il caffè quando Momina scese. L’avevo lasciata con la faccia affondata nel cuscino tra i capelli corti, e la schiena nuda come la prima sera che l’avevo veduta. Mi comparve davanti tutta in ordine, ma gli occhi li aveva scuri. Venne a sedersi sorridente, posò la borsetta e disse piano: — Come siamo mattiniere.

Prese il caffè e mi guardava. — Vogliamo andarcene? — disse posando la tazza.

— Non è meglio pagare?

— Sarebbe carino, ma tocca a noi? — Mi sbirciò, staccata. — È un bel pensiero per il suo risveglio. Ragazzaccio.

Cosí ce ne andammo. Non disse altro. Salimmo in macchina nella rimessa e fummo subito in campagna.

— È presto per passare dai Mola. Respiriamo un po’ d’aria. Lo conosci il Canavese?

Cosí girammo il Canavese, ch’era tutto velato di banchi di nebbia, e attraversammo due o tre paesi.

Attenta alla strada, lei disse a un tratto: — Simpatica, vero. Rosetta?

— Che cos’è questa storia di Loris?

— Un anno fa, — disse Momina, — quando Rosetta dipingeva. Prendeva lezioni da lui. Poi ha smesso. Avevano sempre Loris in casa... Tu sai com’è Loris.

— Come l’amico di stanotte, — dissi.

Momina sorrise. — Non proprio.

— Non è mica...? — dissi a un tratto, e mi fermai.


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