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XXIV.
Momina s’interessava di tanto in tanto al negozio e mi chiedeva se ce l’avremmo fatta a inaugurarlo in primavera.
— Sono stufa, — dicevo, — sono scoraggiata. Ormai dipende da Febo.
— Ma tu ci lavori molto.
— Con tante vetrine belle che ci sono già a Torino, — dissi, che cosa vuoi fare?
Una sera presi Becuccio e gli chiesi se aveva una ragazza. Lui scherzò, senza compromettersi. Gli dissi se voleva tenermi compagnia, andare insieme da qualche parte, mi lasciavo condurre. Scherzò un poco, non si fidava a scegliere.
— È inteso, — dissi, — che si fa alla romana.
Mi guardò con gli occhi allegri, gonfiando il respiro. Aveva tutto, giacca a vento, sciarpa, bracciale di cuoio. Si toccò il mento con due dita, dubbioso.
— Stasera, — dissi. — Non domani. Subito.
— Mi faccio la barba, — disse.
— Esco tra mezz’ora.
Ricomparve puntuale. Doveva essere corso chi sa dove a provvedersi di soldi. S’era passato del profumo nei capelli.
Disse: — Mangiamo e poi andiamo al cine.
— Al cine ci vado sola. Stasera voglio girare.
— E allora giriamo.
Mi portò a cena in un’osteria toscana di corso Regina. Mi disse: — È sporco, ma si mangia bene.
Gli dissi: — Becuccio, non truffi. Dov’è che va coi suoi amici?
— Ci andiamo dopo, — disse lui.
Mangiammo e bevemmo, parlando del negozio e di quando
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