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XX.

Rosetta tornò, giorni dopo. Anche stavolta si fermò esitando sulla porta e fu Becuccio a vederla e disse: — Quella non cerca me.

Quel mattino facevamo fotografie da mandare a Roma, e Febo accendeva e spegneva i riflettori delle nicchie ritoccando la posa di una statuina che ci serviva da campione. Scherzò con Rosetta e le disse che a Ivrea era stato sedotto e abbandonato da due donne cattive. Poi parlò di fotografarci noi due davanti alle vetrine per far sapere a Roma che cosa sono le donne di Torino.

— Ci vorrebbe Mariella, — dissi.

Finimmo a parlare della recita, e Rosetta disse che adesso i fondali li preparava la Nene. — È tutto quello che sa fare, — disse Febo.

Chiesi a Rosetta se non dipingeva piú.

— Era uno scherzo, — disse. — Non si può scherzare sempre.

— Queste ragazze di Torino, — disse Febo, — sanno dipingere, recitare, suonare, ballare, far la calza. Ce n’è che non smettono mai.

Rosetta mi guardò malinconica. Dal suo abito mi ricordai che fuori c’era il sole, una bella giornata di marzo.

— Soltanto i mestieri che si fanno per fame, — disse Rosetta, non si smettono. Vorrei dovermi guadagnare la vita facendo la calza.

Febo le disse che non basta la fame per riuscire: il mestiere bisogna saperlo come dei morti di fame e praticarlo come dei signori.

— Non muore di fame chi vuole, — disse Rosetta, con quegli occhi fermi, — e il signore non è sempre chi ha denari.

Becuccio li stava ascoltando, e il fotografo — cravatta nera come Loris — si fregava le mani.


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