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XXX.

L’indomani Becuccio mi portò Febo in via Po. Fu una domenica vuota, inutile, perché passammo la mattina a ritoccare, a spegnere e accendere lampade, a fumare sigarette seduti in poltrona. Madame non era arrivata. La solita storia. Invitai Febo e Becuccio a colazione in albergo, per potermene stare zitta e riposare. Si attaccarono a parlare di politica e Febo diceva che in Russia non c’è libertà. Di far che cosa? gli chiese Becuccio. Per esempio, diceva Febo, di mettere su un negozio come il nostro, di arredarlo come piaceva a noi.

Becuccio gli chiese per quanta gente era fatto il nostro negozio. Febo disse che non importava la gente perché tanto il buon gusto ce l’abbiamo in pochi. Becuccio gli chiese se noi due, che avevamo diretto i lavori, eravamo stati liberi di fare di nostra testa. Febo rispose che in Italia era ancora possibile a un artista di far di sua testa perché i padroni che pagavano dovevano tener conto dei gusti del pubblico.

— Il pubblico vuol dire la gente, — gli rispose Becuccio, — e la gente non importa perché il buon gusto ce l’abbiamo in pochi. Chi decide, insomma?

— Decide il piú furbo, — disse Febo.

Becuccio disse che lo sapeva benissimo ma che questo era il male. Fu l’ultima volta che parlai con lui. Restò un momento dopo che Febo se ne andò, e mi chiese se tornavo a Roma presto. Gli dissi, se passava da Roma, di farsi vivo. Non mi chiese l’indirizzo di Roma. Sorrise, mi tese la mano (non portava piú il bracciale) e se ne andò.

Stetti sola tutto il giorno; passeggiai dalle mie parti in via della


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