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— gridò. — Mi trattano come un uomo ubriaco. Che almeno lo sia.

Mi tremavano ancora le mani e stetti zitta. Lasciai che corresse. Ma quello schiaffo mi pareva di averlo preso io, e non mi calmavo. Mi dicevo: «Non è peggio degli altri. Nel suo ambiente sono tutti cosí». Me lo dicevo e ridicevo, e mi chiedevo se val la pena di darsi da fare per arrivare dov’ero arrivata, e non essere piú niente, essere peggio di Momina che almeno viveva tra i suoi. Le altre volte in questi casi mi ero consolata pensando che la mia vita non valeva per le cose che avevo ottenuto, per il posto che mi ero fatto, ma perché me l’ero fatto, perché le avevo ottenute. «Quest’è un destino come un altro, — dicevo, — e me lo sono fatto io». Ma le mani mi tremavano e non riuscivo a calmarmi.

Finalmente dissi secca che volevo scendere. Aprii lo sportello. Allora Febo mi baciò a casaccio mugolando e fermò. Saltai a terra e me ne andai.


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