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Guardai di nuovo la mia cameriera. Era già corsa a una sedia in fondo al corridoio, e tornava col vassoio del tè.
— S’era sentita male, che disgrazia, — disse entrandomi nella stanza. Ma le brillavano gli occhi e non si tenne. Mi disse ogni cosa. La ragazza era entrata in albergo al mattino — veniva sola da una festa, da un ballo. S’era chiusa nella stanza; non s’era mossa tutto il giorno. Qualcuno aveva telefonato, l’avevano cercata; un questurino aveva aperto. La ragazza era sul letto, moribonda.
La cameriera continuava. — Prendere il veleno a carnevale, che peccato. E i suoi sono cosí ricchi... Hanno una bella villa in piazza d’Armi. Se si salva è un miracolo...
Le dissi che volevo dell’altr’acqua per il tè. E che non si fermasse piú sulle scale.
Ma quella notte non dormii come avevo sperato e girandomi nel letto mi sarei data dei pugni per aver messo il naso nel corridoio.
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