Pagina:Pavese - Romanzi Vol. 2, Einaudi, 1961.djvu/276


Una specie di bufalo. Costruisce motociclette e gira per la fabbrica in tuta.

— Ho veduto la madre.

— Non conosco la madre. Brava gente. Ma la figliola è pazza.

— Pazza secca?

Morelli si rabbuiò. — Chi ha provato una volta ci ricasca.

— Cosa dice la gente?

— Non lo so, — disse lui. — Questi discorsi non li ascolto. Sono come i discorsi del tempo di guerra. Tutto può darsi. Può essere un uomo, un dispetto, un’ubbia. Ma la causa vera è una sola.

Si toccò la tempia col dito. Tornò a sorridere, con gli occhi. Tese la mano sulle arance e mi disse: — L’ho sempre vista mangiar frutta, Clelia. Quest’è la vera gioventú. Lasci i fiori ai romani.

Quel tale calvo della storiella muggí qualcosa al cameriere, buttò il tovagliolo e se ne andò, grasso e solenne. Ci fece un inchino. Io gli risi in faccia; Morelli, impassibile, gli fece un cenno con la mano.

— L’uomo è il solo animale, — osservò, — che guadagna a vestirsi.

Quando venne il caffè, non mi aveva ancora chiesto che cosa facevo a Torino. Probabilmente lo sapeva e non c’era bisogno di dirglielo. Ma nemmeno mi chiese se mi fermavo poco o molto. Questo mi piace nella gente. Lasciar vivere.

— Vuole uscire stasera? — mi disse. — Torino di notte.

— Devo prima dare un’occhiata a Torino di giorno. Mi lasci sistemare. Lei è qui in quest’albergo?

— Perché non viene a casa mia?

Doveva pur dirmelo. Lasciai cadere la proposta come se fosse un prezzo assurdo. Gli dissi di passare, se mai, a prendermi alle nove.

Lui ripeté: — Posso ospitarla a casa mia.

— Sciocco, — gli dissi, — non siamo ragazzi. Verrò a farle visita un giorno.

Quel pomeriggio me ne andai per conto mio, e lui la sera mi accompagnò a un veglione.


272