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IV.

Ma prima di lasciarmi, quella notte, Morelli mi disse qualcosa. Mi disse che avevo dei pregiudizi — uno solo, ma grosso: credevo che lavorare e farsi strada, o anche soltanto lavorare per vivere, valesse le qualità — qualcuna scema, d’accordo — della gente che nasce bene. Mi disse che parlando con astio di certe fortune, avevo l’aria di pigliarmela col piacere stesso di vivere. — In fondo, — mi disse, — lei Clelia non vedrebbe di buon occhio nemmeno una vincita alla Sisal.

— Perché no? — gli dissi.

— Ma sarebbe lo stesso che nascere bene. Sarebbe un caso, un privilegio...

Non risposi: ero stanca, gli tirai il braccio.

Morelli disse: — C’è poi questa gran differenza tra fare nulla perché si è troppo ricchi e fare nulla perché si è troppo poveri?

— Ma uno che arrivi da sé...

— Ecco, — disse Morelli, — arrivare. Un programma sportivo — . Storse appena la bocca. — Lo sport vuol dire rinunciare e morir presto. Perché, chi può, non dovrebbe fermarsi per strada e godersi la giornata? È sempre necessario aver patito e uscire da un buco?

Non rispondevo e gli tiravo il braccio.

— Lei odia il piacere degli altri, Clelia, questo è il fatto. Lei Clelia fa male. Lei odia se stessa. E pensare che è nata di razza. Faccia allegria intorno a sé, smetta il broncio. Il piacere degli altri è anche il suo...

L’indomani andai in via Po, senza annunciarmi, senza telefonare agli impresari. Non sapevano ch’ero già a Torino; volevo avere un’impressione schietta di quel ch’era fatto e di come era fatto.


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