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conto — . Mancava sempre qualcuno, quello che aveva cominciato. Madame fu li lí per convocare anche Febo, poi smise l’idea. Il discorso piú filato lo facemmo a tavola al Columbia, mentre gli altri ballavano. Non la convinsi che tanto valeva aprire addirittura a maggio coi modelli d’estate, ma mi feci un’idea di quello che avevano in mente. Qualcuno aveva detto che Torino è una città cosí difficile. Spiegai che anche a Torino ci sono dei limiti.

Maurizio anche lui si seccò dell’improvvisata. Credette suo dovere aspettarmi, starmi accanto, venirmi dietro. Ostentatamente non mi parlò di Torino. Io non gli parlai di Morelli. M’accorsi che ero molto piú sola a Roma, arrampicandomi per quelle strade o entrando a prendere il caffè da Gigi, che non a Torino nel mio letto d’albergo o in via Po. L’ultima sera rientrammo tardi sotto un vento che muoveva i lampioni e faceva scricchiolare le persiane. Non gli dissi che da certe mezze parole e silenzi di Madame c’era caso che mi affidassero Torino e di là non mi dovessi piú muovere. Gli dissi di starsene a letto l’indomani e non venire alla stazione.

A Torino piovigginava. Tutto era fresco, malinconico e nebbioso; se non fosse stato marzo avrei detto novembre. Quando Febo sentí che rientravo da Roma, riprese subito a ghignare sulla sigaretta tanto che il fumo gli andò per traverso, ma non era troppo sicuro di sé. Quando gli dissi quella storia del barocco, mi guardò divertito.

— E adesso, Clelia, — disse piano, — come farà? — Mi cercherò un arredatore che s’intenda di barocco, — dissi.

— Torino è piena di barocco. Ce n’è dappertutto, ma nessuno è barocco abbastanza...

— Questo a Roma si sa, — dissi, — ma non sanno che cos’è il barocco...

— Facciamo cosí, — disse lui, e cominciò a buttar giú schizzi sulla carta.

Schizzò e fumò tutta la sera. Era in gamba. Io guardavo quella mano rossa e ossuta, senza pensare ch’era sua. Mi faceva rabbia che sapesse tante cose, giovane com’era, che ci scherzasse cosí, che per lui fossero come dei denari che si era trovato in tasca senza averceli messi. Tempo prima mi aveva raccontato che lui alla scuola d’architettura era entrato soltanto in certi giorni che sapeva di trovarci una collega. Che il mestiere l’aveva imparato girando il mondo con sua madre, vecchia pazza, che montava e smontava le


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