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XIX.

Non è facile sfuggite alla gente sfaccendata. Rientrando mi aspettava già un biglietto d’invito per un’asta di lusso, siglato da Morelli, che mi avrebbe telefonato l’indomani. Cominciai a rendermi conto che, se arrivando a Torino mi fossi affittata una stanza, non avrei mai incontrato né Morelli né nessuno. Tranne Febo, purtroppo. Ma la vita che facevo era quella — inutile rimpiangere il tranquillo disordine di Roma. Queste cose se ne vanno da sé. Molte volte negli anni passati mi ero trovata in un giro simile. C’era quasi da ridere: mi era rimasto Maurizio. Quanto tempo sarebbe rimasto?

Da qualche giorno l’impresa di via Po mi scoraggiava. Me l’ero voluta. Dovevo correre, pensare io a tutto, dar fondo a Torino. Venti anni prima non l’avrei sognato. Da quando ero cosí in gamba? Forse anch’io facevo il teatro come gli sfaccendati di Torino, e tutto sommato era giusto che li avessi nei piedi se lavoravo per loro. Quando mi vengono di queste idee vorrei poter scappare, piantar tutto, ritornare all’atelier.

Su quella storia del mobilio antico anche Becuccio si mise a dir la sua. Sapeva di certi ebanisti, padre e figlio, che prima della guerra lavoravano a Palazzo reale e ci avevano fatto dei restauri delicati. Andammo a cercarli. Stavano in fondo a un cortile in una viuzza, sporca e stretta, ma dall’interno era un palazzo vecchio, c’erano perfino degli alberi e una statua. L’ebanista, un vecchietto, toccandosi gli occhiali sospettoso, si mise a cianciare, cosí all’aperto nel cortile. Quando capí quel che volevamo, mi disse che era un peccato mettere dei mobili belli in un negozio. Bastava della roba moderna, di compensato e di smalto. Gli dissi che se n’era già parlato, ma che volevo vedere qualcosa. Che cosa volevo vedere, mi


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