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E Morelli mi batteva la mano sul braccio e diceva: — Coraggio. Ci siamo arrivati. Se sarà necessario arriveremo fino a casa.

— È facile, — dicevo, — per le figlie e le signore di famiglia vestirsi come sono vestite. Non hanno che da chiedere. Non hanno nemmeno da far becco l’amico. Parola che preferisco vestire le vere puttane. Quelle almeno sanno che cos’è lavorare.

— Si vestono ancora le puttane? — diceva Morelli.

Avevamo cenato e ballato. Avevamo conosciuto molta gente.

Morelli aveva sempre qualcuno alle spalle che gli gridava: — Poi ci vediamo — . Qualche faccia e qualche nome li riconobbi: erano gente passata da Roma nel nostro salotto di prova. Riconobbi qualche vestito: un abito lungo a paniere di una contessa che aveva da noi il suo mannequin. Io stessa l’avevo spedito giorni prima. Una piccola signora in volants mi fece perfino un sorrisetto; si voltò il cavaliere; riconobbi anche lui; s’erano sposati l’anno prima a Roma. Questo si divincolò in segno di saluto — era un lungo biondo diplomatico — , poi subí uno strattone: suppongo che la moglie lo richiamasse al dovere ricordandogli ch’ero la sarta. Fu cosí che il sangue cominciò a bollirmi. Poi venne una colletta per i poveri ciechi: un signore in smoking con un berretto rosso di carta fece un discorso a barzellette sui ciechi e sui sordi, e due signore bendate corsero per la sala, acchiappando gli uomini, che pagavano un tanto e poi potevano baciarle. Morelli pagò. Poi l’orchestra tornò a suonare e qualche crocchio cominciò a far baccano, a cantare e rincorrersi. Morelli tornò al tavolino con una grossa signora in lamé rosa — la pancia d’un pesce — , e un giovanotto e una signora piú fresca che finivano allora di ballare e si lasciarono cadere di schianto sul divano. Subito l’uomo rimbalzò.

— La mia amica Clelia Oitana, — diceva Morelli.

La grossa signora si sedette e mi guardò facendosi vento. La seconda, in scollato viola aderente, mi aveva già tutta frugata con gli occhi e sorrise a Morelli che le accese la sigaretta.

Non ricordo i loro primi discorsi. Tenevo d’occhio quel sorriso della giovane. Aveva l’aria di avermi sempre conosciuta, di prendermi in giro me e Morelli, tutti, eppure adesso non guardava che il suo fumo. L’altra rideva e cianciava sciocchezze. Il giovanotto m’invitò a ballare. Ballammo. Si chiamava Fefé. Mi disse qualcosa di Roma, tentò d’incollarsi e di stringermi, mi chiese se proprio Morelli era il mio cavaliere. Gli dissi che non ero un cavallo. Lui


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