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XI.

Soltanto le ore che passavo in via Po non mi parevano perdute. Mi toccava anche girare in cerca di questo e quello; qualcuno lo vedevo in albergo. Col mercoledí delle Ceneri, muratori e imbianchini avevano finito: restava il lavoro piú difficile, l’arredamento. Fui sul punto di rimettermi in treno e andare a ridiscutere tutto; al telefono, con Roma non ci si poteva intendere. Mi dicevano: — Ci fidiamo; fai tu — e il giorno dopo telegrafavano che aspettassi una lettera. L’architetto ambientatore venne a cena con me in albergo: tornava adesso da Roma e aveva una cartella piena di bozzetti. Ma era giovane e tergiversava; non volendo compromettersi, mi diede ragione: a guardarli di qua, tutti i bei progetti di Roma crollavano. Bisognava fare i conti con la luce dei portici e tenere presenti gli altri negozi di piazza Castello e di via Po. Mi convinsi che aveva ragione Morelli: il sito era impossibile — un quartiere come a Roma non ce ne sono piú, forse soltanto fuori porta. La gente passeggia in via Po soltanto la domenica.

Quest’architetto era rosso, testardo e peloso, un ragazzo: parlava sempre di ville in montagna; cosí scherzando, mi schizzò il progetto di una casetta di vetro per prendere il sole d’inverno. Mi raccontò che lui viveva molto in giro, come me; ma diversamente da me che potevo indossare anche domani un modello che mi piacesse, nelle sue ville ci stavano soltanto quei bestioni che avevano i mezzi, quasi sempre rubati. Lo misi sul discorso dei pittori di Torino, di quel Loris. Lui si montò, prese fuoco, disse che preferiva gli imbianchini. — Un imbianchino conosce il colore, — disse, un imbianchino potrebbe domani, studiando, diventare affrescatore o mosaicista. Chi non ha cominciato a dar la calce a una parete non sa cos’è decorazione. Questi pittori di Torino per chi dipin-


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