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VII.

Non passarono due giorni che un mattino Mariella mi cercò al telefono. Non avevo piú veduto nessuno e passavo tutto il tempo in via Po. La voce della ragazza rideva, insisteva, sospirava con volubilità. Voleva che vedessi i suoi amici, che lo facessi per lei, li aiutassi. Potevo trovarmi da lei quel pomeriggio a prendere una tazza di tè? O meglio, volevamo passare un momento nello studio di Loris?

— Cosí li incoraggeremo, — mi disse. — Sapesse come sono bravi.

Passò a prendermi in via Po, vestita di un allegro pellicciotto alla cosacca. La casa era oltre Po. Seguimmo i portici intorno alla piazza e Mariella scansandosi non gettò una sola occhiata ai baracconi. Io pensavo come pochi giorni mi avevano ormai staccata da Roma, come a Torino trovavo già gli impegni e le compagnie di chi c’è sempre vissuto. Anche Maurizio, da quel mattino dell’arrivo, non mi aveva piú mandato narcisi.

Chiacchierando Mariella mi diceva molte cose della vita di Torino e dei negozi. Per averli sempre visti dalla parte del cliente, li conosceva bene. Giudicare un negozio dalla vetrina, è difficile per chi non fa le vetrine. Mariella invece li capiva. Mi raccontava della nonna che ancora adesso era il terrore delle sarte.

Arrivammo in cima a una scala sporca e mi dispiacque. Avrei voluto continuare a discorrere. Mariella suonò.

Tutti gli studi dei pittori sono uguali. Ci regna il disordine di certi negozi, ma fatto apposta e studiato. Non si capisce quand’è che lavorino, sembrano sempre disgustati della luce. Ci trovammo Loris sul letto sfatto — senza farfalla stavolta — e la ragazza dai capelli a frangetta ci aperse. Era vestita di un soprabito spelato e


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