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VIII.

Entrò con quell’aria malcontenta, da padrona, ch’era sua. I suoi guanti valevano da soli tutto lo studio. La Nene, che le aprí l’uscio, sembrava la serva. Si salutarono ridendo.

— Ma lei frequenta tutti, — disse vedendomi.

— Non è difficile, a Torino, — risposi.

Girò qua e là, s’accostò ai quadri, e capii che era miope. Meno male. Tenni d’occhio Mariella.

— Accendete, — ci disse, — non vedete che è notte?

Con la luce la finestra sparí, e il quadro divenne una poltiglia di facce scorticate.

— Nessuno ci sta, — disse la Nene. — Non ci sto neanch’io. Si perde tempo per delle stupide storie e ancora non sappiamo che cosa si farà. Ha ragione Clara, reciteremo al buio, come una radiotrasmissione...

Momina sorrise, in quel suo modo scontento. Non le rispose, e disse invece a Loris che aveva parlato con un tale che aveva detto questo e quello, e Loris seduto sul letto brontolò qualcosa, e si teneva la caviglia; Mariella intervenne a voce alta e chiacchierarono e risero, e la Nene disse: — Roba da matti, — e del teatro non parlarono piú. Adesso Momina portava lei il discorso e venne fuori la storia di un Gegé di Piovà che incontrando un’amica d’infanzia nel bar di un grande albergo — non si vedevano da anni — l’aveva accostata: — Ciao — Ciao — Mi hanno detto che ti sei sviluppata, e cacciandole la mano nel seno ne aveva estratta una mammella, e ci avevano riso entrambi insieme al barman Filippo e agli astanti. Risero Momina e la Nene; Mariella fece una smorfia; Loris saltando giú dal letto disse: — È vero. Ha le poppe magnifiche.


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