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XIII.

Non ci fu piú tempo di parlarne. Le ragazze ci videro, ci vennero intorno, e spuntarono altre facce di comuni conoscenti, persino qualcuno del mio albergo. Adesso che ci seppero nel bar, Febo, la Nene e quel Pegi, che giocavano e perdevano con insolenza, ricomparvero piú volte a bere cicchetti su cicchetti. Finí che la Nene e il ragazzo Pegi si litigarono mezzo ubriachi, tanto che il vecchio pittore e Momina s’intromisero perché ripartissimo. — Anche noi veniamo, — disse Momina.

Io intanto giravo per le sale, ma la gente affollata intorno ai tavoli da gioco mi dà i nervi, e c’erano grandi quadri alle pareti, paesaggi e donne nude, quasi a dire che lo scopo di tutti i giocatori è star bene e mantenere donne nude in pelliccia. Quel che fa rabbia è dover riconoscere che tutto si riduce proprio a questo e i giocatori hanno ragione. Hanno ragione tutti quanti, anche quelli che ci vivono, anche le vecchie decadute che covano con gli occhi le puntate degli altri. Per lo meno, giocando non c’è differenza nati bene o nati male, puttane, borsaioli, fessi o furbi, tutti vogliono la stessa cosa.

Venne il momento che la Nene disperata si buttò su una sedia e gridava: — Portatemi via, portatemi via — . Allora c’incamminammo alle macchine e caricammo gli altri. La Nene che soltanto allora s’accorse di Rosetta, cominciò a invocarla e volerla baciare. Rosetta compiacente le fece smettere il capriccio accendendole la sigaretta dal finestrino.

Partirono. Adesso toccava a noi. Ma guardandoci in faccia, ci venne da ridere. — Andiamo a cena a Ivrea, — disse Momina sollevata, — poi torniamo a Montalto.


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