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V.

La sera, Morelli mi portò in un salotto. Mi stupirono i molti ragazzi che ci trovai: si dice sempre che Torino è una città di gente vecchia. È vero che giovanotti e ragazze facevano crocchio da parte come fossero tanti bambini, e noi grandi, seduti intorno a un sofà, ascoltavamo una vecchia permalosa, col nastro al collo e la mantellina di velluto, raccontare non so che storia di una carrozza e di Mirafiori. Tutti tacevano davanti alla vecchia, qualcuno fumava come di nascosto. La vocetta irritata si fermava quando entrava qualcuno, lasciava che si scambiassero i convenevoli, e alla prima pausa riprendeva il suo discorso. Morelli, con le gambe accavallate, ascoltava attentissimo, e qualche altro signore fissava accigliato il tappeto. Ma poco alla volta mi accorsi che non era necessario badare alla vecchia. Nessuno pensava a risponderle. Semivoltata sulla sedia, qualche donna chiacchierava sottovoce, o si alzava e parlava con altri attraverso la sala.

Questa sala era bella, coi lampadari a brillanti, e un pavimento veneziano che fuori del tappeto si sentiva sotto il piede. Era anche acceso il caminetto, di fianco al sofà. Io senza muovermi guardavo le pareti, le stoffe, le bomboniere. Ce n’era un po’ troppe, ma tutta la stanza era fatta cosí, come un cofano, e i cortinaggi coprivano le finestre.

Mi sentii toccare la spalla, chiamare a nome, e mi vidi davanti, lunga e allegra, la figlia della padrona di casa. Scambiò con me qualche parola e poi mi chiese se conoscevo questo e quello.

A bassa voce risposi di no.

— Lo sappiamo che viene da Roma, — gridò ridendo nel silenzio


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