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X.

In uno di quei giorni — piovigginava — dovetti tornare prima di sera dalle parti della Consolata. Cercavo un elettricista e mi faceva un certo effetto rivedere le vecchie botteghe, i grandi portoni nelle viuzze, e leggere i nomi — delle Orfane, di Corte d’Appello, Tre Galline — riconoscendo le insegne. Nemmeno i ciottoli delle strade erano cambiati. Non avevo l’ombrello e, sotto le strisce strette di cielo in mezzo ai tetti, ritrovavo l’odore dei muri. «Nessuno lo sa, — mi dicevo, — che sei tu quella Clelia». Non osavo soffermarmi e mettere il naso nelle vecchie vetrine.

Ma quando fui per ritornare, non mi tenni. Ero in via Santa Chiara e riconobbi l’angolo, le finestre inferriate, il vetro sporco e appannato. Varcai decisa la piccola soglia che scampanellò, come allora, e passandomi la mano sulla pelliccia me la sentii bagnata. Nell’aria chiusa gli scaffaletti con le mostre di bottoni, il piccolo banco, l’odore di biancheria, eran gli stessi.

C’era di nuovo una lampada verde, che illuminava il registratore di cassa. All’ultimo momento sperai che il negozio fosse stato ceduto, ma la donna magra, dalla faccia ossuta e risentita, che si alzò dietro il banco, era proprio Gisella. Credo che cambiai colore e mi augurai di essere anch’io cosí invecchiata. Gisella mi squadrava, sospettosa, con un mezzo sorriso d’invito sulla bocca sottile. Era grigia, ma in ordine.

Allora mi disse, con un tono che un tempo ci avrebbe fatte ridere tutte e due, se volevo comprare. Le risposi strizzandole l’occhio. Non mi capí e ricominciava la stessa frase. Io la interruppi con la mano. — Possibile? — dissi.

Dopo la prima contentezza e la sorpresa, che non bastarono a


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