Satire (Giovenale)/Prefazione
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PREFAZIONE
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Nel modo che per legge provvidenziale di natura le frutte più gradite al gusto e i fiori più vistosi e olezzanti, anzichè nei luoghi domestici e fra l’amenità dei giardini, si trovano qualche volta tra i sassi e li sterpi delle montagne, e in mezzo all’arene del deserto; così accade spesso d’incontrare li scrittori più liberi e caldi dell’onestà nei tempi più servili e corrotti. Questo pensiero mi sorge nella mente, sempre che io prendo tra le mani i libri di quei due robustissimi ingegni, che tanto si rassomigliano per quel loro modo di scolpire piuttosto che dipingere le cose, Tacito e Giovenale: ambedue nati e vissuti in un secolo fradicio dei vizi più brutti, e tormentato dalla più feroce e bestiale tirannide; ambedue non timidi amici della virtù, quasi da tutti schernita; e censori severi, ma giusti, anzi flagellatori dell’umane nequizie; sia che si coprissero della clamide imperiale, o della semplice toga del cittadino.
A chi legge i loro scritti, e in mezzo a quel disordine morale, in cui era caduta la città regina del mondo, trova tanta elevatezza d’idee, tanta rettitudine di pensamenti, e tanto amore del giusto e dell’onesto, nasce naturalmente il desiderio di conoscere i due grandi scrittori nella loro vita pubblica e privata. Ma questa brama non può essere soddisfatta, perchè nessuno degli storici contemporanei si dette cura di farci conoscere i loro casi; o se alcuno lo fece, il tempo c’invidiò queste notizie. Mentre ci fu chi scrisse la vita di tante nullità, mancarono di un biografo i due più robusti ingegni del secolo; e non è forse irragionevole il sospettare che in quella età di servilismo e di feroce tirannìa, li scrittori si astenessero dal parlarci di loro per paura di compromettersi.
Sicchè dovendo io discorrere di Giovenale, non potrò darne che poche e qualche volta incerte notizie, raccolte da alcuni scoliasti, o dedotte da qualche passo delle Satire, dove il poeta, facendo cenno o di luoghi o di persone o di fatti da noi ben conosciuti, ci mette in grado di raccapezzare qualcosa anche intorno alla sua vita. Esiste, è vero, un brevissimo scorcio o frammento di biografia, che va comunemente sotto il nome di Svetonio; e leggesi in fronte di quasi tutte le antiche edizioni di Giovenale: ma se si esamina attentamente questa scrittura, si vede chiaro, che non potè uscire dalla penna che scrisse le Vite dei dodici Cesari. Svetonio era contemporaneo del Nostro: e storico veritiero e diligente qual fu, scrivendo di lui, ci sarebbe stato cortese di maggiori notizie; o almeno non avrebbe lasciato in dubbio certe cose, che a lui doveano esser note; e affermatene altre, che non son vere. L’autore infatti di quella biografia, dopo aver detto che ignorava, se il poeta era figlio o alunno di un ricco liberto, lo fa morire esule in Egitto: il che è dimostrato falso da più di una testimonianza, e particolarmente da una epigrafe ritrovata, non è gran tempo, nella patria stessa di Giovenale, e pubblicata dal Mommsen;1 sulla quale dovrò ritornare più sotto. Quella povera e magra scrittura dunque non a Svetonio deve attribuirsi, ma sì a qualche antico scoliaste: il quale e dalle parole del poeta, e da ciò che potè raccogliere dalla pubblica voce, avendo messo insieme quella breve accozzaglia di notizie, parte vere e parte false, le dette fuori senza nome; onde molti le presero per cosa di Svetonio, perchè dicesi che Svetonio scrivesse anche le Vite dei letterati del suo tempo: le quali però non giunsero fino a noi. Giorgio Valla nell’edizione veneta delle satire di Giovenale, fatta nel 1486, fa con più ragione autore di questa biografia il grammatico Valerio Probo, vissuto nel secolo secondo; e di questa opinione sono pure il Franke e molti altri. Alla ricordata biografia, che per la sua antichità merita di aversi in qualche conto, si aggiunsero coll’andar del tempo da altri scoliasti e grammatici altre notizie; tanto che oggi fino a dodici testimoni abbiamo delle cose giovenalesche:2 i quali debbonsi tenere per autorevoli in ciò che si trovano tutti d’accordo; ma dove dissentono, non è dovuta maggior fede all’uno che all’altro: e in tal caso, più che la loro testimonianza, siamo liberi di seguire il nostro giudizio.3
Decimo Giunio Giovenale, come egli stesso ci fa sapere, sortì i natali in Aquino.4 L’anno della sua nascita non è certo; ma secondo le congetture del dottissimo archeologo Borghesi, fu il 47 dell’èra cristiana;5 mentre l’Impero trovavasi nelle mani di un vecchio imbecille, e d’una femmina così rotta a lussuria, che la storia della prostituzione non saprebbe trovarne un’altra per farne la pariglia. Della sua infanzia e adolescenza questo solo ci è noto, che studiò la grammatica e la rettorica: e pare che i suoi maestri maneggiassero bene, all’occorrenza, anche il nerbo;6 e non fossero men severi di quel bussatore Orbilio che fece scuola ad Orazio.7 Lasciata la nativa città, e fissatosi alla capitale, declamò, a detta di tutti, fino alla metà del corso di sua vita; cioè dette opera a quei vani esercizi e a quelle ostentazioni rettoriche, in cui erasi ridotta l’eloquenza romana, da che avea perduta la libertà dei Rostri e dei Comizi: e questo facea per semplice fantasia e passatempo, e non per prepararsi alla scuola o al foro, essendo egli in tale stato di fortuna da potere essere ascritto all’ordine equestre;8 e l’appellativo di facondo datogli da Marziale in un epigramma,9 dimostra che si era acquistato qualche nome nell’eloquenza. Fu probabilmente in questo tempo che strinse amicizia con Stazio e Quintiliano, dei quali parla con lode nelle sue Satire;10 e fece la conoscenza di Marziale che, a quanto sembra, non gli andò mai troppo a sangue, se deve giudicarsene dall’assoluto silenzio serbato dal Nostro sul conto dell’arguto e spiritoso autore degli Epigrammi, sebbene costui gli dimostrasse molta tenerezza, e spesso gl’indirizzasse dei versi.11 E infatti un animo libero e incorrotto come si rivela Giovenale ne’ suoi scritti, non poteva dirsela troppo col perpetuo lodatore di un Domiziano, di un Crispino, e di un Paride;12 sui quali il Nostro mena così aspramente il flagello.13 Però mentre nelle sue Satire non dimentica quasi nessuno dei poeti di quel tempo, il nome di costui non vi apparisce nè in bene nè in male. La qual cosa potrà forse parere ad alcuno ingratitudine o freddezza di cuore; e a me sembra invece lodevole e rara indipendenza di carattere, sentimento profondo d’incorruttibile e rigorosa giustizia. Il poeta satirico, se vuole esercitare degnamente l’arte sua e non tradire la pubblica morale, di cui si fa sacerdote, non deve dispensare il biasimo e la lode, come gli consiglia l’interesse, nè per simpatie o per ripicchi; ma secondo il merito delle persone che gli capitano sotto. Le sue bilancie vogliono esser giuste come quelle di Temi; e l’animo suo inflessibile e della tempra di quello del primo Bruto, che firmava la sentenza di morte degli stessi suoi figli. Nè giova il dire che Stazio non iscese men basso di Marziale nell’adular Domiziano, e nullostante fu lodato dal Nostro. Primieramente mi pare che il passo, dove Giovenale fa l’elogio di Stazio,14 abbia un non so che di equivoco; e sia di tal natura, che di sotto alle lodi del poeta si senta uscir fuori un suono di rimprovero al servile uomo di lettere, che vende la penna per mangiare. E ciò è così vero, che anche gli antichi trovarono in quei versi piuttosto un biasimo velato che un vero elogio; come ne fa fede una delle note biografie, dove i detti versi son chiamati una satira contro di lui e dell’istrione Paride.15 In secondo luogo, se Giovenale rammenta con onore la Tebaide, dove Stazio, se non si astiene del tutto dall’adulare, è in ciò assai parco; si guarda però bene dal pur nominare le sue Selve, dove veramente son bruciati a Domiziano gl’incensi più vili.
Tanto l’anonimo scrittore della Vita apposta a Svetonio, quanto tutti gli altri scoliasti e grammatici che hanno parlato di Giovenale, sono unanimi nel dire, che avendo egli mosso l’ira e il sospetto dell’Imperatore, fu, sotto specie di onore e col pretesto di un ufficio militare, mandato in esilio negli estremi confini dell’Impero: nè discordano nell’allegare la causa di quello sdegno, attribuendolo tutti in coro ad alcuni versi, che si leggono nella settima satira,16 dove il poeta dà una stoccata al pantomimo Paride, il quale dispensava a suo capriccio cariche e favori. Ma sul nome dell’Imperatore, e sul luogo dell’esilio si contraddicono; tanto che in questa controversia, anzichè stabilire nulla di certo, non è poco se si può acquistare qualche probabilità. Stando all’autorità degli antichi, il dubbio intorno alla persona verte unicamente fra Domiziano e Trajano. Ma alcuni moderni hanno voluto mettere in campo anche il nome di Adriano: non perchè nei detti versi non sia abbastanza chiara l’allusione al regno di Domiziano; ma perchè in Trajano, o in Adriano, sarebbe nato il sospetto che Giovenale con quella tirata contro Paride volesse figuratamente beccare i vizi del loro tempo:17 per lo che costoro sarebbero venuti in grande ira contro il poeta. Rispetto al luogo, alcuni stanno per l’Egitto, altri per la Caledonia, o Scozia come si dice oggi. Prima però di entrare in questa disputa, siccome le maggiori prove che si possono addurre, debbonsi trarre dalla settima satira sopra ricordata, e in particolar modo dall’accertamento del tempo in cui fu scritta, gioverà fin d’ora stabilire e fissare questo punto.
L’illustre filologo Federigo Hermann di Gottinga, mancato da non molto ai vivi con grave jattura delle lettere antiche, ha discusso sì l’una come l’altra lite con gran corredo di sapere e sottilissimo acume di critica in una dissertazione «intorno al tempo della settima satira di Giovenale», pubblicata nel 1843; e nella prefazione che va innanzi all’edizione dello stesso poeta, da lui curata e stampata in Lipsia nel 1862. Da queste due scritture ho attinto una gran parte delle notizie e degli argomenti che mi serviranno a chiarire possibilmente questi dubbi: ed è giusta che io quì ne renda al degnissimo autore pubblica e grata testimonianza.
La settima satira porta con sè la sua fede di nascita; la quale deve essere avvenuta durante l’impero di Trajano, e piuttosto sul principio che sulla fine. Il suo colore, l’impeto e la veemenza lo dicono chiaro. Le satire che da segni manifesti appariscono scritte dal poeta posteriormente sotto Adriano, sono per questo lato molto distanti da quella: e tale distacco non si spiega altro che ammettendo un intervallo di parecchi anni tra questa e quelle. La settima satira, inoltre, comincia con un elogio dell’Imperatore, il quale è detto «l’unico sostegno e la speranza degli studi; il primo che in quei miseri tempi avesse rivolto un benigno sguardo alle afflitte Camene»:18 e tale elogio non può rivolgersi che a Trajano. Quelli che opinarono doversi riferire ad Adriano, non ebbero presente che, sebbene Adriano favorisse anche più del suo antecessore le lettere e le arti, egli non fu nè il primo nè il solo, sapendosi da Plinio e da altri che, prima di lui, le aveva favorite Trajano; e che sotto Adriano dalla liberalità del capo dello Stato non andò disgiunta quella dei privati.19 Per conseguenza, se Giovenale nel proemio di questa satira accennasse ad Adriano, dicendo che era stato il primo a proteggere li studi, avrebbe commesso un’ingiustizia contro Trajano; non tanto perchè gli avrebbe negato il merito, che veramente ebbe, d’essere il primo dopo Augusto a porgere una mano benefica ai letterati; quanto perchè avrebbe accumulato nel successore di lui sì fatte lodi, nelle quali nessuno negherà esservi una riprensione indiretta dell’Imperatore precedente: il che facendo si sarebbe mostrato non pure ingiusto, ma sì anche incauto e imprudente, avuto riguardo alla grata memoria che di sè avea lasciato Trajano; la quale dovea rendere men che gradevoli cotali immeritati rimproveri.
Coloro che sostennero essere Adriano l’imperatore elogiato, furono condotti in inganno da un falso supposto. Giovenale in questa satira ricorda Quintiliano come un esempio di fortunata opulenza.20 Plinio invece, essi dicono, scrivendo al medesimo, lo chiama felice sì, ma in mediocre stato di fortuna; e gli offre cinquanta mila nummi per dotare una sua figliuola. Ciò dimostra che durante il regno di Trajano, quando fu scritta questa lettera, il famoso Retore non era ricco.
Questa lettera di Plinio è vera; ma quegli al quale fu diretta, è soltanto un omonimo di Quintiliano; non la stessa persona. Quintiliano era rimasto senza prole, come ci attesta lui stesso nella prefazione del sesto libro delle Istituzioni oratorie, dove deplora la sua orbità: quindi non poteva aver figlie da maritare. Inoltre Plinio, che era stato suo discepolo, e visse sempre con lui in gran dimestichezza e intimità, non avrebbe certamente mancato, scrivendo al suo vecchio maestro por offrirgli quella somma, di accompagnare il benefizio con una parola di gratitudine, e di farglielo apparire meno umiliante col pretesto di un antico debito: del che non è indizio in quella lettera. Non è poi credibile che Quintiliano fosse povero sotto Trajano. È noto che al tempo di Vespasiano egli godè un pubblico stipendio: e ottenuto dopo venti anni il riposo, ebbe l’onore degli ornamenti consolari per mezzo di Clemente, zio di Domiziano, del quale avea educato i figli.21 Sia dunque vero o supposto, come sembra più credibile, il nome dell’amico, al quale scrive Plinio, è certo che quella lettera fu citata a torto per dimostrare la povertà di Quintiliano durante il regno di Trajano. Deve ritenersi per conseguenza che la settima satira fu composta in quel tempo.
Facendoci ora a indagare chi fosse che esiliò Giovenale, parrebbe che il ragionamento da farsi dovesse esser questo. Se merita fede la voce unanime degli antichi, che causa di tale esilio furono i versi della settima satira, nei quali si rinfaccia indirettamente all’Imperatore di lasciarsi condurre per il naso da un istrione, e di concedere le prime magistrature ai favoriti di lui; se d’altra parte è vero che la detta satira fu scritta al tempo di Trajano, vuol dire che Trajano e non altri dovette essere l’esiliatore. E così di fatti hanno argomentato non pochi. A costoro io rispondo: l’essere stata la settima satira composta sotto Trajano è anzi la prova più certa che questo Imperatore non ebbe che fare coll’esilio del poeta, e che tutta l’odiosità di esso ricade sul suo antecessore Domiziano. Fu già notato poco sopra che questa satira comincia con un elogio alla liberalità e munificenza dell’Imperatore verso li studj. Vi par egli dunque ragionevole che Trajano, il quale si sentiva così lodare, e sapeva che il lodatore non era di quelli che lodano per vendere e biasimano per comprare, ma sì lo scrittore forse più libero di quel tempo; potesse vedersi anche lontanamente preso di mira in un piccolo brano, nel quale è manifestamente accennato in viso all’istrione Paride, e a quel mostro di Domiziano? Fu, è vero, anche in corte di Trajano un pantomimo o saltatore molto ben visto e potente, Pilade,22 il quale non nego, che a prima vista non offra un argomento di qualche forza per far supporre che questo Imperatore potesse prender per sè quella tirata del poeta satirico: ma se consideriamo da un lato, che in quei versi sono chiaramente notati i tempi di Domiziano, e vi è registrato il nome di Paride suo cagnotto; se dall’altro si riflette che nessuno scrittore accusò mai Trajano d’aver distribuito prefetture e tribunati per favore d’alcuno, e che il sospetto non entrava affatto nel suo carattere; si vedrà quanto sia fuor di ragione il pensare, che dovesse riconoscersi adombrato in quei versi. Infatti Dione Cassio, Plinio, Aurelio Vittore e gli altri, che scrissero di lui, ce lo presentano come l’ottimo dei Principi, che «fidente in sua virtù, non apparve mai sospettoso nè ombroso»; che avendo anzi alcuno voluto mettergli in mala vista Licinio Sura intimo suo, per mostrare che nulla temeva, andò solo e senza guardie a cena da lui;23 che per lasciare a tutti piena libertà di parola nel giudicare i suoi atti, volle abolite le accuse di maestà; e nell’investire della sua carica il Prefetto del Pretorio, consegnandogli la spada, così gli disse: «con questa difendimi, se governo bene, e rivolgila contro di me, se fo altrimenti».24 Chi non si sente rimordere da nessuna colpa ed opera dirittamente, non è per natura inclinato a interpretar male i discorsi, e a vedere un’accusa in ogni parola che altri dica di lui. Solamente chi ha la coda di paglia, sta sempre con paura che gli pigli fuoco. Non parmi dunque verosimile che quei versi, a cui la voce concorde dell’antichità attribuisce la causa dell’esilio di Giovenale, potessero far nascere in Trajano il benchè minimo dubbio sull’intenzione del poeta, e offrirgli per conseguenza un pretesto di cacciarlo da Roma. Se Trajano fosse stato uomo da dargli ombra un detto contro il favoritismo e i brogli di Paride, lancia di Domiziano, come avrebbero potuto sotto di lui viver quieti e tranquilli non solo, ma godere dei primi onori e delle cariche dello Stato, Plinio il giovane e Tacito; i quali non erano, specialmente il secondo, nè più benevoli nè più indulgenti nel ritrarre e vituperare le vergogne e nequizie dei passati tiranni?
Vediamo invece se questo esilio, e il modo e il fine, coi quali fu dato, non convengano perfettamente al carattere ipocrita e feroce di Domiziano. Tutti gli antichi biografi attestano che il detto esilio si volle apparentemente coprire col mantello di un onore e ufficio militare: e due di essi ci assicurano che l’intenzione si fu di esporre il poeta a quella morte, che si sarebbe voluto architettare contro di lui in Roma, ma ne mancò l’opportuniià.25 La qual finzione e ferocia si addicono benissimo al terzo imperatore della gente Flavia; del quale si legge, «che fu bassamente codardo e finto; di una crudeltà grande inaspettata e astuta; che sotto le apparenze dell’amore celava odj immortali, e facea buon viso a quelli che destinava alla morte, studiandosi che ne ricadesse sugli altri l’odiosità; che una volta fece venire nella sua stanza, e volle con sè a pranzo un cittadino, che il giorno dopo dovea per suo comando salir sulla forca; e mostrossi con lui tanto affabile e amorevole, che quegli partissene tutto tranquillo e allegro».26 Qual libertà poi lasciasse agli scrittori, lo dicono la morte di Erennio Senecione e di Aruleno Rustico, e i loro libri fatti ardere nel foco, e le loro famiglie cacciate in bando.27
E credo che sia da farsi anco un’altra considerazione. In tutte le sue Satire il poeta non ha una parola di biasimo per Trajano; anzi una volta che ne parla, lo fa, come fu già notato, per esaltare la sua munificenza verso i letterati.28 È vero che Trajano fu buon principe; però, a confessione de’ suoi stessi lodatori, ebbe anche lui il suo lato vulnerabile: e questo mi pare che come non dovette sfuggire all’occhio osservatore del severo Satirico, così non sarebbe andato libero da una delle sue terribili frecciate, se il Poeta avesse da lui ricevuto quel brutto tiro dell’esilio sotto il pretesto di un’onorificenza. Invece, tra queste sue Satire non solo ve ne son due, la seconda e la quarta, scritte deliberatamente a vitupero di Domiziano; ma non ve n’è, sto per dire, una sola, dove non sia posta in croce qualche sconcezza di lui o de’ suoi: tanto che potrebbe dirsi, che Domiziano è il protagonista, l’Achille della Satira giovenalesca. E questo fatto mi sembra che se non una prova, offra almeno un probabile motivo a pensare, che il calvo Nerone, come lo chiamarono i suoi contemporanei, oltre a tutte le infamie che lo rendeano esoso e degno degli strali della satira, avesse col nostro poeta qualche vecchio conto da regolare. Nè ciò deve in nulla scemare la stima e la fede dovuta all’austero censore dei romani costumi: poichè chiunque sia composto della medesima pasta umana e, ponendosi una mano sul petto, entri per poco nei piedi di Giovenale, sente che non sarebbe stato più generoso, e non vorrebbe per conseguenza scagliare contro di lui la prima pietra.
Ma come sta, mi sento domandare, che i più volte rammentati versi contro Paride e Domiziano, e cagione dell’esilio, si leggono nella satira settima, la quale fu scritta al tempo di Trajano, quando cioè Domiziano era morto?
A questa difficoltà è molto più facile rispondere che a prima vista non paia. Tutti sanno che non è alieno dalla pratica dei poeti giovarsi, quando venga loro in taglio, per li scritti posteriori, di versi già fatti innanzi per altri componimenti. Omero, Virgilio e Dante, per tacere di altri, ne offrono degli esempj. Non è dunque fuor di ragione il credere che Giovenale, durante il governo di Domiziano, trovandosi nella vigorosa età di trenta a quaranta anni, e non avendo ancora cominciato a scriver le sue Satire, pur si desse alcuna volta a comporre di quelle poesie giocose, nelle quali si esercitavano in quel tempo anche li uomini più dotti e gravi; come ce ne assicura Plinio, portando in esempio sè ed altri:29 e che in una di queste fossero in origine i versi che provocarono lo sdegno del sospettoso tiranno; e che il Poeta, venutogli il destro, incastrasseli poi nella settima satira; tali e quali, o in parte modificati. La qual cosa non è solamente verosimile, ma accertata dagli autori dell’antiche notizie biografiche. Due di essi infatti, e presumibilmente i più autorevoli perchè i più antichi, accennando al componimento nel quale si trovava il corpo del delitto, lo chiamano «una satira di pochi versi».30 E chi non vede che questo nome, mentre da un lato non conviene affatto alla settima satira, perchè essa è una delle più lunghe fra le sedici del Nostro, ed è composta di ben dugento quarantatrè versi; dall’altro è adattatissimo a significare un breve componimento, che abbia dello scherzevole e del mordace insieme, quali dovevano essere appunto quelle poesie rammentate da Plinio; e come ce n’ha lasciati bellissimi esempi Marziale ne’ suoi Epigrammi? E non soltanto questo dicono i due antichi biografi, ma aggiungono che il Poeta, il quale dapprima non aveva avuto molti ammiratori, quando s’accorse che i suoi scritti cominciavano a riscuotere gli applausi del pubblico, inserì nei nuovi componimenti anche i versi che prima aveva fatti, e nominatamente quelli che erano stati causa del suo esilio.31
In che modo poi si sia potuto cacciare la prima volta in questa disputa il nome di Trajano, non durerà gran fatica a imaginarselo chi abbia un po’ di pratica degli antichi manoscritti, e gli sia accaduto di vedere quante alterazioni di nomi vi si riscontrano per la negligenza o ignoranza dei copisti. Niente di più facile che uno di costoro, trascrivendo sbadatamente dagli antichi le poche notizie intorno a Giovenale, là dove era scritto tiranno leggesse Trajano; tanto più poi se costui avesse avuto cognizione che la satira, nella quale sono i versi incriminati, era stata veramente scritta e pubblicata sotto Trajano. E in questa opinione mi rafferma sempre più il vedere che l’autore della notizia biografica — ed è la sola — nella quale si registra il nome di Trajano, piglia un bel granchio storico. Infatti nel menzionare il pantomimo ben voluto da questo imperatore, invece di Pilade, che la storia ricorda, nomina Paride,32 che fu alla corte di Domiziano: il quale scambio di persona è prova non dubbia, o dell’ignoranza di chi scrisse quella notizia, o che il nome di Trajano è entrato di contrabbando e per la finestra nel posto di quello di Domiziano. E nello stesso modo vi deve essere entrato il nome di Claudio Nerone, che pure da alcuno è detto l’autore di questo esilio. È noto che Domiziano era soprannominato Nerone il calvo; e Giovenale stesso gli dà questo appellativo nella satira quarta.33 Non è dunque improbabile che un Calvi Neronis, per esempio, doventasse sotto la penna di un copista sbadato Claudi Neronis.
Che dire ora di quelli — e non ne mancano tra i moderni critici — che appongono l’esilio del Poeta all’imperatore Adriano? Con tutto il rispetto dovuto alla loro autorità e dottrina, io confesso che non so vederne la ragionevolezza. Ammesso pure che si giungesse — e non vi si giungerà così di leggieri — ad abbattere e distruggere tutte le prove accampate dall’Hermann a dimostrare che la satira, nella quale si trova la causa dell’esilio, fu scritta sotto Trajano, cioè prima che Adriano regnasse; ci resterebbe sempre un altro gravissimo argomento per rendere poco accettabile la loro opinione: cioè il non essere in alcuno degli antichi ricordato il nome di questo Imperatore: mentre in uno di essi è fin rammentato, come accennammo poco fa, Claudio Nerone: il quale, per vedere quanto possa avere avuto che fare in questa faccenda, basta dire che quando morì avvelenato in un fungo dalla moglie Agrippina, Giovenale, secondo i calcoli del Borghesi, avrebbe avuto da sei a sette anni.34 Nè gli oppositori potrebbero farsi forti del silenzio assoluto serbato da qualcuno degli antichi intorno all’autore di quest’esilio; poichè l’unica conseguenza ragionevole, che da ciò si potrebbe dedurre, si è che essi medesimi non lo sapevano, e però tacquero. Ma vi è di più. Quei pochi che non nominano chicchessia, dicendo soltanto che il poeta fu esiliato dal tiranno; quando poi affermano, che la cagione dell’esilio furono i versi contro l’istrione Paride, danno a divedere che la loro mira era rivolta su Domiziano o Trajano, e non mai sopra Adriano; al quale non si sa che fosse in grazia nessun istrione, nè che per favore d’altrui inalzasse a tribunati e prefetture. Vorrei finalmente che si facesse un’altra avvertenza. Quando Adriano salì sul trono, Giovenale doveva avere almeno settant’anni: e non è punto verosimile che un principe prudente come Adriano, il cui studio principale si fu di mantenere in pace l’Impero, e di afforzarne perciò i confini, volesse per un puro capriccio di vendetta femminile affidare il comando di una coorte, posta a guardare quei confini, ad un uomo di quell’età, e novizio affatto, per quanto noi sappiamo, delle cose militari.
Mi proverò adesso a strigare l’altro viluppo, cioè qual fosse il luogo che ebbe l’onore di ospitare l’esule poeta. Questo punto, se non per sè, ha importanza per la nuova luce che sparge sul vero autore dell’esilio.
Io dissi già che per alcuni degli antichi questo luogo fu l’Egitto; per altri, la Scozia. Tale contradizione dimostra che fin d’allora si aveano dei dubbi; e che i sullodati testimonj, affermando l’un paese o l’altro, anzichè essere a ciò indotti da qualche valido e autorevole argomento, seguirono la propria opinione, formata sulla dubbia fama, e forse anche sulla interpretazione di due luoghi di Giovenale. Infatti verso la fine della seconda Satira, là dove si leggono queste parole: «noi abbiamo spinto dianzi le nostre armi oltre l’Ibernia, le Orcadi, e la Bretagna contenta di brevissime notti»;35 ad alcuno è parso di vedere accennata la Scozia, in modo da far credere che il Poeta vi fosse stato: e nella satira decimaquinta, dove si narra un orribile eccesso della superstizione religiosa, commesso in una piccola città dell’Egitto, egli dice che quel popolo, «per quanto da lui si sapea di veduta», non era men feroce che lussurioso.36
Se non avessimo altri dati che questi, noi dovremmo lasciare tal questione insoluta, come è stata, si può dire, fino a ieri, non essendo facile accertare chi degli antichi sia stato più veridico narratore, nè potendosi dai riferiti passi del Poeta che, tutto al più, arguire ch’egli era stato in ambedue questi paesi, e massimamente in Egitto; a proposito del quale le sue parole sono molto più significative e chiare. Volle però fortuna che, non sono molti anni, si disseppellisse nella patria stessa di Giovenale un’antica iscrizione; la quale non solamente porge solidi argomenti per isciogliere questo nodo, ma dà altre notizie importanti intorno alla vita del Poeta, specialmente rispetto ai suoi sentimenti religiosi. È un epitaffio per la dedica e consacrazione a Cerere di un tempietto a spese di un tal Decimo Giunio Giovenale: e questi non può essere altri che il Nostro, come ne dà certezza e il luogo dove la lapida fu trovata, e la perfetta consonanza dei nomi e del tempo, nonchè la Divinità a cui il tempietto era consacrato; rilevandosi da un passo della terza satira,37 che il Poeta e i suoi concittadini erano di Cerere assai devoti. Ora in questo medesimo epitaffio Giovenale è chiamato «Tribuno della prima coorte dei Dalmati». Se si potesse dunque mettere in chiaro dove campeggiava la detta coorte durante il regno di Domiziano, sarebbe remosso ogni dubbio intorno al luogo che diede ricetto al Poeta. Ma dai diplomi imperiali apparisce che in quel tempo la prima coorte dei Dalmati era in Britannia:38 dunque il paese in questione dovette essere non l’Egitto, ma la Scozia, che allora, come al presente, facea parte della Britannia. E ciò riscontra benissimo anche colla storia, dalla quale si sa che nell’84 dell’èra cristiana, regnando Domiziano, i Caledoni o Scozzesi, stretti in potente lega, si levarono in armi; e ci volle il valore e la fermezza di Agricola, che comandava l’esercito in quelle parti, per salvare le legioni romane dalla vergogna e dal disastro di una terribile sconfitta.39 Una cosa sola potrebbe dirsi contro l’identità della persona nominata nell’epigrafe e dell’autore delle Satire. Tutti gli antichi affermano che fu data al Nostro una prefettura militare, mentre in quella iscrizione gli è dato il titolo di tribuno. Ma anche questa difficoltà è appianata dall’Hertzen, il quale nelle sue dotte illustrazioni dei nominati diplomi fa vedere che i comandanti della prima coorte dalmatina erano detti ora prefetti, ora tribuni.40 Del resto, se piacque al Poeta che in quell’epitaffio si facesse menzione di un ufficio, che era stato per lui una ridicola e immeritata punizione, avrà avuto le sue buone ragioni.41
Dall’accertamento del luogo si può trarre nuovi argomenti non solo per chiarir meglio il vero autore dell’esilio, ma sì anche per mostrare quanto sia falso che il Poeta vi morisse, come affermano una parte degli antichi. Non vi è indizio che durante l’impero di Trajano si facesse alcuna impresa in Britannia. Se deve dunque credersi che Giovenale fosse spedito col suo specioso ufficio di prefetto o tribuno militare contro li Scozzesi; e se questa carica gli fu data per esporlo quasi a certa morte (il che suppone che dovesse andare dove si menava le mani), non può essere stato Trajano che lo bandì da Roma. E se per conseguenza fu Domiziano, il Poeta non può esser morto in esilio; poichè dopo la uccisione di questo tiranno ce lo mostra a Roma «aggirantesi per la chiassosa Suburra» un epigramma, che Marziale gli scrive di Spagna, da Bilbili sua patria,42 dove, secondo una lettera di Plinio,43 erasi ritirato sui primordj del brevissimo regno di Nerva; e dove cessò di vivere di lì a non molto, cioè nei primi anni di Trajano. Se poi alcuno volesse di ciò altre prove, gli sarà agevole di cavarle fuori dal testè ricordato epitaffio, ed anche dall’avanzata età, cui sappiamo esser giunto il Poeta. Quando Giovenale fu mandato al governo di una coorte, per le notizie che ne abbiamo, era nuovo affatto alla vita militare. Non potea dunque in quella iscrizione darsi il titolo di tribuno, se non dopo essere ritornato da quella milizia. Per ciò che riguarda l’età, è fuor di dubbio che viveva sempre nell’808 di Roma e 127 di Cristo, come ne fa fede un luogo della satira decimaquinta, dove è rammentato il console Iunco,44 il quale figura nei Fasti consolari appunto a quell’anno.45 Ora, secondo questi calcoli, il Poeta avrebbe per conseguenza toccati almeno gli ottant’anni: il che esclude affatto ch’egli terminasse i suoi giorni in esilio, ove questo non si voglia estendere da Domiziano fino agli ultimi anni di Adriano. Ma a ciò si oppone il citato epigramma di Marziale, non che mille altre ragioni, e primieramente quasi tutte le Satire, le quali portano dei segni manifesti d’essere state scritte a Roma, e dopo la morte di Domiziano. Del resto, non pure l’ottantina, ma è probabile che il Poeta vedesse l’anno ottantesimo terzo:46 e non manca chi lo fa giungere fino alla decrepitezza, ponendo la sua morte avvenuta sotto il primo degli Antonini. Ma di ciò non v’è alcuna prova, tranne l’affermazione di uno degli antichi.
Riepilogando dunque il fin qui detto, e venendo alla conclusione, io dico che anche in mancanza di prove esterne certe e sicure, gli argomenti che si possano trarre dall’esame comparativo e dell’antiche notizie intorno a Giovenale, e della storia dei tre imperatori, sono tali che debbono farci tenere per quasi certezza, che non Trajano nè Adriano, ma sì il superbo, falso, sospettoso e feroce Domiziano, col pretesto di un ufficio militare, cacciò d’Italia, e avrebbe voluto dal mondo, il terribile flagellatore della corrotta e fracida società romana; facendogli così vedere col fatto, che anche senza le raccomandazioni di Paride egli creava prefetti e tribuni.47 Il tempo di questa espulsione fu verosimilmente fra l’ottantatrè e l’ottantacinque del’èra cristiana, in occasione dell’impresa contro i Caledonj, quando Giovenale avea circa trentasei anni: e il luogo dove fu mandato dovette essere la Scozia, e non l’Egitto; il quale tuttavia non potendosi negare che fosse da lui conosciuto di veduta, è a credere che vi si recasse per altri motivi. Dopo la morte di Domiziano, e probabilmente quando il nuovo imperatore Nerva richiamò in patria tutti i banditi, egli pure ritornò a Roma; dove si spense più che ottuagenario.
Prima di uscire dal gineprajo di questa controversia non voglio passarmi di esaminare qual valore abbiano alcune difficoltà, che al signor Ribbeck parvero star contro alle cose da me sopra discorse. Paride, egli dice, godè per breve tempo la grazia di Domiziano. Nell’83, cioè due soli anni dopo che regnava quel tiranno, fu fatto da lui uccidere, per sospetto che lo avesse disonorato nella moglie Domizia. Se dunque Giovenale fu esiliato per l’ira di Paride, e non tornò che dopo la morte di Domiziano, bisogna ammettere che stesse fuori almeno tredici anni. Ma non è credibile che un Poeta, il quale ci fa così vivo e parlante ritratto dei costumi di Roma sotto Domiziano, vi abbia passato soltanto due o tre anni di quel regno.48
Ragionare in questo modo si chiama dar corpo alle ombre. Tre anni di soggiorno in Roma sotto il feroce e bestiale dispotismo di Domiziano io penso che ad un uomo di mente e di cuore come Giovenale fossero anche troppi per formarsi un’idea giusta e precisa di quei miserissimi tempi; e per accogliere nell’animo quei semi d’odio e di disprezzo, che doveano per la sua lingua fruttare eterna infamia a quel mostro vituperoso. E poi chi ci dice che nei tredici anni della sua assenza, e per lettere e a voce dalle persone che di continuo doveano arrivare dall’Italia, non fosse tenuto in giorno di tutto quello che accadeva nella capitale? Anzi, io credo assolutamente coll’Hermann che questa prolungata lontananza operasse in lui come un rinnovamento, e gli desse l’ultima spinta a scrivere la Satira morale. Ho già detto, che nella sua gioventù anch’egli probabilmente dovette, così per passatempo, esercitare l’ingegno a comporre di quelle brevi poesie giocose e pungenti, che, a detta di Plinio, erano divenute quasi un genere di moda pei letterati. Trovatosi ora lontano dalle combriccole degli amici e dal tumulto della popolosa città, ebbe agio di entrare in sè stesso: e riandando nella mente le lacrimevoli condizioni dei tempi, e la depravazione generale, sentì che il riderne era stato quasi un delitto; e che per non esser complice di tante infamie, bisognava alzar la voce e rotare il flagello. Nè oserei per conseguenza di contraddire a chi opinasse che una parte delle Satire, quando il Poeta ritornò, fossero, se non scritte, almeno ordite; e che a Roma non facesse altro che mettervi la trama. Ma io voglio concedere al dotto critico di Kiel l’impossibilità della tredicenne lontananza. Ne viene forse per conseguenza che il Poeta non potesse essere esiliato da Domiziano, per le parole scritte contro Paride? No davvero. È forse impossibile che, anche dopo la morte di quel pantomimo, il sospettoso tiranno prendesse come dette a sè quelle parole, e ne punisse l’autore? Non è infatti in quelle parole un’accusa indiretta, ma evidentissima, di debolezza e di parzialità contro Domiziano?
Parrà forse a taluno che io mi sia trattenuto di troppo in questa disputa: molto più che dopo tanti dunque e tanti perchè, un certo dubbio ci riman sempre: e le Satire di Giovenale, dal mettere più o meno in chiaro questo punto della sua vita, non ci guadagnano, nè ci perdono.
E sia pure che il valore del Poeta non cresca nè scemi per lo strigamento di questo nodo: ma, o io m’inganno, o il merito e il carattere dell’uomo e del cittadino acquisterebbe non poco dal fatto di essere incorso, per il coraggio di una libera parola, nella disgrazia piuttosto di un bestiale e feroce tiranno, che di un Principe giusto e liberale: nè parmi che sia perdere il tempo e la fatica, anco in quelle cose, nelle quali non si può raggiungere e tener con mano la verità, fare ogni diligenza per avvicinarlesi sempre più: chè il camminare anche adagio e a piccolissimi passi verso la verità, è sempre un progresso. Nonostante chiedo scusa al benevolo lettore di questa mia lungaggine.
Quanto alla vita domestica e familiare del Poeta null’altro sappiamo, tranne quello che egli medesimo scrive di sè in alcuna delle Satire e segnatamente nella undecima. È questa un invito di pranzo al suo amico Persico per la ricorrenza delle feste Megalesi: e non essendovi nessuna ragione per supporre i suoi detti poco sinceri; anzi essendovene molte per presumere il contrario; mi parrebbe di mancare all’ufficio mio e al desiderio dei lettori, se non me ne valessi per riempire in parte questa lacuna. Egli dunque ci dà contezza, che ogni tanto si sentiva nauseato e stanco del vivere in mezzo al rumore e alle seccature della capitale; e allora, per rifarsi un poco di forze e di spirito, si affrettava di ritornare per qualche tempo alla sua diletta Aquino: e là pigliava diletto a far delle grandi camminate per quelle montuose e gelide campagne.49 Quantunque ricco e cavaliere,50 la sua casa di Roma era montata con semplicità e senza lusso. Non vi si vedeva nessun oggetto d’avorio: e fino i manichi dei coltelli eran d’osso.51 Anche nei giorni di sguazzo bevea vini nostrali in tazze plebee, comprate a pochi soldi.52 Non avea nè cuoco di cartello, nè valente scalco. Facevano il suo servizio due ragazzetti, figli uno di un pastore e l’altro di un bifolco; non parlanti altro che il latino; rozzamente vestiti, e sempre spettinati; ma d’aspetto ingenuo e pieni di quella verecondia, che non hanno tanti che indossano la porpora.53 Però si guardava bene d’invitare a pranzo quei superbi, che avrebbero con disprezzo fatto il confronto tra le loro splendidezze e la sua meschinità.54 I suoi pranzi erano parchi e di pietanze casalinghe: e perchè li amici si regolassero, ne mandava loro innanzi la lista. Un capretto lattonzolo del suo podere di Tivoli; un piatto di sparagi salvatici raccolti dalla massaja del suo contadino; una gallina, uova fresche, uva e pere.55 Dopo pranzo, invece di canti e danze di lascive fanciulle, lettura di Omero e di Virgilio.56 Gli piaceva però di mangiare quel poco in pace, senza pensieri; nè volea che altri gli amareggiasse i bocconi, parlandogli d’interessi, di dissapori avuti in famiglia, o di torti ricevuti dagli amici. Chi avea delle uggie, le lasciasse alla porta.57
In mancanza di altre notizie, si volle da taluni indagare negli scritti del Poeta quale fosse la sua fede politica e religiosa: e come accade che ognuno vede le cose del colore de’ suoi occhiali, chi lo disse un ardentissimo repubblicano, chi un indifferente, e chi un dispregiator degli Dei.58
Non vi sono bastanti argomenti a tagliar di netto questa disputa; ma ve ne sono anche troppi per mostrare che il giudizio sì degli uni come degli altri pecca d’esagerazione. Dire che Giovenale, come Tacito e Persio, che formano insieme la gran triade letteraria della decadenza latina, sono di principj repubblicani, è riferire all’antichità le idee e le distinzioni proprie della politica moderna. A Roma in quel tempo, come osserva giustamente un acuto scrittore francese,59 non potea esser quistione di scelta tra la repubblica e la monarchìa, perchè vera monarchìa non esisteva. L’impero avea conservato tutte le forme e istituzioni repubblicane: e se il potere si trovava nelle mani di un solo, di ciò nessuno avea ragion di lagnarsi: primieramente, perchè anche sotto la repubblica non erano stati rari li esempj della somma autorità data ad un solo; in secondo luogo, perchè oramai quasi tutti erano venuti nella persuasione, che a reggere in unità un così vasto impero era necessario un sol capo. E però li stessi cospiratori, come Cherea, Vindice e tutti gli altri, non pensarono mai a rovesciare l’impero, ma soltanto a migliorare il governo. Quindi sarà giusto il dire che Giovenale fu repubblicano, se con ciò vuole intendersi ch’egli avrebbe voluto ritrarre Roma e l’impero da quella cloaca di vizj e di turpitudini, in cui l’aveano travolta il cieco assolutismo dei governanti, e la pecoresca servilità dei sudditi; e ricondurla a quella libera semplicità e rettitudine dell’antico vivere; quando «una modesta fortuna, i brevi sonni e le mani incallite al tosco filatojo mantenevano in castità le latine donne;60 quando alcuno che era stato dittatore e console tre volte, vedeasi, all’ora posta, scendere colla zappa in ispalla dallo scassato monte, per recarsi a un invito di pranzo;61 quando insomma i tempi poteano dirsi veramente felici, perchè una sola carcere in Roma bastava a tutti i colpevoli; mentre di presente, ancorchè la più gran parte del ferro si consumasse in catene, tanto da doversi temere che verrebbe a mancare per l’uso dell’agricoltura, non vi era più sicurtà neppure nella capitale».62
Chi disse Giovenale repubblicano, forse volle dir democratico. E democratico infatti egli si rivela in più luoghi: non di quella democrazia dissennata, che adula e lusinga le plebi, facendo loro sperare l’impossibile; bensì di quella, che pigliando a cuore i veri bisogni e le sofferenze delle infime classi, fa ogni opera di rialzarne il senso morale, e studia il modo di migliorarne la condizione, senza sconvolgere gli altri ordini della società. Al pari di Tacito, Giovenale tanto amava il vero popolo, che sentiva ancora la dignità del nome romano, «quella plebe togata, dalla quale uscivano i dotti giureconsulti, li eloquenti oratori, e il fiore di quella gioventù che facea ancora rispettate le aquile latine sul Reno e sull’Eufrate;63 quanto detestava quella ciurmaglia che seguìa sempre la fortuna del vincitore, e gridava morte ai vinti, quella spensierata turba di Remo, che dimentica dei fasci, dell’impero e del comando delle legioni, di cui un tempo disponeva a sua posta, ora stavasene colle mani in mano, contenta della pagnotta e dei giuochi del circo».64 Solamente in questo senso potrà affermarsi che Giovenale fu ardente repubblicano. Ma chi pretende ch’ei fu nemico dell’impero e non degli uomini perversi che lo tennero, e fa di lui un altro Bruto, un altro Catone, esce fuori del seminato, e giuoca di fantasìa; poichè nè li scritti di lui, nè la storia, nè le condizioni del tempo gliene forniscono le prove; anzi ne porgono qualcheduna in contrario, come sono le lodi date a Trajano nella settima Satira: dalle quali egli si sarebbe certamente astenuto, se fosse stato in politica quel puritano, che sembra a certuni. Nullostante io credo essersi avvicinato molto più alla verità chi sentì nel verso sdegnoso di Giovenale un caldo repubblicano, che chi lo disse un indifferente. Indifferente Giovenale? Ma gl’indifferenti non si fanno sotto nessun governo cacciare in esilio per censurare gli atti del potere e i suoi favoriti; gl’indifferenti quando scrivono, posson tutto al più formare di belle frasi; far, come si dice, dello spirito; ma non ti accendono nell’anima l’amore, l’odio, la vendetta; nè ti fanno a lor posta piangere, fremere, inorridire. «Se tu vuoi ch’io pianga, devi tu stesso sentire il dolore».65 Dunque non fu detto forse mai maggiore sproposito di chi affermò l’indifferenza di Giovenale. Costui o non lesse mai li scritti del terribile satirico, o, per dirla con una frase dal medesimo inventata, non avea nulla che gli battesse sotto la mammella sinistra.66
Nè più fondata è l’altra taccia di spregiatore degli Dei. Egli ride, è vero, qualche volta di quella sterminata caterva di Numi, che pesavano di troppo sulle spalle del misero Atlante;67 scherza sulla superstizione degli Egiziani, che adoravano fin le cipolle;68 rimprovera ai celesti di viversene in grande ozio, senza far nulla;69 rinfaccia a Giove gl’incensi e i sacrifizj offertigli inutilmente dai devoti;70 e intima a Marte di sfrattare da Roma, della quale non si dava più alcun pensiero.71 Ma son queste le prove del suo disprezzo degli Dei: o non piuttosto le forme più comuni di un linguaggio passionato, ma naturale in chi vede le cose del mondo andare a rovescio; nè seppe mai persuadere a se stesso che ciò dipenda unicamente dal caso? Di tali risentimenti contro la divinità, poco rispettosi se vuolsi, ma consentiti dalle ragioni dell’arte, potrei riferirne esempj senza numero anche dagli scrittori di fede più sincera; ma perchè ad ognuno vengono in mente da sè, per amore di brevità me ne voglio passare. Del resto, noi sappiamo per testimonianza delle sue stesse parole,72 e dell’epigrafe da me più innanzi ricordata, che Giovenale ebbe una particolar devozione per Cerere Elvina, alla quale avea inalzato un tempietto col suo danaro; e che in certi fausti eventi, come per il ritorno del suo amico Catullo, scampato quasi per miracolo da una terribile burrasca di mare, sacrificava vittime a Giove, e offriva corone e incensi ai domestici Lari:73 cose tutte che non vanno punto d’accordo col disprezzo dei Numi. Ma vi è di più: egli lamenta anzi in più luoghi questo disprezzo negli altri, e attribuisce alla mancanza di convinzioni religiose, se quel secolo era venuto a così sbrigliata malvagità, di cui non vi era idea nei beati tempi, quando si aveva tutto il rispetto per la divinità e le cose sacre, «e nessuno avrebbe osato ridere del simpuvio, del nero catino, e dei piatti d’argilla del monte vaticano, usati da Numa nei sacrifizj».74 Era Giovenale per conseguenza un credente nelle mostruose assurdità della teologìa pagana? No certamente: e prova ne sia un passo della seconda Satira, dove dice che certe frottole mitologiche, come il regno de’ Mani, il fiume Stige, e la barca di Caronte non eran più credute neppur dai bimbi.75 Non disprezzava però la religione. Stimava invece opera di buon cittadino prestarle il debito culto; e avrebbe voluto che da tutti fosse stata sentita e rispettata: convinto, com’era, che là dove manca un sentimento religioso qualsiasi e una fede nell’avvenire, ivi non può trovarsi il sodo per posarvi i fondamenti della morale.76 Egli è finalmente certo, che nell’interno del suo cuore si allontanò dalle volgari credenze, ed ebbe della divinità un concetto nobilissimo e giustissimo. A convincer di ciò chi ne dubitasse, non ho che a ricordargli un passo della Satira decima, dove così conchiude sull’inutilità degli umani desiderj: «Se tu vuoi un consiglio, lascia ai Numi la cura di bilanciare quelle cose, che ci convengono, e son di nostro vantaggio. Essi ti daranno non ciò che ti piace, ma ciò che ti giova. Il nostro bene sta loro a cuore più che a noi stessi».77 Potrebbe esprimersi meglio l’idea della Provvidenza divina, e la fiducia che noi dobbiamo riporre in Lei?
Questa indagine delle opinioni politiche e religiose di Giovenale avrà fatto nascere, se non m’inganno, in qualcheduno la curiosità di conoscere, se in filosofia egli seguisse alcuna dottrina particolare. Tre erano le sette principali, che allora si fronteggiavano in Roma sul campo della morale, a cui da lunga pezza erasi ristretta tutta la filosofia; cioè li Epicurei, i Cinici e li Stoici. Il nostro Poeta si protesta di non avere appartenuto nè agli uni nè agli altri.78 I suoi detti però non vanno presi troppo alla lettera. Egli vuol dire, che non fu partigiano di nessuna setta; ma ciò non esclude che nella pratica della vita, e per lo spirito che domina ne’ suoi versi, si accostasse molto più alla scuola di Zenone che a quella di Aristippo e di Antistene. Se infatti egli non predica a ricisa la dottrina del Portico con tutto quel rigorismo esteriore degli Stoici, come fa Persio, basta leggere le sue Satire, e le ultime in particolare, per sentirvi dentro i nobilissimi principj, li alti pensamenti e tutte le squisitezze morali di quella scuola che, senza volerlo, preparava al nascente Cristianesimo il terreno per piantarvi l’albero di una nuova e più verace civiltà.
Abbiamo di Giovenale quindici Satire e un frammento; divise comunemente in cinque libri. Non sembra che tale divisione provenga dall’autore; nè ch’egli si curasse di dare a ciascuna Satira un titolo: per la qual cosa non è a maravigliare se questi titoli variano a seconda dei manoscritti, dell’edizioni, e degli Scoliasti. A me pare che volendole indicare con nomi che esprimano la sostanza e il carattere di ciascuna, possano chiamarsi così: I. Rassegna dei vizj del tempo, e proposito di scriver satire. II. I bagascioni ipocriti e sfacciati. III. Umbrizio; ossia Roma è divenuta inabitabile. IV. Il Rombo, ossia la stolta superbia di Domiziano, e la pecoraggine dei suoi cortigiani. V. Misera condizione dei clienti, e spilorceria dei ricchi. VI. Le donne romane. VII. Misero stato degli uomini di lettere. VIII. La vera e la falsa nobiltà. IX. Nevolo, o le infami bardasse. X. Inutilità e danni degli umani desiderj. XI. Un invito a desinare; ossia il lusso dei pranzi. XII. Il sacrifizio; ossia gli uccellatori di testamenti. XIII. Lo spergiuro; ossia la colpa è pena a se stessa. XIV. Potenza dell’esempio sull’educazione. XV. Effetti del fanatismo religioso. XVI. I privilegi dei militari. Non è però da credere che la numerazione, con cui trovansi qui e in ogni altro libro registrate, rappresenti l’ordine di tempo, nel quale ciascuna fu scritta, essendo provato il contrario da certi dati, che molte di esse ci porgono. Si dee dunque ragionevolmente supporre, che tale ordinamento, sia che derivi dall’autore stesso, sia dagli editori, fosse piuttosto effetto del caso, che consigliato da una buona ragione. Una riserva soltanto dovrà farsi rispetto alla prima; la quale, sebbene non sia stata probabilmente la primogenita, non poteva nella collezione occupare altro posto che il primo, essendo essa come il proemio di tutte le altre.
Se questo mio scritto dovesse stare da sè, e non precedere la stampa di tutte le Satire da me volgarizzate; prima di entrare nel merito di esse rispetto all’arte e alla morale, sarebbe pregio dell’opera dar qui un estratto di tutte, e mostrarne il disegno e l’esecuzione. Ma siccome tanto il testo quanto la versione son qui a pochi fogli di distanza, e il lettore, in caso ne senta bisogno, può a suo bell’agio ricorrervi senza muovere un passo, e vedere in gran prospettiva quello che io non potrei mostrargli che in iscorcio; risparmierò a me il tempo e la fatica, e all’editore una trentina e forse più di pagine; le quali non farebbero altro che ingrossare il libro.
L’impeto, la veemenza, l’elevatezza dei pensieri, la nobiltà dei sentimenti, la franchezza del dire, una ricchissima vena e un generoso sdegno formano il carattere principale di queste Satire. Lo scopo del Poeta fu di percuotere a sangue il vizio allora trionfante, e costernare i malvagi. Coraggiosa impresa! ma scriveva in un secolo tanto abominevole, che poco era da sperare sull’efficacia delle sue riprensioni. Tuttavia pare che qualche buon frutto lo portassero; perchè infatti da quel momento gl’imperatori e i costumi migliorarono alcunchè. Egli assale i vizi colla fierezza di un eroe, che va a misurarsi col più feroce de’ suoi nemici. «È un Ercole che alza la clava sull’Idra dalle cento teste, e la stramazza a’ suoi piedi, dopo averle acerbamente rimproverato tutti i mali che ha fatto alla specie umana».79 Ben di rado si serve del ridicolo. La sua arme prediletta è l’amaro sarcasmo; quando non preferisce di svergognare i facinorosi col mettere al nudo la loro ributtante mostruosità. Ciò è cagione che talvolta dice troppo scopertamente e alla libera certe cose che la buona creanza condanna. Se non che tale libertà è in qualche modo scusata dalla natura del soggetto, e dallo stato morale di quel secolo sciaurato, nel quale a scuotere i tristi ci voleva altro che urbanità di frasi e verecondia di parole. Il suo stile porta l’impronta di quello sdegno che gli «faceva i versi».80 Pigliando dalla poesia la vivacità dei colori, dall’eloquenza il movimento e la forza, sa trovare dell’espressioni ardite e nuove come gli eccessi che aveva a dipingere. Tra lo stile di lui e quello di Orazio mi ci pare la stessa differenza, che fra Tacito e Cesare. Questi sono ammirabili per la morbidezza delle tinte, la finezza dell’impasto e delle sfumature; quelli per l’austerità del disegno, la rilevatezza delle forme, la scultura dei caratteri: gli uni somigliano ad Andrea Del Sarto, al Correggio, a Raffaello; gli altri all’unico e terribile Michelangiolo. Fatte poche eccezioni, tutte le Satire del Nostro, sotto l’apparenza di una gran libertà, mostrano rigorosa unità negli argomenti, varietà e abbondanza di particolari, correttezza e regolarità nel tutto, armonia e corrispondenza nelle parti: il che a certuni è paruto fin troppo, e ne hanno biasimato il Poeta come di una pedanteria; se a torto o a ragione, non so. Anche quei tratti, che a prima vista ti sembrano aver meno che fare col soggetto, se tu li osservi bene, li troverai sempre ad esso strettamente legati e connessi. Questa sola licenza egli si prende talora. Non contento di aver detto le cose una volta, ci ritorna sopra, illustrandole con vari esempj ed imagini: e quando ti sembra ch’egli debba aver votato il sacco, eccotelo di nuovo a raffermare il detto coll’autorità di antiche sentenze, coll’appoggio di nuovi argomenti: e talvolta anco dalla fortuita menzione di una cosa piglia motivo di fare delle lunghe considerazioni, che sebbene non sieno fuori dell’argomento, intralciano e rallentano un poco la speditezza della narrazione, e formano il primo e forse il solo vero suo difetto: quando non sia da credere che tali aggiunte si debbano al cattivo gusto di qualche audace interpolatore. Del resto non una sentenza, non una parola fuori di posto. Li stessi epiteti che altri mette a puro ornamento, qui sono parte sostanziale dell’idea. E quantunque apparisca da più luoghi, che Giovenale avea tutta la sua predilezione per Virgilio, nullostante in questo si parte dalla consuetudine di lui e di tutti gli epici, che non soffre che alcuna parte del discorso rimanga oziosa: e ad ogni vocabolo assegna sempre il suo valore, la sua forza; talchè mentre presso gli altri scrittori più parole congiunte formano in comune una sola sentenza, presso di lui ogni sentenza si moltiplica in tante altre, quante sono le sue parole.81 La qual cosa ne rende lo stile oltremodo serrato e conciso; e deve mettere i lettori sull’avviso di non trascurar mai nulla nelle Satire del Nostro; ma di porgere invece la più diligente attenzione ad ogni minimo vocabolo; poichè spesse volte in un epiteto, che a prima vista non pare d’importanza, sta la chiave per capire il passaggio da un’idea ad un’altra.
Nè debbono le Satire di Giovenale aversi in gran pregio soltanto come capolavori di poesia: ma forse non meno come fonti autorevoli di quel tratto di storia che va da Tiberio alla fine del regno di Adriano. Tacito, storico del tempo e uomo di Stato, racconta le vergogne dei governi e degli uomini pubblici; Giovenale, poeta e moralista, senza tacere di quelli, fa più minutamente la cronaca dei costumi privati di Roma: e in ciò il suo libro acquista tanto maggiore importanza, quanto più i Comici latini, troppo servili imitatori del teatro greco, non ebbero pensiero di ritrarre la vita e i costumi della società romana. Egli ci trasporta in mezzo all’andirivieni di quelle vie, dove il brusìo della folla, il rumore dei carriaggi, e i sagrati dei vetturali levano di cervello; per lo che i miseri malati muojono, non potendo riposare: e un povero diavolo che abbia bisogno di passare per là, ora risica di restare sotto un carro, che ribalti; ora si sente arrivare una gomitata nei fianchi, o il cozzo di un’asse nella testa; ora un soldato lo pesta, e gli ficca nelle dita le bullette.82 Ci fa assistere nell’atrio dei grandi alla distribuzione delle sportole, dove vediamo accorrere alla rinfusa poveri e ricchi, magistrati e bottegaj; chi a piedi, chi in lettiga: e taluno per averne due parti si strascica dietro la moglie grossa colla pancia fino agli occhi; tal altro mostra una lettiga chiusa e vuota, e vuol far credere che sia lì dentro la sua donna malata.83 Leva la maschera dal viso a certi Catoni da bordello, che atteggiandosi a filosofi stoici, sotto il mantello di un rigorismo eccessivo, coprivano le più infami oscenità. A sentirli parlar sempre di virtù, e sbraitare contro i vizj; a vederli di fuori tutti pelosi e accigliati, tu daresti loro un animo severo, quasi feroce; ma il medico sa come stanno sotto, e ride spesso alle loro spalle.84 Fa una viva pittura di quei greconzoli, gente piena di fumi e di gherminelle, i quali trasportati a Roma fra balle di susine e di fichi secchi, e senza scarpe in piedi, si spacciano buoni ad ogni cosa: e riusciti a ficcarsi nelle prime famiglie, la sanno tanto ben fare colle loro vili piaggerìe, che presto ne divengono l’anima e i padroni a danno e ruina di tutti i vecchi clienti, che sono da quelli posti in mala vista, e fatti cacciar fuori di casa.85 Ne avvisa di non andare nottetempo per le vie di Roma, dove quante si veggono finestre illuminate, tanti sono i pericoli di chi passa; poichè di lassù buttansi spesso vasi rotti e sbreccati, e rovesciansi immondizie.86 Nè di rado avviene d’imbattersi in alcuno di quei bravacci, che non sanno andare a letto prima di avere scosso la polvere a qualcheduno: coi quali non basta tirar di lungo e badare al fatto suo; chè in tutti i modi ti cercano briga: e dopo averti ingiuriato, rincalciato, e buttato giù qualche dente a furia di pugni, vanno e ti danno una comparsa.87 Ci apre la sala del Consiglio di Stato, dove Domiziano convoca in gran fretta i Senatori — indovinate a far che? — per consultarli sul modo di cucinare un gran pesce: e ci dipinge la vigliaccherìa di cotestoro, che anche da questa corbellatura traggono argomento per adulare il tiranno.88 Sediamo col Poeta alla tavola del ricco; e là vediamo in qual conto fosser tenuti i poveri clienti: i quali se una volta per miracolo sono da lui invitati a pranzo in ricompensa di tanti servigi, vengon condannati a succhiarsi tante mortificazioni e tanti sgarbi dal padrone e dalla servitù, che non un pranzo, ma un’ingiuria potrebbe dirsi. Per il padrone, pane bianchissimo e fresco; vini scelti di più qualità; tazze d’oro incrostate di pietre preziose; frutta da riavere coll’odore un morto, e i bocconi più ghiotti che si trovino in mercato. Per i clienti, pan duro e muffito; vino da disunger la lana; un boccalaccio sbreccato; melaccie tignose; carnaccia e pesci dozzinali: e quel che è peggio, serviti con brutte maniere e insolenza.89 Vediamo il contrapposto fra le sale dorate dei favoriti dalla fortuna, e la squallida soffitta del povero. Là tutti i raffinamenti del lusso e della gola; là canti e balli di fanciulle spagnole, che colle più lascive movenze cercano di risvegliare la Venere accasciata del padrone: qua un misero nappo con sei bicchieri di legno, e un lettuccio così corto che i piedi restano di fuori.90 Andiamo con lui sulle passeggiate, nell’arena, nel circo, dove saltimbanchi e strolaghi fanno loro arti, dicendo la ventura alle povere ragazze, che corrono a mostrar loro la mano e la fronte.91 Ascoltiamo il sermone che fa il prete di Cibele alle beghine per cavarne serque d’uova e vestiti smessi.92 Entriamo nella stanza d’abbigliamento delle dame, dove si tengon consigli, e si discute sul modo di acconciarsi, come si farebbe se si trattasse di cose gravissime, concernenti la salute e l’onore. Là vediamo le povere cameriere ripassate dal nerbo con pretesto che un ricciolo è più in su di un altro; ma realmente perchè la signora ha stizza del suo naso, che è brutto.93 Ci sono aperti li scrigni delle sue corrispondenze galanti; svelati i suoi intrighi e furti amorosi, ai quali tengon mano la madre e il medico di casa.94 Troviamo i poeti anche di vaglia ridotti a fare i conduttori di bagni e di forni; perchè i ricchi avari, che dovrebbero essere i lor Mecenati, non sanno altro che ammirare e lodare i dotti, come i ragazzi il pavone; o tutto al più fanno lo sforzo di prestare ad essi la sala sporca di una lor casa sfittata per darvi un’accademia; e invitano i clienti e i liberti per far numero e batter le mani: ma il nolo delle seggiole e delle panche, e la spesa per rizzare il palco, restano a carico di quei disgraziati.95 Con grande scapito della gravità romana vediamo di giorno i nobili del più puro sangue trojano a cassetta in luogo dei cocchieri, e serrare da sè la martinicca; li vediamo nella stalla in compagnia dei mozzi sciogliere i covoni del fieno, e versare l’orzo nelle mangiatoje dei cavalli. Di notte poi gl’incontriamo nelle biscazze, nei bagordi e nelle taverne a straviziare in combutta colla peggio feccia del trivio e del remo: e dopo essersi così rovinati, finiscono sotto la ferrea disciplina di un maestro di scherma; e hanno dicatti di sfamarsi alla scodella dei gladiatori, degli atleti, degl’istrioni e dei mimi.96 Giovenale insomma ci ritrae tutta la società romana del suo tempo, dal tugurio alla reggia, dal bordello alla Curia; e colle sue Satire alla mano potrebbe farsi una storia intima di Roma sotto i primi Imperatori da contentare i più curiosi.
Ma sono veramente di lui tutte le sedici Satire più sopra registrate? Fino a jeri, si può dire, non venne in capo a nessuno di dubitare dell’autenticità almeno delle prime quattordici: e solamente le ultime due furono da qualcuno tenute per apocrife; la sedicesima già fino dagli antichi scoliasti; la penultima, soltanto nel primo scorcio del secolo passato. Non sono però molti anni, parve al professore dell’Università di Kiel Ottone Ribbeck, da me già ricordato e notissimo fra i letterati per bella e meritata fama di profondo latinista, che solamente le prime nove e la undecima debbano aversi per genuine; ma la decima, la duodecima con tutte le altre che seguono, gli sembrano «non meno lontane dall’arte e dall’ingegno di Giovenale, che le declamazioni di Floro dai divini libri di Tacito»:97 però le rigetta senza pietà come spurie, e uscite dalla penna «di un poetastro affamato; il quale, prestandosi alla speculazione di qualche librajo avido di guadagno, abbia voluto in un’edizione postuma pigliare a gabbo la pubblica credulità, e tirar vantaggio dal credito e favore in cui era venuto Giovenale subito dopo la sua morte»98 Nè contento di averne tolte sei dalla collezione, anche sulle dieci che rimangono, sebbene sieno da lui riconosciute come autentiche, mena senza ritegno la falce; ora tagliandone fuori dei lunghi brani, che a suo giudizio furono interpolati; ora notando più qua e più là delle lacune; e ora trasportando e riordinando molti versi per modo che dopo questo raffazzonamento alcuna di esse, e particolarmente la sesta, perde quasi la sua prima fisonomia: e con quanto guadagno, davvero non so vedere. S’ingegna il dotto Professore di spiegare e difendere le ragioni che lo indussero a scartare le une e correggere le altre; e scrive perciò un libro che intitola Il vero e il falso Giovenale. Ma se questa scrittura ha potuto essere utile ad accrescere la fama dell’autore per la vasta e solida erudizione che vi ha sparso dentro, e per la copia e sottigliezza degli argomenti che gli è riuscito scavare a sostegno della sua tesi, non ha certamente trovato gran disposizione nei letterati ad accettarne le conclusioni: e la comune sentenza intorno a Giovenale è rimasta sempre la stessa. Ed invero, anche noi non sappiam vedere la lunga immensa distanza che separa le dieci riconosciute dalle altre riprovate; nè danno segno di averla veduta gli antichi, tanto contemporanei quanto posteriori; al gusto dei quali ci rimettiamo volentieri più che al nostro debole giudizio: e perciò crediamo che dato anche il caso della falsificazione, un falsificatore, il quale è stato buono di mettersi ne’ piedi di Giovenale senza che nessuno s’accorgesse fino ad ora dell’inganno, abbia dovuto essere qualche cosa di più che «un poetastro affamato». Vi è senza dubbio una differenza di carattere — ognuno la sente — tra le prime e le ultime Satire, vuoi per l’invenzione, vuoi per lo stile; ma questa si spiega benissimo dalla diversa età e condizione d’animo del Poeta, quando le scrisse. In quelle che furono l’opera, se non della sua gioventù, certamente della prima virilità, e sgorgarono dalla sua penna sotto l’impressione più recente del feroce e spudorato governo di Domiziano, si capisce come debba esservi più fuoco, più impeto, più movimento e colorito drammatico; è naturale che vi si debba maggiormente sentire quella indignazione che «gli faceva i versi a dispetto della natura», e che il satireggiare sia più oggettivo, più concreto; più volto a ferire il vizio che ad incensare la virtù, più a distruggere che a edificare. In quest’altre, che furono composte quando il Poeta era già vecchio; quando i tempi erano d’assai migliorati sotto più miti e ragionevoli governi; e quando perciò quello sdegno generoso era in parte sbollito; non deve far maraviglia se vi si trova più moderazione, più calma nei pensieri e nello stile; se vi sono in buon dato delle reminiscenze di opere morali già lette, e soprattutto di Platone, di Cicerone e di Seneca; e ritornano più spesso a farsi sentire gli effetti dell’educazione ammanierata ricevuta nelle scuole dei retori, e degli esercizj declamatorj in cui Giovenale avea passato tutta la sua gioventù; se l’acerbità del riprendere è non di rado temperata dall’amorevolezza del lodare; se non più contento il Poeta di sonare a vitupero e assalire di fronte il vizio, si sforza anche di predicare e rendere amabile la virtù; se in somma al cipiglio del severo censore unisce la serenità del filosofo, che detta precetti di morale; e di quando in quando mostra i segni di quella querula loquacità, che Orazio dice propria della vecchiaja. Noi crediamo anzi che le ultime Satire sieno, sotto un certo rispetto, il compimento delle prime, e che dividere le une dalle altre sia quasi come mutilare un edifizio, che l’architetto disegnò e condusse con unità di concetto. Il poeta satirico è un maestro di costumi. Perchè l’opera sua possa dirsi finita, non basta che ritragga li erranti dalla via falsa; deve di più mostrare ad essi la vera: non basta che spogli i viziosi dell’uomo vecchio, ma deve altresì rivestirli del nuovo. Siamo quindi persuasi che Giovenale non meriterebbe pienamente l’onorato titolo di Etico per eccellenza, col quale lo troviamo quasi sempre nominato nel medio evo, se non avesse scritto altro che le dieci Satire ammesse dalla critica del signor Ribbeck. Che poi le sei rejette non sono quella meschinità che a lui sembrano; più che da qualunque apologìa io ne potessi fare, voglio che si argomenti dalla stima in cui furono sempre tenute dalla massima parte dei letterati di tutti i tempi; o meglio lo vegga ognuno da sè con una nuova e spassionata lettura che lo invito a farne: e dopo questa, non dubito si converrà meco che il celebre Professore è stato in verità troppo severo nel dar sentenza degli ultimi lavori del vecchio e già forse ottuagenario Poeta. Noi dunque accettiamo per genuine tutte le Satire della raccolta, non esclusa la quindicesima; la quale contro gli attacchi del Kenfio99 e degli altri fu già così ben difesa dall’Hermann100, che ci sembra oramai posta fuori di ogni dubbio. Solo ci piace di fare una piccola riserva per l’ultima, che non è terminata, e rimane in tronco. Il sospetto sull’autenticità di questa fu espresso fino dagli antichi scoliasti: e sebbene essa si vegga insieme con tutte le altre nella maggior parte dei primi manoscritti, e Servio,101 e Prisciano,102 scrittori del quinto secolo, la rammentino con lode, attribuendola a Giovenale; tuttavia la sua inferiorità di fronte alle altre, sia per la sostanza, sia per la forma, è così manifesta, che non si può credere fattura della medesima mano; quando non si volesse supporre, come fa alcuno dei più discreti,103 essere stata un primo tentativo fatto da giovane, e rimasto poi sempre così imperfetto tra li scartafacci del Poeta. E tal supposto non è affatto irragionevole, se si pensa, che mentre essa da un lato, nella sua intonazione e andatura generale, ricorda la maniera del Nostro; dall’altro vi è un verso, nel quale si dice, che l’autore a certe date condizioni avrebbe voluto entrare coscritto nella milizia: la qual cosa accenna gioventù in chi la scrisse.
Ma che dovrà dirsi dei tagli, dei rimescolamenti fatti dal signor Ribbeck anche alle dieci Satire da lui approvate? È stato detto e accertato, che nessun altro testo latino, nell’attraversare la grossa età del medio evo, subì tanti guasti e alterazioni quanti Giovenale. E fino ad un certo punto si capisce; perchè se tanti altri libri, passando per le mani di quei buoni fraticelli o di qualche copista che la pretendesse, furono chiosati, alterati e interpolati di aggiunte; è naturale che ciò accadesse con più ragione al testo del nostro Poeta: il quale e per essere stato uno dei più letti e studiati in quel tempo, e per quel suo stile troppo condensato e alcuna volta scabroso e pieno di oscurità; e per toccare spesso di certe cosette un po’ liberoccie, dovea offrirne più facili e frequenti le occasioni. Ma il professor Ribbeck, secondo il mio corto vedere, procede un po’ troppo alla libera e con eccessiva fidanza di sè in un lavoro di critica come questo, nel quale ogni passo è audace e pieno di pericoli. Chi piglia a correggere gli antichi autori misura l’ingegno di loro col proprio compasso; e sostituendo sè all’autorità di fatto, ciò soltanto che a lui piace, giudica che costoro abbiano scritto: giudizio che per la diversità dei gusti può essere spesso fallace. È certo il Ribbeck di aver colto sempre nel segno? Potrebbe egli in buona fede assicurarci che le correzioni, li scarti e riordinamenti dei versi che fa, avvantaggiano in tutto la reintegrazione del testo originale; o non più tosto lo cambiano maggiormente? Non si tratta qui di sapere se il Poeta ci guadagni o ci perda da un tale acconcime; ma sì veramente se il lavoro del celebre critico conferisca a rendere alla Satira giovenalesca il primo, genuino, paterno aspetto. E di ciò si deve ragionevolmente dubitare: poichè son tanti e così larghi i tagli ch’esso vi fa; son così numerose e lontane le trasposizioni di versi e d’interi brani, onde rimescola il testo, che non è quasi verosimile aver egli potuto menare così spesso e largamente quel suo inesorabile coltello sulle parti infette senza intaccare qualche volta anche le sane; non è credibile che in tanto arruffio e confusione di versi da disgradarne i responsi scritti sopra le foglie della Sibilla Cumea, abbia sempre saputo trovare il bandolo, e rimettere ogni cosa al suo primo posto. Io intendo che si possa e forse si debba, anche non curando l’autorità dei codici, metter le mani su quei passi degli antichi autori, dove i marroni degli amanuensi e le interpolature dei chiosatori sono evidenti, perchè non reggono al senso comune: ma dove non c’è questa necessità; dove si tratta soltanto di migliorarne l’ordine e la dicitura, e di far parlare li scrittori piuttosto come piace al lettore, che come sta scritto; quando uno a ciò non abbia da farsi forte dell’esempio di qualche antico e stimato codice; l’innovare mi sembra un atto poco lodevole, e fui per dire una temerità. Si predica tanto contro i corruttori degli antichi testi: e questa smania di mutare e correggere non conduce forse allo stesso effetto? Ci narra, è vero, il valente Critico di essere stato a ciò spinto da un «vecchio esemplare senza titolo, da lui comprato pochi anni prima e poi dimenticato; del quale l’aspetto squallido e muffoso avendo un giorno mosso la sua curiosità a leggerlo e confrontarlo coi testi che alla giornata si hanno comunemente per buoni, ritrovò in esso il Poeta satirico non solamente mutato e trasformato, ma quasi dilaniato e fatto a pezzi come il corpo di Absirto; talchè parendogli un tale scempio superasse la temerità di ogni raffazzonatore, si persuase che dovesse avere per fondamento qualche codice antico. Essendo poi dopo del tempo ritornato sopra quel vecchio libro, e messi bravamente da banda tutti li scrupoli, avendo rivolto l’acume della mente soltanto all’arte; il modo come erano in esso ordinati e ridotti i versi gli parve il migliore, e non potè frenarsi dal desiderare che Giovenale avesse lasciati i suoi scritti piuttosto in quella maniera».104
L’esistenza di questo vecchio esemplare scema in parte, ma non toglie tutta la responsabilità del nuovo editore di Giovenale. O egli infatti nella sua edizione ha seguito strettamente l’esempio di quel libro (il che non pare, poichè se ciò fosse, avrebbe dovuto darne un cenno nel frontespizio), o si è da quello in qualche cosa allontanato: e nel primo caso sarebbe corso un po’ troppo a riconoscere autorità ad un libro, che non avendo in suo favore altro che la muffa ond’era coperto e le ingiurie delle tignole, arruffava, mutilava e smezzava un testo oggimai consacrato dal giudizio di sedici secoli; nel secondo si sarebbe oltracciò reso complice del fatto. E perchè non poteva quel rimescolamento esser l’opera di un temerario raffazzonatore? Mancavano forse altri esempi di simile audacia verso i primi degli antichi scrittori più riveriti? Certamente non isfuggiva all’erudito Professore e l’Iliade rifatta e ribattezzata nella Morte di Ettore dal Cesarotti, e la Poetica di Orazio rifusa e riordinata dal Petrini.105
Per le accennate ragioni non ho creduto di dovermi attenere in questa mia traduzione di Giovenale al testo che propone il signor Ribbeck, quantunque la sua recensione del gran satirico Aquinate sia, per quanto mi è noto, la più nuova e recente; ma sì a quello del signor Ottone Iahn, stampato a Berlino coll’aggiunta degli antichi scolj nel 1851; riserbandomi però anche verso di esso quella discreta libertà, alla quale ognuno ha diritto in cotali lavori, quando specialmente in ciò che si discorda abbiasi l’appoggio di autorevoli codici e di critici valenti. Il testo dell’Iahn, tratto quasi per intiero dal più stimato dei manoscritti, quello conosciuto sotto il nome di Piteano o Budense,106 è a giudizio dei dotti, e particolarmente dell’Hermann, il più corretto, il più vero;107 tanto che nell’edizione di Giovenale ch’egli curò a Lipsia nel 1862, confessa di non avere avuto altro in mente che di far meglio conoscere l’egregio lavoro del suo predecessore; e, tranne l’ortografia e la punteggiatura, non essersi da quello allontanato che in pochissime cose e di quasi nessuna importanza.108
Ebbi già occasione di ricordare sulla testimonianza di due delle antiche notizie, che le Satire di Giovenale incontrarono molto fin da quando erano udite dalla sua viva voce: e quand’anco mancasse siffatta testimonianza, dovrebbe bastare a darcene sicurezza un passo di Quintiliano contemporaneo del Nostro; il quale, parlando dei poeti satirici, afferma che anche a’ suoi giorni «ve n’erano dei chiari, e che avrebbero un nome nel tempo a venire»:109 le quali parole, sebbene non sia da lui nominato alcuno, non possono riferirsi che a Giovenale e Persio. Per ciò che riguarda gli anni successivi, Ammiano Marcellino, scrittore del quarto secolo, narra che a suo tempo nessun altro libro era letto con tanta passione:110 e come nel medio evo fosse tenuto in gran conto, lo mostrano le lodi che danno al Poeta, per tacere dei grammatici, il venerabile Beda, Liutprando, Adamo da Brema, e Giovanni di Salisbury; il quale lo rammenta per guisa da fare intendere che era conosciutissimo a tutti sotto il semplice nome di Etico.111 Lo attestano anche maggiormente i cento e più codici che ne abbiamo colle dugento, e passa, edizioni, che ne furono fatte, cominciando quasi dal primo apparir della stampa.112
Questa fama d’insigne poeta e di gran moralista, goduta quasi senza contrasti e per tanti secoli da Giovenale, si volle mettere in dubbio e passare per uno staccio di una critica più passionata che severa nel secolo scorso e nel presente: e le accuse fioccarono senza pietà nè misericordia tra il capo e il collo del nostro povero autore. E questo accadeva più che altro in Francia; dove i migliori ingegni, nel sentenziare di cose non francesi, pigliarono alcuna volta in opera d’arte tali cantonate da parer che giocassero a mosca cieca: e se io mentisco o esagero, lo dica il celebre Chateaubriand, che trovava in Dante il cattivo gusto; lo dica l’arguto Lamartine, che giudicò la Divina Commedia un libro presso a poco come Indovinala Grillo; lo dicano infine le spiritose insulsaggini ultimamente indirizzate dalle rive della Senna alla tomba testè chiusa di chi scrisse il Cinque Maggio e i Promessi Sposi. Gli accusatori più acerbi di Giovenale furono il La Harpe, il Rollin, l’abate Batteux, il Levissac, il Nisard, e lo stesso Boileau: al quale se il Poeta romano ritogliesse tutto quello che costui gli rubò per farsene bello ne’ suoi scritti, molte delle sue Satire resterebbero quasi come la cornacchia della favola, dopo che gli uccelli l’ebbero spogliata delle loro penne variopinte. Non tacerò per altro, a onore del vero e della Francia, che di là onde mossero le più forti accuse, vennero al gran Satirico anco le più strenue difese: e qui mi è grato di ricordare i nomi del Dussaulx, dell’Achaintre, di V. Fabre di Narbona, e di Augusto Widall oggi professore della facoltà di lettere a Besançon; il quale da più anni va lavorando con molta lode intorno ai classici greci e latini, e ultimamente dava fuori un bel libro di studj letterari e morali sulle Satire del Nostro.
Le accuse contro Giovenale, parte riguardano la sostanza, parte la forma delle sue Satire. Rispetto alla prima affermano, che guidato più dalla collera che dal sentimento dell’onestà e della giustizia, ha spinto troppo innanzi l’acrimonia della satira, dipingendo il suo secolo con colori troppo tetri, e denigrando uomini e cose: nel che vuolsi tanto meno credergli e scusarlo in quanto sappiamo, che era tinto della medesima pece degli altri. Rispetto alla seconda, dicono che il suo andamento è monotono, declamatorio, troppo burbero e cagnesco; che è senza pudore, e sembra pigliarsi diletto a intingere la penna in quel letame di oscenità e di delitti infami, dimostrando in ciò un istinto selvaggio e crudele: che per conseguenza la sua lettura è più dannosa che utile alla morale.
Fu Giovenale infetto degli stessi vizj che satireggiava negli altri? Certamente avrà avuto anche lui le sue taccherelle; nè io pretendo di farne un Catone. Ma altro è dire che avrà egli pure pagato alla natura il suo piccolo tributo di debolezze, altro dire che fu un poco di buono. E come potete voi asserir questo? Perchè, mi si risponde, fu amico di Marziale, ingegno argutissimo quanto volete, ma pessimo soggetto. Io già fin di principio toccai di questa pretesa amicizia, mostrando che il silenzio col quale il Nostro rispose ai teneri versi indirizzatigli dall’autore degli Epigrammi, è prova sufficiente che non lo ebbe molto caro. Qui aggiungerò, a conferma delle cose ivi dette, qualche osservazione sopra due dei tre epigrammi citati dagli avversarj a far fede dell’intimità fra i due poeti. Il primo, chi ben lo consideri, anzi che accertare questa intimità, dà piuttosto motivo a supporre che i due amici non andassero pienamente d’accordo; e che lo Spagnolo avesse qualche dubbio d’essere mal corrisposto. «O perfida lingua, egli scrive, la quale tenti di farmi tipizzare col mio Giovenale, che cosa oserai tu di dire?»113 Questo discorso, o sia rivolto alla lingua stessa del poeta che parla, o a quella di un mettimale qualunque, viene a dire in sostanza che i due poeti non erano carne e unghia, e qualche volta aveano dei dispareri. Nell’altro, Giovenale è detto «facondo»:114 e questa parola che esprime molto meglio le qualità di un oratore che di un poeta, farebbe credere che la loro amicizia dovesse riferirsi specialmente agli anni della gioventù di Giovenale; quando cioè egli frequentava le scuole dei Retori, e si esercitava per passatempo nella eloquenza; e prima che acquistasse fama di poeta: il che avvenne assai tardi. E ammesso questo, scemerebbe d’assai il biasimo, che a giudizio del La Harpe il cattivo nome di Marziale riflette sul Nostro: poichè sarebbe un eccessivo rigore fargli carico, se negli anni delle bollenti passioni anche lui fece delle scappate, e fu una mosca senza capo: purchè all’età matura, e quando cominciò a menar la sferza sui vizj degli altri, avesse messo giudizio, e ritratto il piede dalle giovanili stravaganze. E così io credo: e forse per questo egli medesimo nella satira ottava vuole che «sia usata indulgenza alle scapataggini della gioventù, purchè sieno di corta durata, e cessino col cadere della prima barba».115 Ma io voglio concedere che tale amicizia durasse concorde fino all’ultimo: che logica di nuovo genere è questa d’imputare all’uno i difetti dell’altro? È egli necessario che due amici pensino e operino sempre nel medesimo modo? Non poteva il Nostro amare e stimare nello Spagnolo l’argutezza e amenità dell’ingegno senza approvarne la libertina protervia, la salace dicacità, e la pensata piacenterìa? Che cosa era finalmente Marziale che dovesse fuggirsi come un appestato? Se ne togli un poco di vagabondo e di lascivo, con quella smania di abbajare alle gambe di tutti, fuorchè di quelli che vedea ben vestiti e ben calzati, ai quali anzi facea le feste scodinzolando; era forse la miglior pasta d’uomo. Vedete dunque come cadono di per sè le colonne, sulle quali il La Harpe ha fabbricato le sue accuse, e come a ragione un suo connazionale lo rimproveri di lasciarsi troppo trascinare dalla passione, e di prendere il più delle volte nei suoi giudizj di critica le sue ispirazioni da quella.116
Ha Giovenale denigrato il suo secolo, attribuendogli vizj e colpe che non avea? Egli medesimo nella satira sesta, pensando agli atroci e incredibili delitti, che la forza dell’argomento gli metteva sotto la penna, previene quest’accusa di esagerazione, e fa da sè la risposta. «Taluno dirà, egli scrive, che io invento; e uscendo dai confini posti dagli antichi, volgo la satira in tragedia. E Dio volesse che io vaneggiassi! ma pur troppo questi delitti son veri: e, quel che v’è di peggio, li autori hanno così perduto ogni senso di pudore, che in luogo di coprirli e vergognarsene, ne menano vanto».117 Ma noi qui non dobbiamo dar peso alle sue parole. Si consultino tutti li scrittori del tempo, e particolarmente li storici Tacito, Svetonio, Dione Cassio e Polibio: e vi troveremo una tremenda conferma delle maggiori infamie, che accesero così nobile ira nell’anima dell’Aquinate. Il male era così grande e generale, che la lingua più maledica avrebbe avuto di che sbizzarrirsi, senza bisogno d’inventare. Un solo storico, Vellejo Patercolo, discorda in parte dagli altri per ciò che si riferisce al regno di Tiberio e di Sejano. Ma qual fede si deve ad uno storico, il quale vivea sotto lo stesso Tiberio; e scrisse di lui, non con l’animo di giudicarlo secondo i meriti, ma colla mente volta ad accattarne i favori? E se vero è, come narra la fama, che fosse poi involto nella medesima disgrazia di Sejano, e perisse con lui, ben può dirsi che pagasse giustamente il fio delle sue sfacciate cortigianerìe.
Quali sono le Satire più forti, e dove si mostra maggiore il vitupero di quel tempo? Certamente la seconda, la sesta e la nona, nelle quali il Poeta ferisce direttamente il mal costume. La seconda è impetuosissima, e si vuole la prima scaturita dalla vena Giovenalesca. In essa sono assaliti i due opposti vizj della ipocrisìa e della spudoratezza; e la mira è palesemente rivolta al regno di Domiziano. Costui era stato meno un feroce tiranno che un solenne ipocrita. Mentre da un lato era rotto più che altri mai a vizio di lussuria; e teneva una pratica scandalosa con Giulia sua nipote che, rapita al marito Flavio Sabino e divenuta incinta, era da lui costretta ad abortire, del che ne mori;118 dall’altro avea la sfacciataggine di far le leggi più severe e minaccianti pene gravissime contro la scostumatezza, e particolarmente l’adulterio. Quando i tempi ruinano a servitù, e gli uomini insieme col senso morale hanno perduto la guida della coscienza, la più parte di essi va dietro alle pedate del principe, e la corte diventa regola di vita, massime per quelli che le stanno più presso. Quindi non dee parere strano, se regnando quel mostro, in cui il dire e il fare erano sempre in contradizione, l’ipocrisìa era divenuta vizio comune, ma più dell’aristocrazìa. Lo Stoicismo, da cui Trasea Peto, Elvidio Prisco e tanti altri aveano attinto la forza per resistere alla tirannìa di Nerone, serviva a costoro di maschera per coprire le più nefande e vituperose libidini. Altri invece buttando giù buffa del tutto e infemminandosi pubblicamente, attaccavano l’infame contagio anche alla parte sana, seppur ve n’era, dei cittadini. E questi bagascioni dovettero essere molti e turpissimi, perchè Giovenale li assalisse così a viso aperto, e con tal violenza, e non una volta, ma due, cioè nella seconda satira e nella nona; che per la somiglianza della materia bene starebbero accanto.
Se io volessi, mi sarebbe facile attingere dai summentovati storici e dalle opere di Seneca, di Plinio e di Petronio non piccola messe di fatti che, rivelando a qual punto fosse giunta allora questa infame prurigine, assolvono Giovenale da qualunque taccia di esagerazione per questo capo: ma il rispetto che io devo ai miei lettori e a me stesso mi vieta di rimescolare un tal fango.
La sesta satira tratta dei vizj delle donne romane: e taluno che per curiosità volle contarli, trovò che passano la trentina. Essa è la più vasta, la più vivace e variata composizione del Nostro: e sarebbe anche la più perfetta, se non vi si notasse una certa mancanza d’arte nell’ordinamento delle sue parti: sebbene anche per questo verso abbia trovato un valente apologista.119 Invano si cercherebbe fra li antichi e i moderni nel medesimo genere un pezzo di poesia paragonabile a questa, per la semplicità del disegno, la forza del sarcasmo, l’abbondanza e varietà dei quadri e dei particolari. L’occasione di essa è un pretesto. Un tale Ursidio, amico del poeta, dopo aver corso una lunga cavallina, avea risoluto di ammogliarsi. Giovenale procura di distornelo; e a questo fine gli schiera dinanzi agli occhi una lunga serie di tipi donneschi, parte ridicoli e strani soltanto, parte odiosi e abominevoli.
Le donne sono generalmente come gli uomini le fanno. In una società dove quelli sono costumati, troverete le donne casalinghe, massaje, pudiche, amorose; veri angioli delle mura domestiche. Là dove al contrario gli uomini sono carichi di vizj, troverete le donne girovaghe, capricciose, dissolute, sfacciate; non più angioli, ma demoni. La donna è fatta per essere, non la schiava, ma la compagna dell’uomo: e non la compagna di un tempo più o meno lungo, ma di tutta la vita. Se l’uomo, abusando del suo grado in società, s’arroga sulla donna dei privilegi, che nessuno gli diede; e cessando di considerarla qual parte di sè stessa, e avente nelle attenenze di famiglia i medesimi doveri e li stessi diritti, la riguarda soltanto come un mezzo buono unicamente a dare sfogo alle sue passioni, e che può cambiarsi a capriccio; degradandola e avvilendola, distrugge in essa il sentimento della propria dignità: perduto il quale, la donna, che vive del cuore più che dell’intelletto, non ha più guida che la regoli, non ha più freno che la ritenga dal precipizio. E tale era lo stato che avea fatto alla donna in Roma la malaugurata legge del divorzio. Finchè l’antica severità dei costumi riparò ai difetti della legge, le cose andarono bene: e la donna essendo tenuta nel conto che meritava, fu la degna compagna dei vincitori di Pirro e di Annibale, e gareggiò con essi nell’amore di patria e nella virtù dei sacrifizj. Ma non sì tosto la prisca rigidezza si fu alquanto ammollita, si videro i miserabili effetti di una tal legge. Gli uomini cominciarono a stufarsi delle loro mogli: e giacchè poteano farlo legittimamente, vollero cambiarle. Nelle cose, alle quali ci spinge soltanto il desiderio dei piaceri, una volta fatto il primo passo, per fermarsi ci vuole uno sforzo, di cui pochi sono capaci. Nei primi quattrocento anni di Roma non si legge caso di divorzio: ma verso la fine della Repubblica un uomo che non avesse sposato più donne, passava per un prodigio. Lo scandalo andò sempre crescendo, e sotto i primi Imperatori si mutavano le mogli come si farebbe di un vestito. Ciò screditò il matrimonio. Molti trovarono più comodo di vivere sciolti da qualunque legame anche temporaneo e mantenersi celibi per correre liberamente nei giardini di Venere, e scapriccirsi come meglio veniva loro il destro. E non giovò che Augusto cercasse di arrestare coi suoi editti la funesta tendenza, dando da un lato dei privilegi ai padri e alle madri di famiglia uniti con vincolo solenne, e minacciando dall’altro delle penalità a coloro che non si ammogliavano. Quei romani che senza opporsi eransi lasciati togliere tutte le altre libertà, non seppero rinunziare a quella del celibato. È vero che l’esempio di Augusto non era da incoraggiare i sudditi al rispetto delle leggi sui maritaggi. Esso non contento di avere ripudiato tre mogli, e rapita la quarta, che fu Livia, al marito Claudio, conduceva una vita di libertinaggio e d’intrighi amorosi.120 Ma quand’anche il legislatore fosse stato irreprensibile, non sarebbe riuscito nell’intento: poichè la corruzione era omai divenuta troppo generale, ed avea penetrato fino nelle ossa.
Avendo dunque la frequenza dei divorzj e l’uso del celibato ridotto lo donne romane alla condizione di mantenute, e fatto loro perdere la coscienza della propria dignità, non deve far maraviglia se a poco a poco si sfrenarono ad ogni libidine, e si messero sotto i piedi ogni onestà. Potevano forse trovare una remora nella religione, di cui quel sesso fu sempre più tenero e osservante? Ma lasciando che il Paganesimo coi suoi Numi adulteri e lascivi non era troppo adatto a porre un freno ai carnali appetiti; l’antica fede aveva da un pezzo ceduto il posto alla indifferenza e incredulità. Le severe dottrine dello Stoicismo, che alcuni avean cercato di sostituire a tale mancanza, non solo non avean potuto mai divenir popolari; ma neppure eran riuscite a contrapporsi efficacemente alle più comode teorie dei seguaci di Epicuro. Aggiungasi a tutto ciò quell’abominazione dei giuochi del Circo, che pareano fatti apposta per soffocare nei cuori ogni sentimento gentile; e di cui le donne non erano meno fanatiche degli altri. Tali spettacoli, dove erano violate tutte le leggi del pudore, della decenza e d’ogni umanità, doveano necessariamente produrre degli effetti perniciosissimi al costume, e soprattutto delle donne: le quali come son per natura più di noi inchinevoli al bene per la via dei buoni esempi, così per quella dei cattivi più presto e più facilmente si corrompono. Come volete che fossero riservate e pudiche in casa donne che non arrossivano di assistere a sceniche rappresentazioni, dove sfacciati Batilli ritraevano i fatti più scandalosi e osceni con gesti e movenze da accendere la lussuria in chi fosse stato di sasso?121 Come era possibile che non perdessero ogni amabilità di carattere, ogni delicatezza di spirito, ogni senso di bontà, e non diventassero crudeli, donne che pigliavano diletto a veder colare il sangue nell’arena dell’anfiteatro; e pascevano gli occhi nell’agonìa dei gladiatori combattenti colle belve feroci?
Non paja dunque troppo lontano dal vero l’orribile quadro che il Satirico nostro ci fa delle donne romane del suo tempo. Non ci narra la storia che mentre donne di famiglie illustri erano così svergognate da farsi scrivere sui registri delle cortigiane, per poter darsi impunemente alle dissolutezze;122 non si trovavano più donne libere, che volessero consacrarsi al culto di Vesta, perchè quel ministero esigeva una vita illibata? Non sono personaggi storici Agrippina, Messalina, Eppia, Cesonia, Locusta? Che cosa hanno di più rivoltante i misteri della dea Bona, 123 che i saturnali della dea Ragione, celebrati non ha guari in un paese nostro vicino? Gli orrori e le oscenità della Torre di Nesle e di Margherita di Borgogna, regina di Francia, non vincono forse il cinismo di Saufeja,124 e la fredda ferocia di Ponzia?125 Gli effetti sono sempre proporzionati alle loro cause: e le grandi cagioni del totale corrompimento della donna non mancarono davvero in Roma. La qual cosa avrebbe forse dovuto, se non disarmare la collera del Poeta, farlo almeno più pio verso il debole sesso; e porre sulla sua lingua freccie meno velenose ed acute, considerando che la colpa di tanta depravazione, più che delle donne, era degli uomini e della società. Ma anche questo egli non manca di avvertire in più luoghi: e sarebbe ingiusto fargliene rimprovero.
L’altro appunto d’avere allentato fuor di modo la briglia allo sdegno, e d’esser troppo burbero, serio e monotono, è meno una censura al gusto dell’autore, che al genere di satira da lui prescelto. La satira è il contrario dell’ode. Questa nasce dall’amore del buono e del bello, e applaude alla virtù; quella dall’odio del cattivo e del brutto, e vitupera il vizio. Ma siccome il buono e il bello hanno più gradi; e ci sono delle virtù grandi ed eroiche, e ce n’ha delle mezzane e delle umili e puramente domestiche: e la Lirica, volendo percorrerne tutta la scala, va da Pindaro ad Anacreonte; così il cattivo ed il brutto avendo varia misura; ed essendovi dei vizj propriamente detti, e dei semplici difetti, e sì li uni come li altri più o meno riprovevoli; anche la Satira ha dovuto assumere diverso tono e colore, secondo la gravità delli sconci che piglia a ferire. Ecco come abbiamo due generi di Satira: grave, solenne, sdegnoso e veemente il primo; dimesso, pedestre, scherzevole e umoristico il secondo. Ora se vero è che «lo scrittore di satire, se intende davvero il suo fine, bisogna che sia figliuolo de’ suoi tempi, non solo quanto alle cose prese di mira, ma anche per lo stile e per la lingua; e che la satira deve essere fatta non alla misura dell’uomo, ma a quella del vizio, a seconda via via delle forme che assume di tempo in tempo»;126 qual è il genere che meglio conveniva ai tempi di Giovenale? Forse quello semiserio, corbellatorio e agrodolce preferito da Orazio? Potrebbe dirsi ch’egli avesse inteso il suo fine e conosciuto il suo tempo, se si fosse dato a questo genere? Oh sì proprio che quello era tempo da burle e da facezie! Oh sì che dovea esservi una bella voglia di ridere e barzellettare, «mentre l’ultimo dei Flavi lacerava il mondo semivivo, e Roma gemeva sotto la servitù di Nerone il Calvo! al quale parlando soltanto del buono e del cattivo tempo, si rischiava la vita».127 Oh sì che sarebbe stato onesto davvero, coprir di ridicolo e non d’infamia tanti orribili mostri, che erano il flagello e il disdoro dell’umana schiatta! Nei tempi passati era stato forse indifferente per la morale il genere serio e il faceto; nè potea farsi carico ad un poeta di seguir piuttosto l’uno che l’altro, avvegnachè la corruzione non avea penetrato la società così per fondo e per largo; e i piccoli colpevoli superavano di gran lunga i veramente tristi e scelerati. Però vediamo la satira ora prendere il contegno di chi corregge ridendo i più leggeri difetti; ora la gravità e il cipiglio del severo moralista, che tuona e si sbraccia contro i vizj più brutti. Ma sembra che fin di principio, forse a memoria della rabbia e rusticità Fescennina, onde avea tratto la prima origine, amasse di preferenza l’acerbità e la fierezza. Infatti Lucilio, che a buon dritto è chiamato il padre della poesia satirica; sebbene vivesse al tempo del grande Affricano, quando Roma fioriva ancora di molte e segnalate virtù, fu impetuoso e fiero; e pigliando a modello li scrittori della commedia prisca, assalì non solamente i vizj, venuti testè a Roma dietro al carro dei trionfatori della Grecia e dell’Asia; ma sì anco le persone, senza rispetto a gradi nè a dignità:128 e con quale acrimonia e virulenza il facesse, ben si raccoglie da un luogo di Persio e un altro di Giovenale: i quali ce lo mostrano ora in atto di rompersi i denti, azzannando e facendo in brani i viziosi;129 ora acceso d’ira e fremente sul punto di vibrar la spada contro i colpevoli, che al solo udirlo sudano e gelano.130 E se ad Orazio piacque di lasciare la via segnata dal suo predecessore, non fu perchè gli venisse in difetto la materia degna dell’impetuosità e veemenza Luciliana, ma perchè il genere faceto serviva meglio a’ suoi fini particolari; e perchè a trattare degnamente il serio ci voleva altra fibra che quella di un amico del morbido Mecenate, e di un cortigiano di Augusto; era richiesta altra fede che quella di chi riduceva tutta la morale ad un calcolo di utilità e di godimenti, e facea professione aperta d’essere un porco nitido e grasso della mandria di Epicuro131. Inoltre la società, sebbene già corrotta, non era fracida affatto, e conservava sempre un poco di pudore, studiandosi di salvare almeno le apparenze: talchè uno, il quale guardasse soltanto alla superficie, potea facilmente credere che non vi fosse neppure tutto il male che realmente v’era: e Orazio, troppo attento a compiacer Mecenate ed Augusto, non potea vedere più in là della superficie. Ma Giovenale fu altr’uomo: e visse in un secolo, nel quale — son parole sue — «ogni vizio era salito sì al colmo, che i posteri nulla potevano aggiungere alla presente scostumatezza; e un uomo onesto avrebbe dovuto esser di bronzo per contenersi, e non sentirsi ardere in petto la bile».132
Fu detto che il ridicolo, per correggere, ha più forza ed efficacia che la veemenza e l’asprezza. Ma ciò è vero sempre? e dato che sia, può farsi colpa a chi corregge, se certe mancinate gli fanno perdere la gajezza e il sangue freddo, che si richiedono per non uscire dai termini? «Vi sono cose e persone nel mondo da far bestemmiare non so chi mi dire, scrive il Giusti; e pochi hanno l’orecchio alle arguzie lievi e quasi nascoste: e quando si tratta di averla a fare coi sordi, bisogna sonare a martello».133 Io avrei voluto vedere anche Orazio, di cui si ripete la sentenza che il ridicolo la vince sul serio, come avrebbe fatto a non rompere i cancelli, se invece di semplici trecconi falliti come Damasippo, dottori di gastronomìa come Cazio, villani rifatti come Nasidieno, e pigoloni incontentabili, e letterati seccatori;134 avesse avuto tra le mani dei furfanti di tre cotte come i Tigellini, i Crispini, i Neroni e i Domiziani. Son certo che in tal caso gli sarebbe scappata la pazienza, e avrebbe menato giù scudisciate di santa ragione, e senza badar troppo a misurarne la forza. Ma i grandi colpevoli, si dice, cadono sotto il rigore della legge; e a punirli deve pensarci il Procuratore del Re. Lasciamo che ufficio della satira non è veramente di punire; ma in primo luogo di correggere al possibile i malvagi, mostrando loro la deformità del vizio, ed eccitando nei loro cuori il pentimento e il rimorso; in secondo luogo, d’impedire che il malo esempio di costoro seduca e corrompa i buoni: onde il vero satirico è da riguardare come un sacerdote di morale; e la satira, un utilissimo e forse il più nobile magistero, che sia riserbato alla poesia. Ma è poi vero che i grandi colpevoli sieno sempre puniti dalle leggi? Spesso le leggi non sono altro che tele di ragno, dove le mosche rimangono impigliate, e i leoni le attraversano, senza pure avvedersene; quando massimamente la spada della giustizia si trova nelle mani di chi è il primo a farla da leone. Quindi non è raro, come dice il Nostro, «veder commettere con diversa sorte li stessi delitti; e colle medesime sceleratezze, uno guadagnarsi la forca, un altro il diadema».135 Ma il poeta satirico, se non è mosso che dall’amor del bene, e ha il coraggio del suo dovere, può giungere il malvagio sempre, e anche là dove o la mancanza di testimoni o l’altezza del grado lo salvino dal Procuratore del Re. «O gente superba, infamatevi pure coi fatti, chè la storia v’infamerà cogli scritti». Questo grido di nobile minaccia, che erompe dal cuore di Carlo Botta dopo aver narrato un’infamia dell’osceno Luigi Farnese, può divenire più veracemente il segnale, con cui la satira dichiara la guerra ai tristi.
Ma la satira, mi si opporrà, deve ferire il vizio, non le persone. Distinguo. La satira giocosa che va tafanando solamente i piccoli difetti, astengasi — è suo dovere — dall’accennare in viso la gente. Dio solo è senza pecca. Gli uomini anche migliori hanno tutti, chi più chi meno, delle storture; ma non cessano per questo di essere rispettabili, e d’avere il diritto che nessuno li faccia segno alle bajate del pubblico. Quindi la satira bernesca, che nominando o ammiccando Tizio o Cajo li espone alla berlina, commette una ingiustizia, e sa di pettegolezzo. Il modo che questa satira ha da tenere, è pittorescamente espresso dal Giusti con un paragone. «Un libro di satire, egli dice, deve essere come una bottega di vestiti bell’e fatti. Il sarto non ha tagliate quelle giubbe al dosso di questo o di quello, ma le ha tagliate a seconda dell’uso che corre, lasciando poi che la gente scelga a sua posta, e dica se vuole: questa va bene a me».136 Vi sono però degli uomini, che da sè stessi si metton fuori della legge comune; o perchè, se in condizione privata, ne fanno delle troppo nere; o perchè, se ufficiali pubblici, anche ciò che in altri non sarebbe mancanza grave, in essi è colpa gravissima. E cotesti la satira ha diritto di smascherarli e di ferirli senza tanti riguardi. Dirò di più: la sola satira che mira a costoro, è magnanima e veramente morale. Nè giova il dire che essa può diventare un’arme di private vendette, e offendere i buoni. Quando ciò sia, la punta di quest’arme si ritorcerà sempre contro il petto di chi la brandisce; perchè il maledico invece di dar trista fama a quelli che bistratta, la dà a sè stesso; come è accaduto a Pietro Aretino. E questa mi pare una bastante punizione. Vedete Dante, giacchè la Divina Commedia è per due terzi una vera satira morale. Egli non condanna i vizj in astratto, ma nelle persone, e non teme di registrare i nomi dei Re, dei Papi, degl’Imperatori; infine, di tutti i ribaldi grandi e piccoli che cita al suo banco di giustizia; e non per questo al suo libro fu mai disdetto il titolo di poema sacro, cioè eminentemente morale. Quando alcuno colle sue azioni si è fatta una trista celebrità, e ha, per mo’ di dire, personificato in sè certi vizj, la satira che lo ferisce, non abusa del suo ufficio; nè può esser tacciata di personalità. Tutto al più, potrà dirsi che faccia opera buona se lo risparmia finchè vive; e seguendo l’esempio di Giovenale, aspetta a giudicarlo, quando sia passato, come si dice, alla verità.
Ma io per non lasciare senza risposta alcune difficoltà venute fuori di mano in mano, mi son condotto troppo lungi dalla vera questione; se faccia, cioè, più frutto nel correggere i costumi un tono scherzevole o uno serio. Riattaccando dunque discorso su questa materia, e venendo a stringere il nodo, io sono di parere che la satira giocosa sia buonissima a tener divertita la brigata e anche a pungere tanti difettucci, che il più delle volte non guastano il galantuomo. Ma a scuotere da certi vizj, quando hanno preso possesso, e si sono confermati e corroborati nell’animo, non giovano le amenità, i frizzi e i motteggi: fa d’uopo la maschia eloquenza di Cicerone nelle Verrine; lo stile nervoso e senza frasche di Tacito; «la parola brusca» di Dante, e quel grido
. . . che fa come il vento, |
E Giovenale era spinto a questo genere non solo dalla materia gravissima, ma sì anco dal gusto allora dominante nella letteratura e nella filosofia. L’insegnamento della morale era divenuto come un sacerdozio. Lo Stoicismo, il quale facea consistere il sommo bene nella pace interiore dell’animo, che si ottiene vivendo secondo le leggi della ragione bene ordinata, ossia pigliando per regola di vita soltanto la virtù; avea cessato di essere una scienza puramente speculativa; e mirando alla pratica, era uscito delle scuole per ispandersi nel mondo. Ma, come è solito di chi vuole raddirizzare qualcosa, che deve torcerla di necessità dal lato opposto; così la setta delli Stoici, volendo contrapporsi agli eccessi del vizio, partoriti dalle comode e sensuali dottrine di Aristippo, esagerò tutte le virtù: le quali parvero molli, se non facessero sentire la loro asprezza. E gli effetti di tale esagerazione si risentirono ben presto anche nella letteratura, che allontanandosi adagio adagio dalla morbidezza o pastosità dello stile naturale, si volse sempre più al manierato e all’esaltato; e fu invasa dalla manìa della grandiosità e magniloquenza. Quintiliano si lagna più di una volta che lo Stoicismo avesse nelle cose del gusto trasportato le rigidezze della scuola, attristato li spiriti, seccato l’immaginazione, smagrito lo stile. Ad accrescere questa esaltazione influirono grandemente le pubbliche scuole dei Retori, nelle quali erasi rifugiata tutta l’eloquenza romana, da che il dispotismo cesareo aveala bandita dai Rostri e dai Comizj. Queste scuole, istituite dall’Impero e mantenute a spese del pubblico erario, erano divenute il campo di puerili esercizj, di sterili e vane declamazioni. Ivi, anzichè di soggetti veri e reali, che sarebbe stato pericoloso trattare, si addestrava la gioventù ad arringare di cose cavate dalla fantasia: e perchè il gusto del secolo era volto alla morale, di cui generalmente si parla più quando ve n’è maggior difetto; da essa il più delle volte si accattavano li argomenti: e per riempire il vuoto derivante dalla simulazione della verità, che sola può dare agli oratori la spontanea eloquenza, pretendeasi che bastasse infarcire la mente degli alunni con una filastrocca di regole e di precetti così minuti, pedanteschi e ridicoli, che non par credibile potessero trovare ospitalità nella mente di uomini, non dirò serj come Quintiliano, ma di buon senso.138 Da ciò ne nasceva un’educazione del tutto falsata; una fantasia piena di casi ricercati e violenti, di passioni fittizie e smodate; un gusto tendente alle sottigliezze, all’esagerazione, ai luoghi comuni; a rilevare nelle cose piuttosto il lato cattivo che il buono; uno stile sforzato, smanceroso e sempre in cerca di un certo sublime,139 che obbligasse il lettore, come dice Persio, ad allargare i polmoni e ansimare.140 Or fu già notato che Giovenale passò gli anni della sua gioventù sotto il tirocinio di tali maestri, e in questi esercizj di declamazione. Era dunque impossibile ne uscisse mondo di ogni infezione, e senza che gli si attaccasse nulla di quell’enfasi artificiale, di quelle forme iperboliche e convenzionali, che formavano il carattere, e sto per dire, la sostanza dell’educazione letteraria di tutti, ed erano il vezzo del tempo. E infatti, chi voglia di lui giudicare senza passione, dovrà riconoscere che tali difetti a quando a quando trapelano nelle Satire, e maggiormente nelle ultime, scritte in vecchiaja; quando l’ingegno e l’immaginazione del Poeta, perdendo ogni giorno alquanto della sua forza, non teneano più bastantemente in freno le cattive abitudini dello scolare. Così gli accade alcuna volta di largheggiare un po’ troppo di tinte oscure; di alzar la voce anche quando non ce ne sarebbe stretto bisogno; di tener poco conto delle buone azioni, rarissime, a dir vero, in quel secolo nequitoso, ma non bandite affatto: poichè fortunatamente la virtù, per quanto vilipesa e perseguitata dagli uomini, non abbandona mai totalmente le loro dimore; ed anche in mezzo alla società più corrotta trova sempre un rifugio nel cuore di qualche magnanimo. Quindi non è senza qualche fondamento se li avversarj lo appuntano di essere troppo serio, monotono ed esagerato. Se non che hanno in questa riprensione molto trasmodato, e trattone delle conseguenze falsissime. Non è vero che Giovenale sia sempre burbero, e non ispiani mai le rughe della fronte. Vi sono nelle Satire dei luoghi che rallegrano piacevolmente il lettore, e non temono per amenità il paragone delle scene più comiche di Plauto e di Luciano. Fra tutti io non voglio ricordare che il Consiglio di Domiziano per la cucinatura del pesce;141 il briaco attaccabrighe;142 la donna bracona e la letteratessa.143 Bisogna dir però che quando ride, il suo riso è ancor più formidabile ai ribaldi che la stessa sua collera: e se qualche volta morde i ridicoli, lo fa perchè li vede sulla via di doventare scelerati. «Questa tua effeminatezza e indecenza di vestire, dice a Cretico, ti condurrà adagio adagio a cose più sozze: nessuno divenne turpissimo tutto ad un tratto».144 Non è poi giusto di mettere il Poeta in sospetto di veridico, e negargli ogni autorità e fede storica, solamente perchè è caduto in qualche esagerazione di forma e di colorito. Prescindendo anche dalle abitudini della scuola, ingrandire le cose è naturale alla poesia, e più alla satira. La quale — nota il signor Widall — «ha le sue leggi di prospettiva, e però i suoi privilegi, e le sue necessità nello stesso modo che il teatro. Come l’antica tragedia, essa pure prende talvolta la maschera e il coturno, a fin di farsi meglio sentire e vedere. Per colpir più giusto, mira di quando in quando più su: e così dà meglio nel segno. Nè questo può scriverlesi a delitto; purchè i suoi colpi non sieno diretti contro dei fantasmi. Or chi oserebbe dire che Giovenale ha detto male del suo secolo per il solo gusto di dir male? Abbassate un poco col pensiero il tono della sua voce; smorzate in qualche suo quadro alcuni colori troppo carichi; e per il fondo delle cose sarete sempre nel vero. Giovenale non è un satirico di fantasìa, nè uno scrittore atrabiliare, che vede la corruzione romana a traverso le nuvole ingannatrici di uno spirito scontento e pessimista. No; egli non inventa, non mentisce, non calunnia: parla della depravazione del suo tempo assolutamente come ne parla la storia. Tacito, Plinio il giovane, Marziale, Petronio, Luciano, Dione Cassio, Seneca, Svetonio e molti altri vengono continuamente a dargli ragione. Giovenale è prima di tutto un poeta storico.145
Ma le accuse più gravi e atroci, mosse al grande satirico, non sono quelle che abbiamo cercato di ribattere fin qui, e riguardano il suo gusto di scrittore: sono bensì quest’altre, che lo feriscono nella parte più vitale di un uomo dabbene, nella onestà. Si è detto che è licenzioso, senza pudore; che fa suo diletto d’intinger la penna nel letame delle più sozze oscenità, e dei delitti più inumani; che dimostra con ciò un istinto selvaggio e crudele; che per conseguenza la sua lettura è pericolosa e nociva. Queste esagerazioni fecero con ragione montare la senapa al naso ai due più caldi, ma giusti ammiratori dell’Aquinate, il Dussaulx e l’Achentrio; i quali rintuzzarono trionfalmente e ruppero le armi dei suoi detrattori, talchè dalle loro difese la fama del Poeta esce fuori non pur senza macchia, ma in certo modo più splendida. Agli scritti di costoro ricorra adunque chi avesse in tal proposito dei dubbj. Noi per tutta risposta a cotali vituperj non faremo che brevi considerazioni. E prima di tutto, o io vaneggio, o la stessa enormezza delle accuse le rende poco credibili. È fuori d’ogni verosimiglianza che Giovenale godesse tanta stima nel tempo che viveva e nei secoli successivi, se in lui si fossero trovate tutte queste cancrene. Fu già innanzi notato che le Satire di lui furono ascoltate e lette con grande ammirazione dai suoi contemporanei; e nel medio evo formarono l’occupazione più gradita di uomini gravissimi e di costumi inappuntabili, appo i quali il Nostro ebbesi guadagnato il titolo di Etico, cioè poeta morale per eccellenza, sotto il qual vocabolo era conosciuto a tutti più che per il vero suo nome. Questo prova che a quel tempo nel suo libro non si trovava tutto quel male che vi hanno scoperto gli acuti sguardi dei suoi recenti accusatori; o che da indi in qua i costumi sono tanto migliorati, da fare oggi apparire osceno ciò che allora non offendeva le orecchie più caste e delicate: la qual cosa vorrei bene che fosse vera, ma pur troppo l’uso del mondo mi dimostra che non è. Di più, io non ho mai letto che le Satire di Giovenale sieno state in nessun tempo la delizia e lo spasso dei lascivi e degli effeminati, come può dirsi dell’Arte di amare di Ovidio, degli Epigrammi di Marziale, e forse anco di alcuni componimenti di Orazio, di Catullo e di Properzio. Chi non voglia commettere, più che un errore, una grave ingiustizia, nel sentenziare dell’onestà degli scrittori deve tener conto delle condizioni della società, in mezzo alla quale sono vissuti. Se ciò non fosse ognora presente alla nostra memoria, in qual concetto dovremmo noi avere i nostri letterati del Cinquecento; i quali, da pochissimi in fuori, lasciarono tutti qualche scrittura, dove il pudore non sta troppo a bell’agio? Ma chi si richiama al pensiero il rilassamento morale di quel secolo; chi sa che a preti e frati, a vescovi e cardinali fu allora permesso nei loro scritti di bruciare incensi alla Venere impudica, senza compromettere la loro dignità; chi considera che Cosimo dei Medici non si tenne offeso dalla dedica fattagli dal Panormita del libro forse più osceno che si conosca, L’Ermafrodito; e che papa Leone X insieme coi principi della Chiesa potè assistere alla rappresentazione della commedia del Bibbiena La Calandra, non vorrà certamente mostrarsi così severo verso quei letterati, da negar loro ogni senso di verecondia, se in qualche cosa seguirono il comune andazzo: non dirà, per esempio, che furono uomini senza pudore Leonardo Bruni, il Poggio e il Machiavelli, sebbene anch’essi pagassero coi loro inchiostri un piccolo tributo alla letteratura licenziosa di quel tempo. E perchè il paragone riesca più convincente, vuolsi notare un’altra circostanza, che torna tutta a vantaggio di Giovenale. Quei nostri cinquecentisti non ebbero altro in vista che di divertire, e avrebbero potuto farlo agevolmente, senza uscire dei limiti della decenza: ma il satirico romano mirava più alto. Egli si era prefisso d’ispirare odio e orrore contro i vizj; e ciò lo portava di necessità a chiamarli coi loro nomi, a dipingerli coi loro colori, a mostrarli in tutta la loro schifezza. Ammesso il fine, bisogna concedere i mezzi. Di più: avevano gli antichi la nostra schifiltà per certi vocaboli e certe immagini? Se ciò è lecito argomentare dal linguaggio sboccato dei Comici, e da certi oggetti che si tenevano in mostra fin sulle porte di alcune case, si deve mettere in dubbio. Anche gli uomini più grandi e meglio pensanti non aveano allora, dice Plinio il giovane, quel ritegno, che impedisce di nominare certe cosette coi loro vocaboli. Chi più grave di Seneca? eppure non si riguarda dall’entrare spesso in particolari di oscenità. Chi più casto di Persio? eppure non mancano nelle sue Satire dei versi, che oggi non si leggono senza repugnanza, da chi ha fiore di verecondia.146 Di certe materie, lo so, sarebbe meglio non discorrerne: ma una volta che si deve, non bisogna aver troppi scrupoli. La proprietà e l’evidenza sono i primi pregj di ogni scrittura: ed è impossibile, come osserva un autore francese emulo di Giovenale, che «il cinismo dei costumi non insudici le parole».147 Se pochi vocaboli sconci alle orecchie di noi moderni; se qualche quadro, dove i vizj sono ritratti nella loro turpe nudità, bastano a meritare la taccia di uomini svergognati e senza pudore, che dovrà dirsi del principe degli oratori latini, il quale dinanzi alla maestà di quel Senato, che all’ambasciatore di Pirro era paruto un Consiglio di Numi, dipingeva coi più vivi e naturali colori le orgie di Verre, il cinismo di Clodio, le turpitudini di Antonio e i delitti di Catilina? Ma che parlo io di Cicerone? che dovrebbe dirsi dei Libri santi e di alcuni Padri e Dottori della Chiesa? Non parla apertamente S. Paolo di quell’infame delitto, che Giovenale fulmina nella satira nona? Chi può leggere oggi, senza sentirsi bruciare la lingua, la dissertazione d’Arnobio sulle processioni degl’idoli di Priapo; e la descrizione, che ci ha lasciato S. Epifanio, delle orribili e nefande disonestà che nei primi tempi si mescolavano alle sacre cerimonie da alcune società di cristiani?148 No, non sono poche parole prese di necessità dal vocabolario del bordello, nè qualche ritratto troppo fedele del vizio, che possano acquistare ad uno scrittore il titolo di disonesto e pericoloso. Disonesti io chiamo quegli autori che palpano e lusingano le umane passioni; pericolosi io dico quei libri, che presentano il vizio nella sua nudità soltanto per passatempo degli oziosi e dei libertini; e ne fanno una pittura piacevole e seducente, mostrandolo all’ombra e con tal veste che gl’incauti lo sbagliano facilmente per la virtù. Sui quali libri, che alla giornata vengono fuori con più frequenza e facilità degli almanacchi a infestare il campo delle lettere, io vorrei che si scrivessero queste parole di Virgilio: «o giovani, che andate cogliendo fragole e fiori, fuggite via di qua: un velenoso serpente sta rimpiattato fra l’erba».149 Ma può dirsi questo di Giovenale? Pigliatemi il passo più licenzioso delle sue Satire, e ditemi se a quella lettura, anzichè allettati a lascivia, non vi sentite compresi di raccapriccio e d’orrore! ditemi se quei quadri, che si vogliono pericolosi, non sono fatti in modo, che il vizio stesso non saprebbe rimirarvisi, senza provare di sè disgusto e vergogna! Tutto al più, io direi che questo libro non è adatto ad ogni sorta di lettori, nè conviene alla mente serena dei giovani; ai quali è una crudeltà strappare innanzi tempo dagli occhi quel velo che non lascia loro vedere tutto il male che fu, ed è nel mondo; e certi vizj è bene che non li conoscano neppure per odiarli. Ma a questo ha provveduto da sè il Poeta, scrivendo in maniera che il suo stile chiuso, pensato e curatamente disadorno come attira e ferma gli uomini maturi, così respinge e stanca tutti coloro, cui riescono pesanti le dolci fatiche dell’intelletto, e non sanno apprezzare i segreti dell’arte vera.
Ma dunque, sento obbiettarmi, voi approvate in tutto e per tutto quel linguaggio così sguajato e inverecondo? No, io non l’approvo: e tanto è vero che, traducendo, più qua e più là mi son creduto in dovere di scostarmi alquanto dal testo, o velando certe immagini troppo nude, o temperando l’asprezza di certi vocaboli troppo espressivi. E ciò per rispetto ai miei lettori, se ne avrò; giacchè i nostri usi e le convenienze di società non permettono più una tale licenza di parlare: e al giorno d’oggi perfino i più fradici bagascioni pretendono di sapere e mettere in pratica il galateo, almeno della lingua. Solamente io sostengo, che non si deve dar troppo biasimo a Giovenale, se nell’impeto di una generosa bile non seppe talvolta frenare la lingua, e si lasciò sfuggire qualche parola, che alle nostre orecchie non suona castamente: e ciò tanto meno se non perdiamo di vista e il tempo in cui visse, e gli uomini, ai quali erano indirizzate le sue Satire, e non meritavano davvero tanti riguardi; e la qualità dei vizj che gli capitavano sotto la penna. Io vedo infatti che tutte quelle Satire, dove non gli occorre di doversi accapigliare col brutto vizio della lussuria, hanno tale verecondia d’imagini e castigatezza di parole, che potrebbero darsi senza scrupolo in mano ad una monaca. Finalmente quale alto concetto egli avesse del pudore, e come lo raccomandasse anche nel parlare, quando le persone che ascoltano potrebbero da una parola non ben misurata prender motivo di scandalo, si sente in molti luoghi, ma più che altrove nella Satira decimaquarta; nella quale parlando della forza dell’esempio sulla educazione della gioventù, esce in queste sante parole: «nulla di sozzo a vedere o udire tocchi le soglie dove dimora un fanciullo: lungi, sì lungi di là le femmine di partito, e i notturni canti dei parassiti: il maggior rispetto è dovuto ai bambini».150
Dovrò io purgare il Poeta anco dalla taccia di crudele? Ma egli crede che la bontà dell’animo è un debito che tutti abbiamo verso la società151 e che l’uomo si rende colpevole non pur facendo il male, ma solamente a pensarlo;152 egli perora la causa di tutti gl’infelici;153 egli si fa il difensore dei vinti e dei deboli, dei poveri e degli oppressi;154 egli fulmina il duro e rapace governo dei Proconsoli, che spogliavano le provincie, non lasciando ai loro amministrati che gli occhi per piangere;155 egli censura seriamente quei padri, che invece d’ispirare ai loro figli sentimenti di mitezza e di bontà, insegnano loro coll’esempio a incrudelire verso li schiavi, come se quei disgraziati non fossero composti della medesima sostanza che noi:156 egli non sa capire che gli uomini possano riguardare come a sè stranieri i mali dei loro simili, e precorrendo più e più centinaja d’anni il suo tempo, condanna la pena di morte;157 egli dice le lacrime la miglior parte di noi, e fa della pietà un quadro, che non si legge senza che le ciglia s’inumidiscano di pianto.158
Nessuno ignora che alcuni letterati di grido, mossi dal desiderio di esaltare l’uno a danno dell’altro secondo le proprie simpatie, hanno voluto mettere a confronto i tre satirici latini Orazio, Persio e Giovenale: e sono in tal materia divenute celebri le dispute tra l’Einsio, il Casaubono e lo Scaligero. L’Einsio, incantato della grazia, amabilità e festevolezza del Venosino, nulla trova in Persio e in Giovenale, che sia degno di stargli a fronte. Il Casaubono, attratto dall’austera morale e dallo stile nervoso e tronco più che laconico del giovane Volterrano, dà a Persio la palma sopra Orazio e Giovenale. Lo Scaligero finalmente, a cui si uniscono Giusto Lipsio e il Rigalzio, rapito dalla nobilissima collera e impetuosa eloquenza dell’Aquinate, proclama Giovenale principe dei satirici.
I confronti, dice bene la comune sentenza, sono sempre odiosi: e in cose di lettere finiscono sempre, osserva con fino discernimento il Dussaulx, con farci anteporre quell’autore, che abbiamo più studiato, e ci costa più fatica. Io dunque per non meritare questo rimprovero mi asterrò da qualunque confronto, inviando, chi volesse anco su questo punto scuriosarsi, a ciò che ne hanno scritto fra i nostri il Cesarotti nella prefazione al suo volgarizzamento di alcune Satire di Giovenale, e il Monti in un bell’articolo premesso alle note della Satira quinta di Persio, da lui voltata in italiano. Il Monti meglio che il Cesarotti mi pare che abbia posta nei veri termini e sciolta la questione con quella larghezza d’idee e chiarezza di discorso, che furono sempre la vera specialità della sua mente lucidissima: però mi piace di riportarne qui la conclusione. «In opere di soggetto morale, egli dice, due doveri io distinguo nello scrittore: l’istruzione e il diletto; i bisogni del cuore e quei dello spirito. Se contemplo questi tre ingegni puramente come satirici, la lite di preminenza può agitarsi tra Giovenale e Orazio. Il mio Persio è troppo modesto per non entrare in competenza: ma ricordiamoci ch’egli scriveva colla prima lanugine sulla barba, e i suoi rivali colla canizie. Se movessi disputa dell’artificio poetico e dello stile, sarebbe delirio di contendere con Orazio. Ma lo stile di Persio, derivato perennemente dall’oraziano, è più castigato che quello di Giovenale, oltre una certa tutta sua propria velocità d’espressione, che lo rende unico e solo tra i classici tutti quanti. Se ponderiamo finalmente il valore delle sentenze, giudico Orazio il più amabile, Giovenale il più splendido, Persio il più saggio. Confuso fra gl’infimi nelle lettere; e non ligio nè ad un sol libro, nè ad un solo bello esclusivo; estimando tutti li scritti secondo che mi commuovono; nemico di tutte le parasite eleganze, e rapito di quelle uniche che mi portano qualche cosa nell’anima, con pace dell’Einsio, del Casaubono e dello Scaligero, e di tutti i devoti di un solo culto, io mi dono or all’uno or all’altro dei tre satirici, siccome il cuor mi significa. Quando cerco norme di gusto, vado ad Orazio; quando ho bisogno di bile contro le umane ribalderie, visito Giovenale; quando mi studio di essere onesto, vivo con Persio: e omai provetto qual sono, con infinito piacere mescolato di vergogna, bevo i dettati della ragione sulle labbra di questo verecondo e santissimo giovinetto».
Il mio discorso già volge al suo termine: e anticipo volentieri questa notizia a chi ebbe la pazienza di leggermi fin qui; perchè non gli devo parer vero, che questa pappolata finisca una volta. Non mi resta ora che a dire due parole degl’interpetri e traduttori di Giovenale, che mi hanno preceduto. Accennando più qua e più là i lavori di critica fatti intorno al grande Satirico, non mi accadde mai di dover citare un nome italiano, eccettuato lo Scaligero: giacchè nè la prefazione del Cesarotti, nè la nota del Monti testè ricordate meritano per la loro brevità di entrare nel numero di cosiffatti lavori. Si fonderebbe però sul falso chi da questo deducesse, che Giovenale sia stato poco in grazia dei nostri letterati, ed abbia avuto in Italia meno amici e ammiratori che altrove. Trovo invece che dalle nostre stamperìe uscirono le prime e più numerose edizioni di lui; che qua ne furono fatti i primi commenti e le prime traduzioni. Fra i commentatori vanno innanzi a tutti per ordine di tempo il Calderini, il Merula, il Valla, il Mancinelli e il Britannico; tutti nostri, benchè il nome di alcuno suoni forestiero: e tutti ebbero l’onore di ripetute edizioni in Italia e fuori, prima che di là dai monti si cominciasse quasi a far nulla intorno a Giovenale. E questo favore dei nostri verso il Satirico Aquinate non venne mai meno dal risorgimento degli studj classici fino al presente, come si pare dalla schiera di tanti valorosi, che si volsero a darcelo tradotto in italiano. Il più antico tra questi fu il veronese Giorgio Sommaripa, la cui versione in terza rima fu stampata la prima volta a Treviso nel 1480, e poi novamente a Venezia nel 1530. Un altro volgarizzamento in terzine, quartine, e strofe libere e legate, e con ricco accompagnamento di note, usciva nel 1711 a Padova dalla stamperia del Seminario col nome del conte Cammillo Silvestri da Rovigo, traduttore anche di Persio. Non bene un secolo dopo, ossia nel 1804, vedea la luce in Torino la versione in sciolti di Teodoro Accio; essa pure corredata di copiose illustrazioni: e nello stesso anno Gaetano Giordani pubblicava la sua in ottave a Milano: la quale fu poi ristampata a Venezia nel 1851, e con poco giudizio inserita nel decimo volume del Parnaso Straniero; quasi che li scrittori latini non fossero cosa nostra, ma di un altro paese. Due altri volgarizzamenti in terza rima ci davano Zeffirino Re da Cesena e il marchese di Montrone napoletano; l’una impressa a Padova nel 1838, l’altra in Napoli nel 1849. Anche la Sicilia ebbe il suo interpetre di Giovenale nell’operoso e diligente Tommaso Gargallo, la cui traduzione in sciolti è forse la più conosciuta, e fu due volte stampata; la prima a Firenze nel 1845 dalla Società Poligrafica italiana, e la seconda a Torino due anni dopo coi tipi del Fontana; che poco innanzi, cioè nel 39, avea pubblicato un’altra versione dello stesso Poeta, fatta dal cavalier Michele Leoni. Nè qui finiscono tali lavori intorno a Giovenale, poichè non è guari tempo che si misurava col Nostro il dottor Francesco Consolini di Brisighella; il quale nel 1869 metteva fuori il suo nuovo volgarizzamento in sciolti pei torchi di Pietro Conti in Faenza. Ai ricordati voglionsi aggiungere altri che separatamente recarono nella nostra lingua o parafrasarono alcuna o più Satire. E primi mi vengono sotto la penna i nomi di Lodovico Dolce, e Dario Varottari: dei quali il primo traslatò la Satira delle donne, indirizzandola al gran Tiziano nel 1538, e il secondo le due prime, che furono impresse a Venezia nel 1564, sotto l’anagramma di Ardio Rivarota. Una scelta delle Satire più purgate e tradotte in prosa ad uso delle scuole fu fatta da un anonimo e pubblicata col testo a fronte in Torino dalla Stamperìa Reale nel 1799. Ma chi occupa il primo posto fra i particolari volgarizzatori dell’Aquinate, è Melchiorre Cesarotti; il quale se invece di sole otto satire ce le avesse date tutte, e si fosse un poco più curato d’intender meglio alcuni punti; a malgrado di quelle sue stemperatezze e non infrequenti licenze di stile, avrebbe forse tolto ad ognuno il coraggio di mettersi ancora a siffatta impresa, come fece dell’Ossian.159 Finalmente qualche satira fu tradotta anche dal Metastasio e dal Pignotti.160
Che c’era dunque bisogno, si dirà, che in tanta dovizia di traduttori voi ci deste un altro volgarizzamento di Giovenale? Tale domanda, io confesso, ha risonato più volte nella mia immaginazione, mentre attendevo a questo lavoro; e me n’avrebbe affatto distolto e allontanato, se fin di principio, e poi seguitando, non avessi avuto sempre in animo di dar piuttosto a me stesso un’occasione di piacevole e non disutile esercizio, che di far cosa da andare per le mani degli altri: e per questa parte devo dire che l’esito ha pienamente risposto all’intenzione, poichè nella mia vita già prossima a svettare la cinquantina, poche ore mi son passate così dilettosamente come quelle che ho spese a lottare col focoso e battagliero Censore romano. Se poi io abbia peccato di troppa correntezza e fatto opera vana lasciandomi persuadere, un poco dall’amor proprio — e chi non ha questo benedetto amor proprio? — un poco da persone autorevoli, a dare alle stampe questa mia versione, non sta a me a giudicarlo; e me ne rimetto in tutto alla sentenza che ne daranno gli uomini competenti; seppure alcuno vorrà pigliarsi la fatica di leggerla e confrontarla colle altre. Certamente io non mi picco di aver fatto cosa perfetta, e che gl’intendenti non abbiano a trovarvi nulla da ridire. Ciò sarebbe imperdonabile presunzione e ignoranza del come è impossibile contentare tutti i gusti in qualsiasi materia, ma particolarmente in opera d’arte. Quello, di cui mi confido, si è di avere fatto un po’ meglio degli altri: e questo mi sia lecito dire senza tirarmi addosso la taccia di superbo; perchè se dicessi il contrario, mi farei bello di una modestia, che ognuno avrebbe mille ragioni di non creder sincera, e sarei smentito dal fatto stesso dell’avere acconsentito che il mio lavoro venisse alla luce. Però, non ad accattare indulgenza da quelli che vorranno farsi miei giudici, nè a temperarne il rigore, che invoco anzi severo per trarne profitto a migliorare col tempo la mia scrittura; ma per metterli sulla via di giudicarmi con piena cognizione di causa mi piace di dir con franchezza, da quali intendimenti io sia stato guidato nel condurre questa impresa. Secondo il mio corto vedere, chi piglia a volgarizzare un libro, deve tener più in vista i molti, che ignari affatto della lingua, in cui è scritto, sono nella impossibilità di leggerlo nell’originale, che i pochi, i quali avendo la fortuna di conoscere sufficentemente la detta lingua, posson da sè accostarsi a bevere alla natia sorgente, e non han bisogno, tutto al più, che di un aiuto per vincere con minor fatica certe difficoltà, che s’incontrassero sul cammino: al che nulla giova meglio che le versioni parola a parola, senza scrupolo, nè di stramberie, nè di barbarismi, nè di scontorcimenti. Ogni scrittore di vaglia, secondo che avvisano Dionigi d’Alicarnasso161 e Orazio,162 ha due perfezioni; la bellezza cioè e la piacevolezza. Consiste la prima più che altro nella novità de’ concetti, nella correttezza del disegno, nella giusta proporzione e armonìa delle parti, negli ornamenti dello stile, in tutto ciò finalmente che dipende dall’arte e dall’industria: e trasportare questi pregj da una lingua in un’altra non è difficile, perchè basta quasi tenersi stretti all’autore e farsene fedeli interpreti. La piacevolezza, soavità che voglia dirsi, nissuno potrebbe con esattezza definirla o indicare dove risiede; ma se mi è lecito un paragone, essa è come lo spirito, che dà vita e moto ai corpi, un’aura che spira quasi insensibilmente dalle scritture, e insinuandosi con diletto negli animi, li molce, li accarezza, l’incanta; e senza che se n’accorgano, li conduce dove vuole. E questa virtù, che forma il vero pregio di un libro, è difficilissima a farsi passare nelle versioni; perchè di nulla nulla svanisce tra le mani, come l’essenza di un odore che si travasi. Perciò chi traduce, dee usare tutta la diligenza e fare ogni sforzo per conservarla più che sia possibile; se tutta non gli è dato: e solamente chi sappia far questo, può esser sicuro di dare all’opera sua un certo carattere di originalità, e far quasi dimenticare a chi legge d’aver sotto gli occhi una copia: dal che dipende la fortuna di tali lavori. E questa parte appunto, qualunque ne sia stata la cagione, mi pare che abbiano troppo trascurato finora i nostri volgarizzatori di Giovenale; ragione, per cui le loro traduzioni, sebbene, qual più qual meno, non sieno prive di meriti, non si leggono senza fastidio e stanchezza, e soltanto da quelli, che se ne vogliono aiutare per capir più facilmente l’originale. Io dunque mi son proposto di riparare a questo difetto; e salvando sempre, fin dove si poteva, il carattere dell’autore e la fedeltà, ho voluto più fare un Giovenale italiano che una traduzione di lui, come parmi che facessero con Virgilio e Omero il Caro e il Monti, che in tale materia non hanno chi li pareggi, e meritano davvero di esser presi a modello. A conseguire più agevolmente l’intento; considerando che la satira, nata ad un parto colla commedia, si aggira fra li umani convegni, e ritrae quasi sempre i costumi e le usanze della vita comune, mi son creduto, se non sciolto, almeno con una qualche libertà legato a certi rigori di lingua, che per alcuni nostri legislatori di grammatica sono come il Dio Termine dello scrivere: e quando mi è capitata l’opportunità, più che i freddi responsi di un vocabolario, ho consultato i pittoreschi parlari del mio popolo toscano: al quale in opera di lingua io m’inchino più che a tutti i chiarissimi parrucconi che sputano tondo. Se sarò riuscito a far cosa utile e di gradimento agli amatori delle buone lettere, non so: questo so dicerto, che ho voluto a tutto mio potere: e poniamo mi sia venuto meno l’ingegno, non mi è mancato nè il lungo studio nè il grande amore del libro, che oggi io presento loro in nuova veste italiana. Il quale, ancorchè sia lo specchio di un’età molto da noi lontana, e sappia di forte agrume, non sembrerà per avventura un frutto tanto fuor di stagione, se chi ha orecchie da intendere, intenda; e se gli toccherà la sorte di tirare a sè li sguardi di coloro, che vedono le cose come sono; e non dei visionarj, cui tutto si dipinge a colori di rosa, e non si accorgono del male, che quando non ha più rimedio.
- Firenze, 8 Agosto 1875.
Note
- ↑ Mommsen, Iscr. R. Neopol. N.° 4312.
- ↑ Sette di queste notizie biografiche, e le più importanti, si trovano nella edizione di Giovenale curata da Ottone Iahn. (Bertolini, 1851.)
- ↑ C. F. Hermann, Iuvenalis Satirae, Lipsiae, 1862. Praef.
- ↑ Sat. III, 319.
- ↑ Giornale Arcadico. Roma, 1847. Intorno all’età di Giovenale.
- ↑ Sat. I, 15.
- ↑ Orazio, Epist. II, 1, 69.
- ↑ «Cum ad dignitatem equestris ordinis pervenire sua virtute meruisset». Così si legge in due delle antiche notizie.
- ↑ Lib. VII, 91.
- ↑ Sat. VI, 75 — Sat. VII, 83, 186.
- ↑ Epigr., lib. VII, 24, 91. Lib. XII, 18.
- ↑ Marziale, Epigram. passim.
- ↑ Sat. II, 29, segg. La Sat. IV è tutta contro Domiziano e Crispino. Sat. I, 27. Sat. VI, 87. VII, 87.
- ↑ Sat. VII, 83.
- ↑ «Satyra non absurde in Paridem Domitiani pantomimum.... vibrata, poetamque P. Statium composita».
- ↑ V. 87, segg.
- ↑ «Quibus (carminibus) Trajanus, intelligens vita carpi sui temporis, ira percitus, ... fecit eum praefectum militum etc.».
- ↑ Sat. VII.
- ↑ Plin., Paneg.: «sub te spiritum et sanguinem et patriam receperunt studia, quae priorum temporum immanitas exiliis puniebat».
- ↑ Sat. VII, 189.
- ↑ Ausonio, Grat. Act., p. 290.
- ↑ Dione Cassio, LXVIII, 10.
- ↑ Vannucci, Storia, V, IV, 366.
- ↑ Plin., Paneg., 34.
- ↑ «Qua ex re commotus, nulla alia occasione reperta struendae mortis in Juvenalem, sub honoris praetextu fecit eum praefectum militis contra Scotos, qui bellum contra Romanos moverant, ut interficeretur Iuvenalis».
- ↑ Svet., Domit. Plin., Paneg. Epist. III, 11. Dione, LXVII.
- ↑ Tacit., Agric. II, 45. Svet., Domit. 10. — Dione, LXVII. Plin. Epist. I, 5. II, 18.
- ↑ Sat. VII, 1-12.
- ↑ Epist., IV, 14. VII, 4.
- ↑ «Paucorum versuum satyra».
- ↑ «Diu ne modico quidem auditorio committere est ausus: mox magna frequentia tantoque successu bis aut ter auditus, ut ea quoque, quae prima fecerat, inferciret novis scriptis: quod non dant proceres, dabit histrio etc.».
- ↑ «Paridem panthomimum, qui in deliciis apud Trajanum imperatorem habebatur».
- ↑ V. 38.
- ↑ Ottone Ribbek, quantunque ammetta che la Satira VII fu scritta e pubblicata la prima volta sotto Trajano, pure ostinandosi a credere che l’autore dell’esilio dovette essere Adriano; nè dandogli l’animo di contraddire a tutti gli antichi, che dicono trovarsi veramente in quella satira i versi che lo fecero esiliare; immagina che in quella prima pubblicazione il Poeta non inserisse i detti versi: ma poi in una seconda edizione da lui fatta nel 135, cioè l’anno innanzi la morte di Adriano, ve l’inserisse; e Adriano ne prendesse argomento di sdegnarsi e d’esiliare il poeta. Ma possono i sogni dei critici accettarsi per fatti storici? — O. Ribbeck. Iuvenalis Satirae. Praefatio, XII. Lipsiae, 1859.
- ↑ Sat. II, 159 segg.
- ↑ Sat. XV, 45.
- ↑ Verso 320.
- ↑ Diplomi imperiali di privilegi concessi ai militari, illustrati dall’Hentzen in Iahrbb. f. Alterth. im Rheinl. 1848. T. XIII, p. 87. — C. F. Hermann. Iouvenalis Satirae. Praef., VII.
- ↑ Tacito, Vita di Agricola. — Vannucci, Storia ant., IV, p. 331.
- ↑ Henzen, Annal. antiquit., in Rhen. XII, 87.
- ↑ Il sig. Ribbeck spiegando, come vedemmo, l’esilio di Giovenale in altro modo, e apponendolo ad Adriano, immagina che il titolo di tribuno, che si legge in questo epitaffio, accenni ad un primo assoldamento, preso volontariamente dal Poeta, per andare a combattere in Scozia negli ultimi anni di Domiziano. Ma neppur di questo li antichi non fiatano.
- ↑ Marz., Epigr., XII, 21.
- ↑ Plin., Epist., III, 21.
- ↑ Verso 27.
- ↑ Borghesi, Intorno all’età di Giovenale; nel Giornale Arcadico. Roma, 1847. — Cardinali, Diss. accad. Rom. archeol. 1835. T. VI, 240.
- ↑ Johann Valentin Francke, Examen criticum. D. I. Iuvenalis vitae. — Alten, 1820.
- ↑ «Sed tamen paulo post, ut sciret sibi iratum principem, in codicillis suis ad eum in exercitu mittendis inseruit: et te Philomela promovit».
- ↑ Ribbeck, D. I. Iuvenalis Satirae. Praef. Lipsiae, 1859.
- ↑ Sat. III, 319 segg.
- ↑ «Libertini locupletis incertum filius an alumnus. — Quum venisset sua virtute ad equestris ordinis dignitatem etc.».
- ↑ Sat. XI, 121 segg.
- ↑ Idem, 145-159.
- ↑ Sat. XI, 146 segg.
- ↑ Idem, 129 segg.
- ↑ Idem, 60 segg.
- ↑ Idem, 162-177 segg.
- ↑ Idem, 181 segg.
- ↑ D. Nisard, Etudes sur les poètes latins de la decadence.
- ↑ Martha.
- ↑ Sat. VI, 289 segg.
- ↑ Sat. XI, 86 segg.
- ↑ Sat. III, 309 segg.
- ↑ Sat. VIII, 46.
- ↑ Sat. VIII, 77.
- ↑ Orazio, Poetica.
- ↑ Sat. VIII, 159.
- ↑ Sat. XIII, 46.
- ↑ Sat. XV, 10.
- ↑ Sat. VI, 394.
- ↑ Sat. XIII, 115.
- ↑ Sat. II, 131.
- ↑ Sat. III, 320 segg.
- ↑ Sat. XII, segg.
- ↑ Sat. XIII, 75 segg. — Sat. VI, 335 segg.
- ↑ Verso 149.
- ↑ Questa sua persuasione apparisce da varj luoghi delle Satire, e più specialmente dallo spirito ond’è informata tutta la tredicesima.
- ↑ Verso 345 segg.
- ↑ Sat. XIII, 120 segg.
- ↑ Achaintre.
- ↑ Sat. I, 79.
- ↑ Hermann, Praef., XII.
- ↑ Sat. III, 232 segg.
- ↑ Sat. III, 95 segg.
- ↑ Sat. III, 11 segg.
- ↑ Sat. III, 88 segg. VII, 16.
- ↑ Sat. III, 268 segg.
- ↑ Sat. III, 278 segg.
- ↑ Sat. IV.
- ↑ Sat. V.
- ↑ Sat. XI, 162. III, 203.
- ↑ Sat. VI, 582.
- ↑ Sat. VI, 511 segg.
- ↑ Sat. VI, 487 segg.
- ↑ Sat. VI, 233, 277.
- ↑ Sat. VII, 3, 30, 39.
- ↑ Sat. VIII, 10, 146, 158, 171, 185. Sat. XI, 8, 20.
- ↑ D. J. Juvenalis Satirae; edidit Otto Ribbeck. Lipsiae, 1859. Praef. IX.
- ↑ «Ein speculativer Buchhändler und ein hungriger Poet niedrigen Ranges sich zu dem lucrativen geschäft zusammenthaten eine solche postume ausgabe zu veranstalten ec.» Pag. 73 del suo libro intitolato: Der echte und der unechte Juvenal, eine kritische untersuchung. Berlin, 1865.
- ↑ Observatt. in Juvenalis locis aliquot interpretandis. Berolini, 1743.
- ↑ Op. cit.
- ↑ Serv. in Virg. En. I, 11.
- ↑ Priscian., lib. VIII, c. 9, 14.
- ↑ V. Fabre de Norbonne.
- ↑ V. la lettera a Ottone Woldemar, che sta in principio della sua edizione di Giovenale. Lipsia, 1859.
- ↑ Pietro Antonio Petrini. La Poetica di Orazio restituita all’ordine suo, e tradotta con note. Roma, 1777.
- ↑ È così detto, perchè fu involato dalla Biblioteca di Buda, e comprato da Pietro Pithou, il quale vi fece sopra un’edizione di Giovenale nel 1585 a Parigi. Questo codice fu poi per lungo tempo creduto perso; ma nel 1847 fortuna volle che lo ritrovasse il Dübner nella Biblioteca di Montpellier.
- ↑ V. Index Schol. vindiciae Iuvenalianae. Gottingae, 1854, in principio.
- ↑ D. I. Iuvenalis Satirae, Praef. Lipsiae, 1862, pag. 21.
- ↑ «Sunt clari hodieque et qui olim nominabuntur».
- ↑ Amm. Marcellini Hist., lib. XXVIII, 4.
- ↑ Hermann, op. cit., XVIII.
- ↑ Vedi l’Indice dei codici e dell’edizioni nel Giovenale del Pomba, Torino, 1830. Trentadue di queste edizioni furono fatte a Venezia, e la prima nel 1470, cioè pochi anni dopo l’invenzione della stampa. Stando alle notizie statistiche raccolte dall’Hallam, uscirono più libri dalle officine degl’impressori veneti che non da quelle di tutte le tipografie di Europa prese insieme. Ciò mostra l’operosità di Venezia nell’industria tipografica e nel commercio librario. — D. Berti, Vita di G. Bruno, p. 242.
- ↑ Lib. VII, 24.
- ↑ Ivi 91.
- ↑ Sat. VIII, 164 segg.
- ↑ Achaintre.
- ↑ Sat. VI, 634 segg.
- ↑ Svet., Dom., XXXI.
- ↑ Nägelsbach, Philol., T. III, p. 469.
- ↑ V. Svetonio.
- ↑ Sat. VI, 63.
- ↑ Svet., Vita Tiberii.
- ↑ Sat. VI, 315 segg.
- ↑ Sat. VI, 320.
- ↑ Ivi, 638.
- ↑ Giusti, Vita del Parini.
- ↑ Sat. IV, 37, 87.
- ↑ Orazio, Sat., lib. I, 4, in principio
- ↑ Persio, Sat. I, 114.
- ↑ Giovenale, Sat. I, 165.
- ↑ Orazio, Epist., Lib. I, 4, in fine.
- ↑ Sat. I, 30, 45, 147.
- ↑ Lett. 64, 65.
- ↑ Orazio, Sat., Lib. I, 1, 9. Lib. II, 3, 4, 8
- ↑ Giov. Sat. XIII, 104.
- ↑ Giusti, Vita del Parini, p. 126.
- ↑ Par., XVII, 126, 133.
- ↑ Quintil., Inst.
- ↑ Nisard, op. cit.
- ↑ Sat. I, 13.
- ↑ Sat. IV.
- ↑ Sat. III, 278 segg.
- ↑ Sat. VI, 398, 434.
- ↑ Sat. II, 82.
- ↑ Op. cit. Introduzione, p. 44.
- ↑ Persio, Sat. IV, 33, segg.
- ↑ Augusto Barbier, Satires et poèmes. Prologue.
- ↑ V. Monti in una nota alle Satire di Persio.
- ↑ Egloga III, 92.
- ↑ Sat. XIV, 44.
- ↑ Sat. VIII, 24.
- ↑ Sat. XIII, 208.
- ↑ Sat. V, 130.
- ↑ Sat. VIII, 87 segg. Sat. III, 282 segg.
- ↑ Ivi, Sat. I, 47.
- ↑ Sat. XIV, 14.
- ↑ Sat. VI, 221.
- ↑ Sat. XV, 140.
- ↑ Le Satire volgarizzate dal Cesarotti sono la 1, 3, 4, 6, 8, 10, 13, 15: e nello stesso anno 1805 ebbero due edizioni; l’una a Pisa, e l’altra a Parigi.
- ↑ Nell’avviso che precede l’edizione delle Satire di Giovenale tradotte dal Gargallo e stampate in Firenze dalla Società Poligrafica italiana nel 1844, trovo ricordato un altro volgarizzamento fatto da Pietro Venturi; ma io non potei rintracciarlo.
- ↑ Cap. X segg. Intorno alla composizione delle parole.
- ↑ Poetica, 99.