Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
prefazione | xiii |
pare che il passo, dove Giovenale fa l’elogio di Stazio,1 abbia un non so che di equivoco; e sia di tal natura, che di sotto alle lodi del poeta si senta uscir fuori un suono di rimprovero al servile uomo di lettere, che vende la penna per mangiare. E ciò è così vero, che anche gli antichi trovarono in quei versi piuttosto un biasimo velato che un vero elogio; come ne fa fede una delle note biografie, dove i detti versi son chiamati una satira contro di lui e dell’istrione Paride.2 In secondo luogo, se Giovenale rammenta con onore la Tebaide, dove Stazio, se non si astiene del tutto dall’adulare, è in ciò assai parco; si guarda però bene dal pur nominare le sue Selve, dove veramente son bruciati a Domiziano gl’incensi più vili.
Tanto l’anonimo scrittore della Vita apposta a Svetonio, quanto tutti gli altri scoliasti e grammatici che hanno parlato di Giovenale, sono unanimi nel dire, che avendo egli mosso l’ira e il sospetto dell’Imperatore, fu, sotto specie di onore e col pretesto di un ufficio militare, mandato in esilio negli estremi confini dell’Impero: nè discordano nell’allegare la causa di quello sdegno, attribuendolo tutti in coro ad alcuni versi, che si leggono nella settima satira,3 dove il poeta dà