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prefazione xxxv

accogliere nell’animo quei semi d’odio e di disprezzo, che doveano per la sua lingua fruttare eterna infamia a quel mostro vituperoso. E poi chi ci dice che nei tredici anni della sua assenza, e per lettere e a voce dalle persone che di continuo doveano arrivare dall’Italia, non fosse tenuto in giorno di tutto quello che accadeva nella capitale? Anzi, io credo assolutamente coll’Hermann che questa prolungata lontananza operasse in lui come un rinnovamento, e gli desse l’ultima spinta a scrivere la Satira morale. Ho già detto, che nella sua gioventù anch’egli probabilmente dovette, così per passatempo, esercitare l’ingegno a comporre di quelle brevi poesie giocose e pungenti, che, a detta di Plinio, erano divenute quasi un genere di moda pei letterati. Trovatosi ora lontano dalle combriccole degli amici e dal tumulto della popolosa città, ebbe agio di entrare in sè stesso: e riandando nella mente le lacrimevoli condizioni dei tempi, e la depravazione generale, sentì che il riderne era stato quasi un delitto; e che per non esser complice di tante infamie, bisognava alzar la voce e rotare il flagello. Nè oserei per conseguenza di contraddire a chi opinasse che una parte delle Satire, quando il Poeta ritornò, fossero, se non scritte, almeno ordite; e che a Roma non facesse altro che mettervi la trama. Ma io voglio concedere al dotto critico di Kiel l’impossibilità della tredicenne lontananza. Ne viene forse per conseguenza che il Poeta non potesse