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prefazione lxxxi

primo; dimesso, pedestre, scherzevole e umoristico il secondo. Ora se vero è che «lo scrittore di satire, se intende davvero il suo fine, bisogna che sia figliuolo de’ suoi tempi, non solo quanto alle cose prese di mira, ma anche per lo stile e per la lingua; e che la satira deve essere fatta non alla misura dell’uomo, ma a quella del vizio, a seconda via via delle forme che assume di tempo in tempo»;1 qual è il genere che meglio conveniva ai tempi di Giovenale? Forse quello semiserio, corbellatorio e agrodolce preferito da Orazio? Potrebbe dirsi ch’egli avesse inteso il suo fine e conosciuto il suo tempo, se si fosse dato a questo genere? Oh sì proprio che quello era tempo da burle e da facezie! Oh sì che dovea esservi una bella voglia di ridere e barzellettare, «mentre l’ultimo dei Flavi lacerava il mondo semivivo, e Roma gemeva sotto la servitù di Nerone il Calvo! al quale parlando soltanto del buono e del cattivo tempo, si rischiava la vita».2 Oh sì che sarebbe stato onesto davvero, coprir di ridicolo e non d’infamia tanti orribili mostri, che erano il flagello e il disdoro dell’umana schiatta! Nei tempi passati era stato forse indifferente per la morale il genere serio e il faceto; nè potea farsi carico ad un poeta di seguir piuttosto l’uno che l’altro, avvegnachè la

  1. Giusti, Vita del Parini.
  2. Sat. IV, 37, 87.