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xcvi prefazione

potuto farlo agevolmente, senza uscire dei limiti della decenza: ma il satirico romano mirava più alto. Egli si era prefisso d’ispirare odio e orrore contro i vizj; e ciò lo portava di necessità a chiamarli coi loro nomi, a dipingerli coi loro colori, a mostrarli in tutta la loro schifezza. Ammesso il fine, bisogna concedere i mezzi. Di più: avevano gli antichi la nostra schifiltà per certi vocaboli e certe immagini? Se ciò è lecito argomentare dal linguaggio sboccato dei Comici, e da certi oggetti che si tenevano in mostra fin sulle porte di alcune case, si deve mettere in dubbio. Anche gli uomini più grandi e meglio pensanti non aveano allora, dice Plinio il giovane, quel ritegno, che impedisce di nominare certe cosette coi loro vocaboli. Chi più grave di Seneca? eppure non si riguarda dall’entrare spesso in particolari di oscenità. Chi più casto di Persio? eppure non mancano nelle sue Satire dei versi, che oggi non si leggono senza repugnanza, da chi ha fiore di verecondia.1 Di certe materie, lo so, sarebbe meglio non discorrerne: ma una volta che si deve, non bisogna aver troppi scrupoli. La proprietà e l’evidenza sono i primi pregj di ogni scrittura: ed è impossibile, come osserva un autore francese emulo di Giovenale, che «il cinismo dei costumi non insudici le parole».2 Se

  1. Persio, Sat. IV, 33, segg.
  2. Augusto Barbier, Satires et poèmes. Prologue.