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xliv prefazione

sprezzo negli altri, e attribuisce alla mancanza di convinzioni religiose, se quel secolo era venuto a così sbrigliata malvagità, di cui non vi era idea nei beati tempi, quando si aveva tutto il rispetto per la divinità e le cose sacre, «e nessuno avrebbe osato ridere del simpuvio, del nero catino, e dei piatti d’argilla del monte vaticano, usati da Numa nei sacrifizj».1 Era Giovenale per conseguenza un credente nelle mostruose assurdità della teologìa pagana? No certamente: e prova ne sia un passo della seconda Satira, dove dice che certe frottole mitologiche, come il regno de’ Mani, il fiume Stige, e la barca di Caronte non eran più credute neppur dai bimbi.2 Non disprezzava però la religione. Stimava invece opera di buon cittadino prestarle il debito culto; e avrebbe voluto che da tutti fosse stata sentita e rispettata: convinto, com’era, che là dove manca un sentimento religioso qualsiasi e una fede nell’avvenire, ivi non può trovarsi il sodo per posarvi i fondamenti della morale.3 Egli è finalmente certo, che nell’interno del suo cuore si allontanò dalle volgari credenze, ed ebbe della divinità un concetto nobilissimo e giustissimo. A convincer di ciò chi ne dubitasse, non ho che a ricordargli

  1. Sat. XIII, 75 segg. — Sat. VI, 335 segg.
  2. Verso 149.
  3. Questa sua persuasione apparisce da varj luoghi delle Satire, e più specialmente dallo spirito ond’è informata tutta la tredicesima.