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prefazione | xlv |
un passo della Satira decima, dove così conchiude sull’inutilità degli umani desiderj: «Se tu vuoi un consiglio, lascia ai Numi la cura di bilanciare quelle cose, che ci convengono, e son di nostro vantaggio. Essi ti daranno non ciò che ti piace, ma ciò che ti giova. Il nostro bene sta loro a cuore più che a noi stessi».1 Potrebbe esprimersi meglio l’idea della Provvidenza divina, e la fiducia che noi dobbiamo riporre in Lei?
Questa indagine delle opinioni politiche e religiose di Giovenale avrà fatto nascere, se non m’inganno, in qualcheduno la curiosità di conoscere, se in filosofia egli seguisse alcuna dottrina particolare. Tre erano le sette principali, che allora si fronteggiavano in Roma sul campo della morale, a cui da lunga pezza erasi ristretta tutta la filosofia; cioè li Epicurei, i Cinici e li Stoici. Il nostro Poeta si protesta di non avere appartenuto nè agli uni nè agli altri.2 I suoi detti però non vanno presi troppo alla lettera. Egli vuol dire, che non fu partigiano di nessuna setta; ma ciò non esclude che nella pratica della vita, e per lo spirito che domina ne’ suoi versi, si accostasse molto più alla scuola di Zenone che a quella di Aristippo e di Antistene. Se infatti egli non predica a ricisa la dottrina del Portico con tutto quel rigorismo esteriore degli Stoici,