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prefazione xxi

detto esilio si volle apparentemente coprire col mantello di un onore e ufficio militare: e due di essi ci assicurano che l’intenzione si fu di esporre il poeta a quella morte, che si sarebbe voluto architettare contro di lui in Roma, ma ne mancò l’opportuniià.1 La qual finzione e ferocia si addicono benissimo al terzo imperatore della gente Flavia; del quale si legge, «che fu bassamente codardo e finto; di una crudeltà grande inaspettata e astuta; che sotto le apparenze dell’amore celava odj immortali, e facea buon viso a quelli che destinava alla morte, studiandosi che ne ricadesse sugli altri l’odiosità; che una volta fece venire nella sua stanza, e volle con sè a pranzo un cittadino, che il giorno dopo dovea per suo comando salir sulla forca; e mostrossi con lui tanto affabile e amorevole, che quegli partissene tutto tranquillo e allegro».2 Qual libertà poi lasciasse agli scrittori, lo dicono la morte di Erennio Senecione e di Aruleno Rustico, e i loro libri fatti ardere nel foco, e le loro famiglie cacciate in bando.3

E credo che sia da farsi anco un’altra considerazione. In tutte le sue Satire il poeta non ha

  1. «Qua ex re commotus, nulla alia occasione reperta struendae mortis in Juvenalem, sub honoris praetextu fecit eum praefectum militis contra Scotos, qui bellum contra Romanos moverant, ut interficeretur Iuvenalis».
  2. Svet., Domit. Plin., Paneg. Epist. III, 11. Dione, LXVII.
  3. Tacit., Agric. II, 45. Svet., Domit. 10. — Dione, LXVII. Plin. Epist. I, 5. II, 18.