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lxxvi prefazione

stessi diritti, la riguarda soltanto come un mezzo buono unicamente a dare sfogo alle sue passioni, e che può cambiarsi a capriccio; degradandola e avvilendola, distrugge in essa il sentimento della propria dignità: perduto il quale, la donna, che vive del cuore più che dell’intelletto, non ha più guida che la regoli, non ha più freno che la ritenga dal precipizio. E tale era lo stato che avea fatto alla donna in Roma la malaugurata legge del divorzio. Finchè l’antica severità dei costumi riparò ai difetti della legge, le cose andarono bene: e la donna essendo tenuta nel conto che meritava, fu la degna compagna dei vincitori di Pirro e di Annibale, e gareggiò con essi nell’amore di patria e nella virtù dei sacrifizj. Ma non sì tosto la prisca rigidezza si fu alquanto ammollita, si videro i miserabili effetti di una tal legge. Gli uomini cominciarono a stufarsi delle loro mogli: e giacchè poteano farlo legittimamente, vollero cambiarle. Nelle cose, alle quali ci spinge soltanto il desiderio dei piaceri, una volta fatto il primo passo, per fermarsi ci vuole uno sforzo, di cui pochi sono capaci. Nei primi quattrocento anni di Roma non si legge caso di divorzio: ma verso la fine della Repubblica un uomo che non avesse sposato più donne, passava per un prodigio. Lo scandalo andò sempre crescendo, e sotto i primi Imperatori si mutavano le mogli come si farebbe di un vestito. Ciò screditò il matrimonio. Molti trovarono più