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lxxiv prefazione

contradizione, l’ipocrisìa era divenuta vizio comune, ma più dell’aristocrazìa. Lo Stoicismo, da cui Trasea Peto, Elvidio Prisco e tanti altri aveano attinto la forza per resistere alla tirannìa di Nerone, serviva a costoro di maschera per coprire le più nefande e vituperose libidini. Altri invece buttando giù buffa del tutto e infemminandosi pubblicamente, attaccavano l’infame contagio anche alla parte sana, seppur ve n’era, dei cittadini. E questi bagascioni dovettero essere molti e turpissimi, perchè Giovenale li assalisse così a viso aperto, e con tal violenza, e non una volta, ma due, cioè nella seconda satira e nella nona; che per la somiglianza della materia bene starebbero accanto.

Se io volessi, mi sarebbe facile attingere dai summentovati storici e dalle opere di Seneca, di Plinio e di Petronio non piccola messe di fatti che, rivelando a qual punto fosse giunta allora questa infame prurigine, assolvono Giovenale da qualunque taccia di esagerazione per questo capo: ma il rispetto che io devo ai miei lettori e a me stesso mi vieta di rimescolare un tal fango.

La sesta satira tratta dei vizj delle donne romane: e taluno che per curiosità volle contarli, trovò che passano la trentina. Essa è la più vasta, la più vivace e variata composizione del Nostro: e sarebbe anche la più perfetta, se non vi si notasse una certa mancanza d’arte nell’ordinamento delle sue parti: sebbene anche