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xxxviii | prefazione |
un bifolco; non parlanti altro che il latino; rozzamente vestiti, e sempre spettinati; ma d’aspetto ingenuo e pieni di quella verecondia, che non hanno tanti che indossano la porpora.1 Però si guardava bene d’invitare a pranzo quei superbi, che avrebbero con disprezzo fatto il confronto tra le loro splendidezze e la sua meschinità.2 I suoi pranzi erano parchi e di pietanze casalinghe: e perchè li amici si regolassero, ne mandava loro innanzi la lista. Un capretto lattonzolo del suo podere di Tivoli; un piatto di sparagi salvatici raccolti dalla massaja del suo contadino; una gallina, uova fresche, uva e pere.3 Dopo pranzo, invece di canti e danze di lascive fanciulle, lettura di Omero e di Virgilio.4 Gli piaceva però di mangiare quel poco in pace, senza pensieri; nè volea che altri gli amareggiasse i bocconi, parlandogli d’interessi, di dissapori avuti in famiglia, o di torti ricevuti dagli amici. Chi avea delle uggie, le lasciasse alla porta.5
In mancanza di altre notizie, si volle da taluni indagare negli scritti del Poeta quale fosse la sua fede politica e religiosa: e come accade che ognuno vede le cose del colore de’ suoi occhiali,