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lxxxiv prefazione

più forza ed efficacia che la veemenza e l’asprezza. Ma ciò è vero sempre? e dato che sia, può farsi colpa a chi corregge, se certe mancinate gli fanno perdere la gajezza e il sangue freddo, che si richiedono per non uscire dai termini? «Vi sono cose e persone nel mondo da far bestemmiare non so chi mi dire, scrive il Giusti; e pochi hanno l’orecchio alle arguzie lievi e quasi nascoste: e quando si tratta di averla a fare coi sordi, bisogna sonare a martello».1 Io avrei voluto vedere anche Orazio, di cui si ripete la sentenza che il ridicolo la vince sul serio, come avrebbe fatto a non rompere i cancelli, se invece di semplici trecconi falliti come Damasippo, dottori di gastronomìa come Cazio, villani rifatti come Nasidieno, e pigoloni incontentabili, e letterati seccatori;2 avesse avuto tra le mani dei furfanti di tre cotte come i Tigellini, i Crispini, i Neroni e i Domiziani. Son certo che in tal caso gli sarebbe scappata la pazienza, e avrebbe menato giù scudisciate di santa ragione, e senza badar troppo a misurarne la forza. Ma i grandi colpevoli, si dice, cadono sotto il rigore della legge; e a punirli deve pensarci il Procuratore del Re. Lasciamo che ufficio della satira non è veramente di punire; ma in primo luogo di correggere al possibile i malvagi, mostrando loro la deformità del vizio,

  1. Lett. 64, 65.
  2. Orazio, Sat., Lib. I, 1, 9. Lib. II, 3, 4, 8