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prefazione xli

senso morale, e studia il modo di migliorarne la condizione, senza sconvolgere gli altri ordini della società. Al pari di Tacito, Giovenale tanto amava il vero popolo, che sentiva ancora la dignità del nome romano, «quella plebe togata, dalla quale uscivano i dotti giureconsulti, li eloquenti oratori, e il fiore di quella gioventù che facea ancora rispettate le aquile latine sul Reno e sull’Eufrate;1 quanto detestava quella ciurmaglia che seguìa sempre la fortuna del vincitore, e gridava morte ai vinti, quella spensierata turba di Remo, che dimentica dei fasci, dell’impero e del comando delle legioni, di cui un tempo disponeva a sua posta, ora stavasene colle mani in mano, contenta della pagnotta e dei giuochi del circo».2 Solamente in questo senso potrà affermarsi che Giovenale fu ardente repubblicano. Ma chi pretende ch’ei fu nemico dell’impero e non degli uomini perversi che lo tennero, e fa di lui un altro Bruto, un altro Catone, esce fuori del seminato, e giuoca di fantasìa; poichè nè li scritti di lui, nè la storia, nè le condizioni del tempo gliene forniscono le prove; anzi ne porgono qualcheduna in contrario, come sono le lodi date a Trajano nella settima Satira: dalle quali egli si sarebbe certamente astenuto, se fosse stato in politica quel puritano, che sembra a certuni.

  1. Sat. VIII, 46.
  2. Sat. VIII, 77.