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prefazione xcvii

pochi vocaboli sconci alle orecchie di noi moderni; se qualche quadro, dove i vizj sono ritratti nella loro turpe nudità, bastano a meritare la taccia di uomini svergognati e senza pudore, che dovrà dirsi del principe degli oratori latini, il quale dinanzi alla maestà di quel Senato, che all’ambasciatore di Pirro era paruto un Consiglio di Numi, dipingeva coi più vivi e naturali colori le orgie di Verre, il cinismo di Clodio, le turpitudini di Antonio e i delitti di Catilina? Ma che parlo io di Cicerone? che dovrebbe dirsi dei Libri santi e di alcuni Padri e Dottori della Chiesa? Non parla apertamente S. Paolo di quell’infame delitto, che Giovenale fulmina nella satira nona? Chi può leggere oggi, senza sentirsi bruciare la lingua, la dissertazione d’Arnobio sulle processioni degl’idoli di Priapo; e la descrizione, che ci ha lasciato S. Epifanio, delle orribili e nefande disonestà che nei primi tempi si mescolavano alle sacre cerimonie da alcune società di cristiani?1 No, non sono poche parole prese di necessità dal vocabolario del bordello, nè qualche ritratto troppo fedele del vizio, che possano acquistare ad uno scrittore il titolo di disonesto e pericoloso. Disonesti io chiamo quegli autori che palpano e lusingano le umane passioni; pericolosi io dico quei libri, che presentano il vizio nella sua nudità soltanto per passatempo degli oziosi e dei libertini; e ne

  1. V. Monti in una nota alle Satire di Persio.