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lxxxviii prefazione

stringere il nodo, io sono di parere che la satira giocosa sia buonissima a tener divertita la brigata e anche a pungere tanti difettucci, che il più delle volte non guastano il galantuomo. Ma a scuotere da certi vizj, quando hanno preso possesso, e si sono confermati e corroborati nell’animo, non giovano le amenità, i frizzi e i motteggi: fa d’uopo la maschia eloquenza di Cicerone nelle Verrine; lo stile nervoso e senza frasche di Tacito; «la parola brusca» di Dante, e quel grido

   .   .   .   che fa come il vento,
Che le più alte cime più percuote.1

E Giovenale era spinto a questo genere non solo dalla materia gravissima, ma sì anco dal gusto allora dominante nella letteratura e nella filosofia. L’insegnamento della morale era divenuto come un sacerdozio. Lo Stoicismo, il quale facea consistere il sommo bene nella pace interiore dell’animo, che si ottiene vivendo secondo le leggi della ragione bene ordinata, ossia pigliando per regola di vita soltanto la virtù; avea cessato di essere una scienza puramente speculativa; e mirando alla pratica, era uscito delle scuole per ispandersi nel mondo. Ma, come è solito di chi vuole raddirizzare qualcosa, che deve torcerla di necessità dal lato opposto; così la setta delli Stoici, volendo contrapporsi agli eccessi del vizio, partoriti dalle comode e sensuali dottrine di Ari-

  1. Par., XVII, 126, 133.