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prefazione xcix

santi le dolci fatiche dell’intelletto, e non sanno apprezzare i segreti dell’arte vera.

Ma dunque, sento obbiettarmi, voi approvate in tutto e per tutto quel linguaggio così sguajato e inverecondo? No, io non l’approvo: e tanto è vero che, traducendo, più qua e più là mi son creduto in dovere di scostarmi alquanto dal testo, o velando certe immagini troppo nude, o temperando l’asprezza di certi vocaboli troppo espressivi. E ciò per rispetto ai miei lettori, se ne avrò; giacchè i nostri usi e le convenienze di società non permettono più una tale licenza di parlare: e al giorno d’oggi perfino i più fradici bagascioni pretendono di sapere e mettere in pratica il galateo, almeno della lingua. Solamente io sostengo, che non si deve dar troppo biasimo a Giovenale, se nell’impeto di una generosa bile non seppe talvolta frenare la lingua, e si lasciò sfuggire qualche parola, che alle nostre orecchie non suona castamente: e ciò tanto meno se non perdiamo di vista e il tempo in cui visse, e gli uomini, ai quali erano indirizzate le sue Satire, e non meritavano davvero tanti riguardi; e la qualità dei vizj che gli capitavano sotto la penna. Io vedo infatti che tutte quelle Satire, dove non gli occorre di doversi accapigliare col brutto vizio della lussuria, hanno tale verecondia d’imagini e castigatezza di parole, che potrebbero darsi senza scrupolo in mano ad una monaca. Finalmente quale alto concetto egli avesse del pudore,