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prefazione lxxxv

ed eccitando nei loro cuori il pentimento e il rimorso; in secondo luogo, d’impedire che il malo esempio di costoro seduca e corrompa i buoni: onde il vero satirico è da riguardare come un sacerdote di morale; e la satira, un utilissimo e forse il più nobile magistero, che sia riserbato alla poesia. Ma è poi vero che i grandi colpevoli sieno sempre puniti dalle leggi? Spesso le leggi non sono altro che tele di ragno, dove le mosche rimangono impigliate, e i leoni le attraversano, senza pure avvedersene; quando massimamente la spada della giustizia si trova nelle mani di chi è il primo a farla da leone. Quindi non è raro, come dice il Nostro, «veder commettere con diversa sorte li stessi delitti; e colle medesime sceleratezze, uno guadagnarsi la forca, un altro il diadema».1 Ma il poeta satirico, se non è mosso che dall’amor del bene, e ha il coraggio del suo dovere, può giungere il malvagio sempre, e anche là dove o la mancanza di testimoni o l’altezza del grado lo salvino dal Procuratore del Re. «O gente superba, infamatevi pure coi fatti, chè la storia v’infamerà cogli scritti». Questo grido di nobile minaccia, che erompe dal cuore di Carlo Botta dopo aver narrato un’infamia dell’osceno Luigi Farnese, può divenire più veracemente il segnale, con cui la satira dichiara la guerra ai tristi.

  1. Giov. Sat. XIII, 104.